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Il ruolo della conoscenza e dei processi di innovazione nella conservazione, valorizzazione e uso delle risorse genetiche

3.1 Un processo dominante della conoscenza: il trasferimento di tecnologia

Il modello prevalente che ha ampiamente regolato l’organizzazione dei processi di conoscenza nei paesi in via di sviluppo, e non solo, è il trasferimento di tecnologia (Transfer of Technology – ToT). In accordo con questa teoria, gli scienziati e i ricercatori hanno il compito di risolvere le procedure per definire i problemi e trovare le strategie di soluzione. Il modello assume un flusso lineare di prodotti tecnologici e delle informazioni. Anche se in pratica vi è una forte interazione tra attori economici, agricoltori e specialisti della ricerca, la tesi alla base del modello è che gli agricoltori sono meri beneficiari dei messaggi e delle tecnologie sviluppate e comunicate da parte di esperti, senza alcun ruolo attivo per la tradizione e la conoscenza locale. Il loro dovere è solo quello di eseguire un modello ben definito di pratiche agricole.

La maggior parte dei paesi in via di sviluppo ha ottenuto l’indipendenza solo nel corso della seconda metà del Novecento, scegliendo un modello di sviluppo basato su una organizzazione controllata dallo Stato sotto la direzione dei dipartimenti dell’agricoltura, delle stazioni di ricerca e delle università, puntando sull’agricoltura intensiva per accumulare capitali da destinare allo sviluppo dell’economia locale. I

134 Leach, M and Scoones, I (2006) 'The Slow Race: Making Technology Work for the Poor' , London: Demos

135 Borlaug, N.E., and C.R. Dowswell. (1995). The importance of agriculture and a stable adequate food supply to the well-being of humankind. In R.A. Goldberg (ed.) Research in domestic and international agribusiness management. Vol. 11. JAl Press, Greenwich, CT.

responsabili di governo erano solitamente persuasi dell’idea che la mancanza di accesso ai sistemi formali di conoscenza rappresentava un vincolo alla produzione.

Mentre i successi produttivi raggiunti dalla Rivoluzione verde hanno dato credibilità alle innovazioni tecnologiche introdotte in agricoltura, le politiche di sviluppo sono state indirizzate verso una sostenuta meccanizzazione delle pratiche agricole, l’utilizzo di sementi migliorate ad elevata resa e ad alto contenuto proteico, irrigazione, fertilizzanti e pesticidi chimici, e la creazione di grandi aziende specializzate, rifornite di input dalle multinazionali. Dopo i primi grandi successi, è risultato evidente che la produzione poteva aumentare solo con un ulteriore incremento degli input utilizzati. Sono emersi così i principali limiti della Rivoluzione Verde.

In primo luogo, nessun progresso tecnologico in agricoltura può adattarsi al clima, al suolo ed alle condizioni specifiche di ciascun territorio: sono infatti necessarie opportune modifiche per rendere compatibile tale innovazione tecnologica al contesto che la riceve e la applica.

Dal punto di vista socioeconomico, la Rivoluzione Verde ha spesso causato l’indebitamento dei piccoli agricoltori. Le varietà ad alta resa necessitavano infatti di input complementari, ma non sempre i coltivatori disponevano dei capitali necessari al loro acquisto. Essendo il sistema del credito imperfetto, nella misura in cui privilegiava i grandi produttori, i piccoli agricoltori hanno incontrato crescenti difficoltà a reperire il capitale d’investimento per una gestione remunerativa ed efficiente della propria terra. Non solo la loro performance è peggiorata ed il loro reddito è diminuito, ma in molti casi hanno dovuto vendere la terra a causa dei debiti contratti per rispondere all’aumento costante dei prezzi di sementi, fertilizzanti e pesticidi. Gli agricoltori con maggiori disponibilità finanziarie per contro hanno acquistato a basso prezzo i piccoli appezzamenti, ampliando le loro già grandi aziende. Il divario tra piccoli e grandi proprietari è progressivamente aumentato, e in breve tempo la rivoluzione che doveva sfamare i poveri e garantire un’equa distribuzione delle risorse e delle terre si è dimostrata accessibile solo ai ricchi.

