IL TRAMONTO DELLA "CLAUSOLA DELLA NAZIONE PIO FAVORITA
Il vecchio aforisma del pessimismo politico vulgus vuìt decipi sembra trovare da alcuni anni in qua la sua dimostrazione inconfutabile nella contraddizione, colla quale quasi tutti i governi dell'Europa, mentre a parole si professano fautori ferventi del libero-scambio, nel fatto vanno a gara per distruggerne quelle poche traccio che la grande guerra ed i conseguenti trattati di pace e di fallace ricostruzione europea avevano lasciato sussistere.
Non passa quasi giorno senza che l'uno o l'altro degli attuali uomini responsabili di governo riconosca e denunci apertamente, par-lando bene inteso non di sè, ma dei suoi colleghi, l'assurdità rovinosa del protezionismo generale, ed invochi un accordo mondiale, o per lo meno europeo per il ritorno ad un sistema ragionevole di rapporti e di scambi commerciali. Nel tempo stesso tuttavia, i medesimi uomini operano nel modo diametralmente opposto, escogitando e sanzionando ogni giorno, ciascuno di essi per proprio conto, nuove leggi e nuovi decreti tendenti ad accrescere, ora con un pretesto ed ora con un altro, la stragrande moltitudine degli impedimenti alla libertà del commercio internazionale, ed a fare di ogni paese, secondo i principi oggi di moda del « nazionalismo economico », un mercato autonomo e chiuso ai prodotti degli altri paesi, colla sola eccezione di quelle poche materie prime e derrate alimentari assolutamente indispensabili, che nessun artificio di dogane o di favori governativi riuscirà mai a fare scoprire nei luoghi dove la natura le ha negate, ed a fare produrre a costi non del tutto proibitivi su terreni ed in climi disadatti.
Anche per cotesto pochissime merci, per le quali i più fanatici asser-tori del « nazionalismo economico » dovranno sempre ammettere una lacuna ed imo strappo alla loro concezione teorica dello stato sovrano ed onnipotente, a giudicare da quello che sta avvenendo dovunque, lo' scopo che evidentemente si persegue e si cerca di raggiungere non è già
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quello (li una ristretta libertà di commercio, ma bensì di sostituire a questa, ed alle transazioni privato tra gli importatori e gli esportatori dei vari paesi, un complicato e farraginoso sistema di accordi compensati fra i paesi interessati, con monopoli concessi ad enti, od a gruppi privi-legiati assai simili alle antiche compagnie patentate inglesi ed olandesi per il commercio colle colonie di oltremare.
È superfluo di ricordare quanto gli scandali e gli abusi di quelle famose compagnie, magistralmente diagnosticati nella loro causa fisio-logica della soppressa libertà di concorrenza nell'opera immortale di Adamo Smith, avessero contribuito alla formazione di quel mirabile movimento di opinione popolare che, con esempio unico nella storia, condusse l'Inghilterra, verso la metà del secolo xix, alla grande ed ora abbandonata sua riforma libero-scambista.
Per certo, dagli antichi divieti e privilegi di commercio si differen-ziano ben poco i nuovi espedienti doganali, con cui, da parte di quasi tutti i governi, si tenta di fare rivivere i peggiori tempi del sistema mer-cantile e del commercio regolato da un complesso di vincoli e di favori-tismi che fanno a pugni colla moderna civiltà industriale sorta dalla libertà della concorrenza, di cui è fondamento e cardine essenziale l'inter-dipendenza economica del mondo intero, senza distinzione di parti-colarità etniche e di conglomerati politici.
Tutto l'arsenale caduto in disuso dei ferravecchi protezionistici ò stato in questi ultimi anni spolverato alla meglio e rimesso in opera, ed esso va ogni giorno arricchendosi di qualche nuovo congegno più o meno bene trovato allo scopo di dare un nome meno ripugnante alla violazione dello spirito e della lettera dei trattati di commercio, dai quali è oramai bandito qualsiasi principio di vantaggio reciproco.
Non è necessario di rammentare la grande importanza che la cosi-detta e clausola della nazione più favorita » inserita in tutti i trattati di commercio che susseguirono, inspirandosi ad esso, quello storico, nego-ziato da Riccardo Cobden e da Michele Chevalier, nel 1860, tra l'Inghil-terra e la Francia, ebbe nello sviluppo rapido e grandioso di quel liberale sistema di scambi, a cui l'Europa dovette per la massima parto l'èra magnifica di pace e di prosperità economica che essa potè godere nella seconda metà del secolo xix (1).
