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Produttività potenziale ed effettiva

BOX DI APPROFONDIMENTO

2.2 UNA VERSIONE REGIONALE BIG PUSH

2.2.2 Produttività potenziale ed effettiva

Prima di sviluppare il nostro modello regionale del Big Push introdurremo la definizioni di produttività effettiva e di produttività potenziale. Nei modelli precedentemente trattati gli autori assumono che via sia una sola impresa (monopolio) per ogni settore e, riprendendo la condizione secondo la quale si sceglie di produrre nei settori moderni, come nel modello di M. S., avremo che

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Camagni, R., (2002), On the concept of territorial competitiveness: sound or misleading?, Urban Studies 39, 2395–2411

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(1)

se i profitti sono positivi il monopolista sceglierà di investire e affrontare i costi fissi, F. Inoltre, questa funzione dipende dal livello di reddito della comunità (y), all’aumentare del quale aumenteranno anche i profitti. Questo meccanismo consente di legare la produzione al livello del reddito, consentendo alle esternalità pecuniarie di manifestarsi.

Un altro aspetto rilevante, discusso ampiamente nel primo capitolo, riguarda le esternalità tecnologiche o le economie di distretto. Ciò che vorremo fare nel proseguo del nostro lavoro è verificare la possibilità di inserire all’interno del modello un qualche meccanismo che tenga conto dei vantaggi scaturenti da un sistema specializzato ed integrato. La prima differenza rispetto al modello originario consiste, quindi, nel modificare l’assunzione secondo cui la produttività è costante, α, ed introdurre un ipotesi che ci assicuri un aumento di produttività o una riduzione dei costi marginali all’aumentare del numero di imprese che producono nei settori moderni. Quindi, nel nostro modello avremo costi marginali decrescenti e non più costanti.

Inoltre, se immaginiamo un’economia composta da più territori, risulta evidente che se valgono le condizioni secondo cui la funzione dei profitti è identica in ogni settore ed in ogni territorio e, in particolare che la produttività, α, è uguale dappertutto, allora non si capisce per quale motivo in alcuni territori si sviluppano imprese moderne mentre in altri no. La spiegazione potrebbe risiedere, come accennato prima, nel fatto che la produttività dipende dalla specializzazione dei settori attorno alle risorse immobili. Per meglio dire, si può immaginare uno scenario in cui all’aumentare del numero di imprese aumenti la produttività. Quindi il valore α, rappresenta la produttività potenziale ma non quella effettiva, che in questo caso sarebbe data dalla seguente relazione

(2) β = α n

in cui la produttività, β, cioè la produttività effettiva assume il suo valore massimo in corrispondenza di n=1, cioè quando tutti i settori moderni si sviluppano, e quindi

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con n comprese tra 0 e 1, e facile vedere che β aumenta all’aumentare del numero di settori che producono con le nuove tecnologie.

Date queste condizioni saremmo in presenza di territori che a causa di una mancata modernizzazione delle attività produttive presentano una produttività più bassa di altri territori, il che potrebbe giustificare la permanenza nei settori tradizionali. Difatti il moltiplicatore del reddito di un’economia moderna, considerato che tutti i settori sono sviluppati e quindi con n pari ad 1, si presenta nel seguente modo

(3) M =

Questa espressione implica che la produttività deve essere α >1, altrimenti il costo unitario variabile supera il prezzo e l’investimento sarà improduttivo e la produzione moderna non verrà posta in essere. Mentre in un’economia arretrata, nella quale bisogna tener conto non solo della produttività potenziale ma anche di quella effettiva, la condizione su espressa diventa