In generale, le conseguenze ascrivibili alla rivoluzione verde possono essere sintetizzate nel controllo dei terreni, diretto o indiretto, da parte delle multinazionali chimiche e farmaceutiche, le quali influenzano le pratiche agricole, l’organizzazione e la gestione dell’intero sistema agroalimentare. Si consolida una situazione di quasi monopolio da parte delle multinazionali, in cui l’agricoltura è spinta verso la modernizzazione e l’industrializzazione, e l’agricoltore perde la proprietà dei mezzi di produzione (compreso il diritto di ripiantare le proprie sementi), e quindi la sua indipendenza. L’omologazione delle diverse tipologie di agricolture regionali al modello produttivistico comporta il progressivo indebolimento dell’agricoltura locale ed elimina la piccola proprietà contadina, la quale, incapace di sostenere il forte indebitamento necessario per l’acquisto degli input, vende la propria disponibilità terriera; si crea così una massa di disoccupati che si riversano nelle città, o migrano verso altri Paesi. I beneficiari della Rivoluzione Verde sono essenzialmente le classi medio-alte, che detengono le risorse per investire nei fattori di produzione; ne restano escluse dunque le classi meno abbienti, verso cui la Rivoluzione Verde era teoricamente indirizzata.

Dal punto di vista ambientale l’impatto della Rivoluzione Verde ha mostrato una serie di limiti che comprendono la salinizzazione, l’impoverimento dei suoli e la perdita di difese contro gli agenti erosivi, accelerando così il fenomeno della desertificazione. L’uso eccessivo degli input chimici e dell’irrigazione hanno acuito i problemi di inquinamento delle falde acquifere. Un ulteriore rischio ambientale deriva dall’introduzione della monocoltura: negli ecosistemi naturali, o anche artificiali, si sviluppano enormemente alcuni parassiti in agricoltura quando le monocolture stimolano una crescita delle loro popolazioni. Contro il loro proliferare si usano input chimici che possono comportare seri rischi per la salute umana e per l’ambiente.

La scomparsa delle specie locali e dei sistemi agricoli indigeni ha indotto gli agricoltori a passare dalle varietà geneticamente differenti coltivate da secoli alle nuove varietà ad alta resa. La perdita di queste piante è potenzialmente disastrosa poiché le varietà locali e i parenti selvatici posseggono dei geni validi che saranno necessari per i futuri miglioramenti vegetali. Le varietà tradizionali sono delle varietà sviluppate dagli agricoltori locali, utilizzando processi di selezione informali nel periodo in cui ogni agricoltore teneva una parte dei semi raccolti per poterli poi ripiantare. Ogni varietà locale era adattata al tipo di suolo e al microclima e veniva sviluppata per resistere agli stress biotici e abiotici che caratterizzano ciascun ecosistema. Nei riguardi delle malattie, la popolazione poteva non essere resistente ad un particolare organismo patogeno, ma probabilmente comprendeva individui mostravano tratti utili per la resistenza.

Lo sviluppo agricolo in senso stretto è stato così messo in discussione, a favore di una interpretazione più vasta in cui l’innovazione tecnologica e la crescita produttiva non possono prescindere dallo sviluppo del territorio e dal miglioramento delle condizioni di vita degli individui. Il concetto di sviluppo rurale sostenibile, abbracciando questa molteplicità di aspetti, porta in primo piano la necessità di esaminare tutti quei fattori che concorrono all’organizzazione ed alla trasformazione degli spazi agricoli, siano essi di portata locale, o sovralocale; e di collocare il territorio al centro di qualsiasi intervento volto al miglioramento delle condizioni di vita delle popolazioni.