Già nella reazione protezionistica che si manifestò in Europa a causa della crisi agraria (rincaro dell'oro e conseguente ribasso dei
(1) Per i precedenti storici della « clausola della nazione più favorita » si può consultare la pubblicazione della nostra direzione generale dello gabelle (Ufficio trattati e legislazione doganale) La clausola della nazione più favorita, Roma, 1912.
La concessione spontanea ed incondizionata del trattamento della « nazione più favorita » noi trattati di commercio conclusi per il Regno di Sardegna nel 1850-1851 dal conto di Cavour era stata uno dei mozzi, coi quali il grande ministro piemontese, ammiratore ed "emulo della riforma doganale inglcso del 1846, si era proposto di superare gli ostaooli e di ridurre al minimo gli inconvonienti transitori del passaggio da un regimo di elevato e rigido protezionismo ad uno di larga ed audaco libertà commereiaio.
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prezzi dei cereali e dei noli marittimi, accresciuto dalla concorrenza delle nuove colture transoceaniche) verso il 1880, la « clausola della nazione più favorita », e con essa la buona fede nell'interpretazione dei trattati di commercio, cominciarono a subire alcune pericolose insidie. Fu appunto allora che ebbero fortuna le prime grossolane ipocrisie dei regolamenti igienici e sanitari per impedire, in barba ai trattati di commercio, le più temute importazioni. È memorabile la campagna fatta in quel torno di tempo dai giornali esponenti degli interessi agrari sul continente europeo per diffondere nel pubblico dei consumatori il terrore della spaventosa « trichina » scoperta col microscopio
unica-mente nei prosciutti e nei lardi americani.
Il sistema ebbe poi applicazioni continue e sempre più vaste. Le epidemie del bestiame e le malattie parassitarie dei vegetali (viti, fiori, alberi da frutta e persino le umilissime patate) furono metodica-mente riscoperte e sfruttate ogni volta che si trattava di avere un pretesto per sospendere ed ostacolare una importazione che riusciva molesta a qualche gruppo potente di produttori nazionali.
Un altro mezzo in seguito largamente adoperato, che già rivelava l'animo preordinato per limitare al massimo l'applicazione della « clau-sola della nazione più favorita » e per eluderla e falsificarla nella pra-tica quotidiana, è stato quello di moltiplicare dappertutto le « voci » e specificazioni delle tariffo doganali in modo da potere poi negare ai più quello che non si era potuto fare a meno di concedere a qual-cheduno; e di giocare senza fine di equivoci sulla portata delle singole concessioni (1).
Ma tutti gli espedienti studiati ed attuati già prima della grande guerra erano inezie e semplici giuochi da fanciulli in confronto a ciò che è accaduto negli anni più recenti, col risultato di avere ridotto dovunque la « clausola della nazione più favorita » ad un mero zimbello nei trat-tati e nelle convenzioni di commercio.
Non mi posso proporre di numerare e descrivere in poche pagine tutti i trucchi, coi quali la « clausola della nazione più favorita » ò stata resa puramente decorativa nei vigenti trattati di commercio.
Lo tariffe generali, colle diecine di migliaia delle loro « voci » e « sotto-voci » e coi complicatissimi richiami alle note e definizioni dei repertori, sono diventate dei veri gineprai irti di inganni e di trappole per quei
(1) Cosi, volendosi accordare ad un paese per qualche suo prodotto un trattamento che sfuggisse all'obbligo generale di estensione agli altri paesi suoi concorrenti, si determinava nel trattato di commercio il luogo preciso di produzione, o qualche particolarità per sé stessa di nessuna importanza della merco ammessa al benefizio di un dazio ridotto. A questo modo si differenziavano i vini di Croazia e di Ungheria da quelli francesi; gli olì minerali più souri da quelli più chiari; e si rendeva necessario di aggiungere alle ammini-strazioni doganali dei singoli paesi laboratori scientifici riccamente dotati ed attrezzati allo scopo di accertare esattamente i pesi specifici e le proprietà fisiche e ohimiche di tutto le sostanze organiehe ed inorganiche, a seconda della loro diversa provenienza.
