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La prospettiva psicoanalitica »

1.2 Interpretazioni esplicative e comprendenti »

1.2.2 La prospettiva psicoanalitica »

La prospettiva psicoanalitica pone al centro della sua analisi la realtà intrapsichica dei soggetti. Non esclude la realtà esterna, ma la prende in considerazione mettendola in continuo e dinamico rapporto col mondo interno degli individui.

“In quest’ottica lo sviluppo è visto come un processo che evolve attraverso l’interazione tra un soggetto attivo, caratterizzato da competenze, bisogni, spinte pulsionali, affetti peculiari, che agisce sulla realtà esterna e che contemporaneamente ne riceve stimoli elaborandoli in modo soggettivo, e l’ambiente esterno, anch’esso con caratteristiche particolari, che a sua volta stimola ed è stimolato”52.

Secondo questa prospettiva le difficoltà di apprendimento deriverebbero, più che da problemi cognitivi o socio-culturali, da un mondo interno dell’allievo emotivamente poco disposto ad apprendere poiché impegnato nella difesa dalla percezione di emozioni dolorose quali confusione, inadeguatezza ed ansia.

La difesa da queste emozioni negative e distruttive, che insorgono in particolare se non c’è stata una adeguata cura materna che ne abbia facilitato il contenimento, spegne anche l’attenzione, la curiosità e l’interesse verso l’apprendimento, rendendolo un’attività priva di coinvolgimento emotivo che dà risultati labili e superficiali.

L’apprendimento non sarebbe infatti il semplice risultato dell’acquisizione di qualcosa che proviene dall’esterno, ma le acquisizioni sarebbero mediate dal mondo interno del discente. Le sue emozioni, i suoi affetti, le sue fantasie filtrerebbero la percezione e l’introiezione degli oggetti esterni.

Il mondo interno si sviluppa attraverso il primo rapporto che il bambino vive nell’interazione con la madre, con il suo corpo, con i processi nutrizionali. E’ così che il bambino sviluppa quello che potrebbe essere definito un “filtro percettivo” attraverso il quale media il rapporto con il mondo esterno.

L’apprendimento si sviluppa come fenomeno non esclusivamente intellettuale o neurologico, dunque, ma è legato alle vicissitudini emotive, allo sviluppo affettivo.

La scuola si occupa invece dell’allievo solo a livello intellettuale, come se gli aspetti emotivi non facessero parte del processo di insegnamento-apprendimento. “Questa scissione è promossa dall’istituzione scolastica e si perpetua sia perché non sempre gli insegnanti sono

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E. Pelanda, Il dolore psichico: una chiave di lettura dell’abbandono scolastico, in O. Liverta Sempio, E. Confalonieri, G.Scaratti (a cura di), op. cit., p.201.

ben consapevoli della sua incidenza, non solo nel favorire l’apprendimento ma soprattutto nell’ostacolarlo, sia perché, in ultima analisi, non sono preparati a gestire questi aspetti e utilizzarli, né qualcuno glielo insegna”53. Occorrerebbe invece che la scuola riconoscesse gli aspetti che spesso ostacolano l’apprendimento, ricongiungendo la dicotomia tra aspetti cognitivi ed emotivi dell’apprendimento, e che preparasse i suoi insegnanti a comprenderli ed a gestirli, promuovendo negli allievi la disponibilità ad apprendere.

Infatti “non è importante aumentare la quantità di informazioni, ma la disponibilità ad apprendere, ovvero lo spazio mentale disponibile a ricevere nuovi dati e nuove esperienze.”54

Il vero apprendimento è di tipo qualitativo piuttosto che quantitativo, e comporta un cambiamento nel modo di essere.

In una buona relazione di insegnamento-apprendimento, come nella relazione madre- bambino, non vengono esclusivamente trasmessi capacità o contenuti, ma una modalità di contenimento dell’ansia e della frustrazione attraverso un aiuto a pensare la preoccupazione e la confusione che si generano quando si cerca di apprendere nuove abilità, nuove possibilità, quando non si sa se si riuscirà o si fallirà, quando insomma si affronta l’ignoto. Si apprendono dunque non solo conoscenze e strategie, ma un modello di relazione ed un modello di pensiero in grado di riconoscere ed elaborare i fattori affettivi ed emotivi piuttosto che espellerli fuori da sé in forma di agiti.

La madre dovrebbe aiutare il bambino a dare significato alla propria esperienza ed anche ai suoi sentimenti più distruttivi. Non sempre però riesce ad affrontare questo compito emotivo gravoso ed allora si dedica solo alle cure fisiche e pratiche con rituali e controlli rigidi. A seconda del tipo di cure praticato si costituirà una mente ricca di funzioni introiettive, perché in grado di contenere ansia, vissuti di inadeguatezza, frustrazione, piuttosto che una mente caratterizzata da funzioni espulsive con perdita di capacità intellettuali e potenzialità di sviluppo.