(4) M1=

Considerato che la prima condizione di profittabilità è data dalla differenza fra il prezzo di vendita e il costo, che nel modello in questione sono rispettivamente uguali ad 1 e ad 1/ , dovremmo avere che

la quale implica che ed

Per dirla in altro modo, la produttività del lavoro, α, deve essere superiore al suo costo marginale, che in quest’ultimo caso non è costante e pari ad 1/α, ma decrescente e pari ad 1/nα. All’aumentare del numero di imprese che si modernizzano il costo marginale decresce fino a raggiungere il suo valore più basso, quando n è pari ad uno e tutte le imprese si modernizzano, che è pari ad 1/α. Rappresentiamo graficamente (Fig .5) la differenza tra il prezzo e il costo marginale nei due casi, cioè con costo marginale costante, d = (1-1/ ), e con costo marginale decrescente, (1-1/αn). La nuova condizione (costo marginale decrescente) richiede la conoscenza del numero minimo di imprese nel settori moderni per cui vale la condizione di profittabilità dell’investimento.

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Figura 5 – Profittabilità dell’investimento

d

1

α=1 α=1/n α

Nostra elaborazione

Come si evince dal grafico (Fig. ), nel primo caso, la curva incontra l’asse delle ascisse per α = 1, quindi, per valori superiori ad uno il profitto unitario supera lo zero e tende al suo valore massimo che è pari al prezzo unitario dei beni prodotti, cioè pari ad uno. Nel secondo caso la curva incontra l’asse delle ascisse nel punto in cui α = 1/n. Il profitto unitario, in questo caso, compare solo per valori superiori a 1/n e tende anch’esso ad uno per α che tende ad infinito.

Adesso proponiamo una rappresentazione grafica (Fig. 6) al fine di meglio valutare quali implicazioni comporta la nuova assunzione, di costi marginali decrescenti, rispetto al modello originario di Murphy et al.

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Figura 6 – Funzione aggregata del reddito

Nostra elaborazione

Mentre la è la funzione di Murphy et al e rappresenta il reddito aggregato in funzione della frazione n dei settori industrializzati. In questo caso stiamo assumendo che i profitti sono positivi e quindi il monopolista sceglie di investire. È semplice osservare come all’aumentare di n il reddito cresce fino a raggiungere il suo valore massimo nel punto in cui n è uguale ad 1, cioè, nel punto in cui tutti i settori si industrializzano. La rappresenta il reddito minimo, dato dal lavoro nei settori tradizionali. Se la modernizzazione dell’economia dovesse dipendere dalla sola produttività potenziale avremmo costantemente, per ogni livello n di industrializzazione, un reddito superiore rispetto al caso di un’economia arretrata. Ma introducendo l’ipotesi di una produttività effettiva, che dipende dal numero di imprese (concentrazione) che si modernizzano nei vari settori, si configura uno scenario differente. Infatti la rappresenta il reddito aggregato tenendo conto della produttività effettiva ( ) e, dal confronto con la precedente funzione del reddito aggregato, quest’ultima si posiziona per ogni

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punto n ad livello di reddito decisamente più basso. Inoltre, come dicevamo prima, nei punti in cui n< 1/α il moltiplicatore diventa un demoltiplicatore. Infatti se si scegliesse di produrre ad un livello in cui n < 1/α il reddito della comunità locale diminuirebbe drasticamente non riuscendo a garantire il reddito minimo garantito dalla produzione nei settori tradizionali. A questo punto la comunità farebbe un passo indietro e tornerebbe a produrre nei settori tradizionali abbandonando la possibilità di modernizzare la propria economia.

Solo nel caso in cui si assistesse ad un modernizzazione massiccia potremmo raggiungere un equilibrio nel quale tutte le imprese si modernizzano. Ad essere precisi non basta solo posizionarsi in un punto in cui n> 1/ α, ma bisogna raggiungere il punto in cui l’effetto del moltiplicatore riesce a coprire anche i costi fissi, dando luogo ad un reddito superiore rispetto a quello che si otterrebbe in un’economia tradizionale. Bisogna, cioè, essere oltre il punto di incontro tra la funzione del reddito aggregato con produttività effettiva e la linea di reddito aggregato dell’economia tradizionale.