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negoziatori che ancora ingenuamente si accingessero a discutere ed a concludere un trattato di commercio colla vecchia mentalità di giungere ad accordi positivi da essere applicati e rispettati con lealtà scrupolosa da entrambe le parti contraenti.
Ad evitare di incappare in alcuno dei tanti tranelli, e nello stesso tempo per non dovere esercitare il coraggio di resistere come sarebbe necessario a gruppi di interessi particolari potenti e politicamente orga-nizzati contro l'interesse pubblico, si è lasciata prevalere la pratica del
modus vivendi provvisorio e dei trattati di commercio di breve durata, dcnunciabili a qualunque momento, con un preavviso di pochi mesi, ad arbitrio di quella parte la quale creda di avere il tornaconto immediato di venire meno agli obblighi assunti.
Non è chi non veda come, in questo stato precario dei trattati di commercio, essi hanno perduto completamente quello che fu già in passato il loro più apprezzato vantaggio, vale a dire la fiducia e tran-quillità clic essi davano ai produttori ed ai negozianti dei paesi contraenti di potere con piena sicurezza attendere allo sviluppo delle loro imprese, senza il continuo pericolo di una improvvisa chiusura dei mercati che essi erano riusciti ad aprirsi e ad assicurarsi mediante lunghi sforzi meritori, e, spesso, impiegandovi buona parte dei loro capitali d'impianto.
Oramai, anche la denuncia di un trattato o di una convenzione di commercio è diventata un gesto superfluo di sincerità di fronte ai molti mezzi che si sono trovati per lasciare sussistere l'atto scritto, annul-landone praticamente gli effetti. La pratica di cotesti sotterfugi essendo universale, se ne può discorrere con intera libertà di parola, senza il timore di essere male interpretati, o di fare allusione che possano ferire le legittime suscettibilità di un particolare popolo o paese.
Sino a qualche tempo fa, tra i grandi paesi, faceva ancora una onorevole eccezione la Gran Bretagna, la quale, avendo tutte le sue convenzioni commerciali ridotte sostanzialmente alla semplice « clausola del trattamento incondizionato ed illimitato della nazione più favorita», interpretava e manteneva il suo impegno nel modo più ampio ed inequi-vocabile, sino a quando rimase fedele al principio autonomo del libero-scambio; o, per meglio dire, in un mondo diventato protezionista, delle libero importazioni.
Una prima e lieve eccezione a quel principio fu introdotta nella Gran Bretagna col sistema delle « preferenze imperiali » per parecchi anni limitate a pochissimi prodotti — principale lo zucchero —, i cui dazi essenzialmente fiscali furono notevolmente ridotti a favore delle prove-nienze dai « dominions » e dalle colonie soggette al diretto governo della corona britannica.
Sino a quando le cose rimasero a questo modo, i paesi legati alla Gran Bretagna colla « clausola della nazione più favorita » avevano ben poco motivo di lagnarsi in confronto a quella che era la loro condotta
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quotidiana per cercare di sottrarsi agli obblighi imposti da tale clausola, anche se i « dominions » autonomi della corona britannica — il Canadà, l'Australia, la Nuova Zelanda, il Sud-Africa e, per ultimo, lo Stato libero di Irlanda — siano ora coi loro sistemi doganali nei riguardi del commercio mondiale dei veri o propri stati indipendenti e concorrenti cogli altri stati esteri fornitori del mercato inglese.
Quando però, coll'avvento del nuovo governo di coalizione, la Gran Bretagna finì per dare un calcio al suo glorioso free tracie per entrare decisamente nella via del protezionismo propugnato dai suoi tariff
reformers, si mise anche essa, coll'aumentare le « preferenze imperiali » e col sistema di nuova invenzione delle « quote » e dei « contingenti », ad eludere, a danno degli stati che non fanno parte dell'impero britan-nico, la bona fides dei trattati e dello convenzioni di commercio aventi per base la « clausola generale, illimitata ed incondizionata della nazione più favorita ».