Se prevalgono nel soggetto vissuti infantili di odio, sfiducia, persecuzione, confusione, il soggetto tende a far uso massiccio di proiezioni per allontanare da sé questi sentimenti pericolosi e difendersene e quindi le operazioni introiettive dell’apprendimento troveranno un ambiente interno negativo ed ostile. Se invece il contenimento adulto ha generato la possibilità di gestire la sofferenza psichica, i sentimenti ostili non invadono anche la parte più costruttiva della persona e i processi introiettivi possono verificarsi.

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G. Blandino, B. Granieri, La disponibilità ad apprendere, Raffaello Cortina Editore, Milano, 1995, p. 24.

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Per evitare di sentire sentimenti dolorosi di confusione, inadeguatezza, frustrazione che non si sanno contenere, pensare e gestire, si congelano dunque anche quelli di curiosità, interesse, speranza. Si spengono le emozioni e il reale interesse per l’attività scolastica e si spegne il contatto vivo con quella esperienza.

“La relazione conoscitiva si pone allora con un soggetto che non è più in un contatto vivo e partecipe con se stesso e con gli altri. In altre parole, anche se l’allievo continua a rispondere alle richieste e alle regole della realtà scolastica, il rapporto con i docenti, con i compagni, con ciò che deve essere appreso è superficiale, non animato da emozioni e da un reale interesse; è piuttosto un gioco finalizzato al raggiungimento di un buon rendimento scolastico in quanto condizione che evita complicazioni emotive e assicura vantaggi e gratificazioni narcisistiche. In altre parole, si assiste a una scissione fra gli aspetti emotivi – affettivi e quelli cognitivi. Lo spazio che separa dalla conoscenza diviene senza vita, così come il soggetto che l’attraversa conosce con una mente anestetizzata, congelata, privata di parti di sé” 55.

Colui che deve apprendere smorza quei sentimenti e quelle emozioni che dovrebbero caratterizzare ogni incontro con una realtà non ancora conosciuta e la conoscenza diviene sterile e non realmente trasformativa.

Poiché, come si è detto, l’apprendimento è qualcosa che espone a vissuti di paura ed inadeguatezza, che fa sentire inermi di fronte alla nuova esperienza, occorre che l’insegnante aiuti l’allievo ad elaborare questi vissuti. Il non essere attrezzati da parte del docente a saper affrontare la fatica emotiva di questo lavoro incide sulla qualità della conoscenza che si produce a scuola, che rischia di essere frammentata, nozionistica, labile ed insignificante, una cultura superficiale che non coinvolge l’individuo nel suo insieme attraverso il processo anche emotivo di destrutturazione e ristrutturazione che un reale sapere comporta.

La funzione docente può essere per certi versi assimilata, quindi, a quella genitoriale nel suo ruolo di contenimento e di mentalizzazione dei vissuti emozionali e relazionali degli aspetti più difficili dell’esperienza di apprendimento.

L’insegnante deve allora non solo conoscere l’allievo per poter programmare, ma deve saper ascoltare, osservare, comprendere e gestire le dinamiche emotive e relazionali coinvolte nell’apprendimento.

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Ma “questa capacità coinvolge anche le dimensioni affettive più profonde dell’insegnante, in quanto egli deve essere in grado di tollerare come propri i vissuti che l’allievo evoca in lui quando agisce il proprio disagio psichico sotto forma di comportamenti aggressivi e di rifiuto al compito, o di ribellione alle più elementari regole di vita scolastica, o in forme di ritiro in se stesso”56.

Questi atteggiamenti possono provocare nell’insegnante sentimenti di inadeguatezza, di incertezza sul da farsi, di rabbia e frustrazione che egli deve essere messo in grado di gestire perché si realizzi una buona relazione educativa.

“Una mente che funziona in modo massicciamente proiettivo, infatti, non solo indebolisce le sue potenzialità cognitive, ma crea un disturbo relazionale. Lo spazio relazionale dell’allievo viene invaso, inondato da sentimenti distruttivi che non hanno più alcun legame con la mente che li ha prodotti, al punto che egli non può essere consapevole di averli generati. Questo rischia di spodestare l’interlocutore-insegnante che si ritrova in presenza non solo di situazioni spiacevoli o problematiche, ma di un allievo-mente che sembra far di tutto per non riconoscere la paternità di quei sentimenti. Si può ora iniziare a comprendere come la difficoltà di apprendimento, più spesso di quanto non si creda, non sia legata a un deficit di strumenti di tipo logico e culturale né a una semplice inadeguatezza di strategie cognitive, ma a un particolare uso di sentimenti distruttivi che la mente non è in grado di metabolizzare. Infatti una mente così impegnata a proteggersi da un pericolo interno ed esterno autoprodotto riduce la propria disponibilità a occuparsi in modo adeguato di un compito di apprendimento”57.

L’alunno è così impegnato ad affrontare la propria sofferenza che non c’è spazio per altro e l’insegnante si sente rifiutato perché, il più delle volte, il disagio emotivo dell’allievo genera comportamenti aggressivi e disconfermanti di cui egli non comprende il significato.

L’insegnante, sentendosi a sua volta minacciato, spesso reagisce con atteggiamenti aggressivi, punitivi, condanne moralistiche o consigli di maniera, senza comprendere quelli che sono dei meccanismi di difesa e di chiusura dell’alunno.

Il docente dovrebbe essere in grado, invece, di gestire le proprie reazioni emotive, così come dovrebbe essere capace di restituire all’allievo, mediati dalla propria tolleranza e dalla propria riflessività, i suoi stati interni, mentalizzandoli in modo che l’allievo possa

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Ivi, p.65.

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riconoscerli e mentalizzarli lui stesso, piuttosto che trasformarli in atti aggressivi, comportamenti indisciplinati o passività cognitiva.

L’insegnante dovrebbe saper comprendere il dolore, le ansie, le frustrazioni che l’apprendimento comporta, sostenendo l’allievo nel difficile compito che lo aspetta, rassicurandolo nelle sue paure, così che possa tenere vivi l’interesse e le emozioni implicate nel processo della conoscenza.

Nella prospettiva della teoria psicoanalitica che, considera l’apprendimento come filtrato dall’organizzazione del mondo interno della persona, le difficoltà di apprendimento e l’insuccesso scolastico sono dunque da far risalire non solo ad aspetti razionali e cognitivi, ma a problematiche emotive e relazionali profonde. Questo spiegherebbe inoltre perché anche alunni senza situazioni di disagio socio-culturale manifestino sempre più difficoltà di apprendimento ed atteggiamenti scolastici inadeguati, aggressivi o di ritiro in se stessi.

Il rifiuto dell’alunno verso le attività scolastiche, gli atteggiamenti aggressivi nei confronti degli insegnanti o dei compagni, l’estremo ritiro in sé, l’incapacità di applicarsi proficuamente ai compiti di apprendimento, sono tutti comportamenti attraverso i quali può essere agito il disagio emotivo degli allievi, e che non possono essere affrontati attraverso i tradizionali strumenti di cui l’insegnante dispone.

I processi che si sono descritti assumono particolare rilevanza durante l’adolescenza, età durante la quale avviene, nella maggior parte dei casi, l’abbandono scolastico. “L’adolescenza è infatti caratterizzata da una profonda alterazione dell’equilibrio narcisistico: è finito il tempo del rifornimento narcisistico derivante da una consapevolezza, più o meno realistica, delle proprie capacità. Alla perdita delle certezze passate fa fronte l’incertezza rispetto al futuro e alle proprie nuove possibilità”58.

L’adolescente, dunque, abbandonate le certezze infantili sul proprio sé, cerca riscontri rispetto alla propria identità ed al proprio valore e nuovi investimenti nella realtà esterna. La scuola, da questo punto di vista, costituisce un oggetto estremamente significativo e tutt’altro che emotivamente neutro. Intorno ad essa vivono fantasie ed aspettative, sia da parte dell’adolescente che della sua famiglia. Essa, anche se a volte apparentemente svalutata, costituisce uno dei più importanti banchi di prova per la ricerca di un’identità adulta.

Da queste considerazioni risulta evidente come il fallimento e l’abbandono scolastico costituiscano per l’adolescente un evento drammatico.

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“Solitamente le difficoltà scolastiche e il disinteresse per l’apprendimento sono già presenti nella scuola elementare e media con conseguenti fallimenti più o meno eclatanti. La scuola è quindi un luogo di ulteriore frustrazione e di scacco. Inizialmente mancano gli strumenti per apprendere, o meglio, per conseguire apprendimenti significativi, successivamente la mancanza iniziale diventa sempre più ampia, rinforzata dall’effettiva carenza nelle competenze scolastiche. Il ragazzo continua a vivere un sé fallimentare, sul quale è sempre più difficile fare investimenti positivi. Il presentarsi delle trasformazioni adolescenziali, che, come abbiamo visto, mettono duramente alla prova l’equilibrio narcisistico e il funzionamento del pensiero, accompagnato dalle richieste più elevate che la scuola superiore, qualunque essa sia, pone, non fa che esacerbare una situazione di grande disagio preesistente. La sola possibilità che il ragazzo può trovare è così molto spesso quella di lasciare la scuola nel tentativo di evitare ulteriori scacchi e nella speranza di trovare vie alternative che gli consentano di uscire da un circolo vizioso drammatico”59.

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