Di passo in passo, nella via delle restrizioni e degli strappi, si è giunti così alla recente convenzione di Ottawa, nel cui preambolo i governi dei vari stati componenti l'impero britannico hanno preteso ipocritamente di volere contribuire allo stabilimento di scambi più liberi in tutto il mondo, nel mentre stesso che addivenivano tra di essi ad un sistema di preferenze imperiali di carattere ultra-protezionistico, il quale, dato che possa avere gli effetti che i suoi apologisti se ne sono ripromessi, dovrebbe rendere i mercati britannici pressoché impenetra-bili per le merci ed i prodotti dei paesi stranieri.
Una scusa od attenuante per gli ex free traders che, come gli attuali ministri degli esteri e del commercio, sir John Simon e Mr. Walter Bnnciman, sono rimasti nel gabinetto britannico che ha in questo modo rinnegato la grande riforma di Riccardo Cobden, di sir Robert Peel e di W. E. Gladstone, può essere la speranza, espressa in un momento di ingenua espansione dal primo ministro, Mr. Mac-Donald, che il miglioro modo di educare i popoli al libero-scambio sia quello di fare loro esperi-mentare i danni del protezionismo generale ad oltranza.
Checché si possa dire o credere della virtù educatrice del protezio-nismo, conviene riconoscere che la conferenza di Ottawa ha già avuto il salutare effetto di porre fine ad ima coalizione assurda ed innaturale, in cui dei free traders convinti ed impenitenti si erano prestati per ragioni politiche di ordine contingente ed oramai superato a fare nel governo e nel paese il giuoco dei loro avversari protezionisti, tollerando, contro i solenni impegni elettorali del gabinetto di coalizione, che la politica protezionistica fosse introdotta subdolamente nello Statute-Book inglese, senza una previa, chiara e sincera consultazione del corpo elettorale. In questo Benso, la convenzione di Ottawa ha avuto un utile risultato chia-rificatore, facendo cessare un deplorevole e dannosissimo equivoco.
D'altra parte, bisogna riconoscere nn fatto, ani quale ho io stesso molte volte insistito; ed è ohe, nelle attuali condizioni del mondo, non
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esiste più la possibilità di soluzioni puramente locali e nazionali dei problemi economici e commerciali.
Ai tempi di Cobden e della « Lega di Manchester », un grande paese commerciale, come era l'Inghilterra, fornitrice allora pressoché incon-trastata di manufatti industriali a tutto il mondo, poteva appagarsi nella sua politica di libere importazioni della garanzia che ai suoi traffici esterni dava la clausola onestamente intesa ed applicata del tratta-mento della nazione più favorita.
La situazione è ora profondamente mutata. Il commercio del mondo si può oggi paragonare ad un grandissimo fiume, il quale lasciato libero nel suo corso naturale che non conosce confini di territorio politico, fornisce abbondantemente di acque vitali e fecondatrici le campagne ed i paesi che attraversa, ma che, se taluno ha la pazza idea di volerlo trattenere o di farlo risalire alla sua sorgente, rompe ed abbatte violen-temente ogni ostacolo od argine artificiale, e straripando semina la rovina e la devastazione nelle terre che dovrebbe beneficare.
Non altrimenti è avvenuto nei riguardi del commercio mondiale di tutti gli espedienti protezionistici, non escluso quello della inflazione monetaria e dell'abbandono, in molti paesi voluto, dello standard-oro, che dalla guerra in poi si sono tentati, più o meno, dappertutto nella opinione di potere così prevenire o combattere la « crisi », inevitabile conseguenza essa pure delle immani illusioni e distruzioni della guerra.
Il solo risultato di tanti studi e di tanti sforzi male consigliati e diretti è stato quello di giungere, dopo un periodo di allucinazione, nel quale il rincaro generale dei prezzi prodotto dalla moltiplicazione dei segni monetari di carta fu creduto vera e durevole ricchezza, alla « crisi » senza precedenti, in cui da più di tre anni il mondo intero si dibatte, senza che i suoi governanti abbiano ancora capito che l'unica salvezza possibile consiste nel ripudiare gli errori funesti del generale « nazio-nalismo economico », e nel restaurare nel modo oggi più efficace e più pronto un sistema di larghissima libertà nei traffici internazionali.
A tale scopo, oggi occorre soprattutto che, attraverso ad un movi-mento di pubblica opinione, diffuso e profondò, i vari governi si persua-dano che non è più il tempo di fare delle discussioni inutili, o di dilet-tarsi ad invocare la panacea teorica di un libero-scambio assoluto per adesso troppo lontano, ma che è venuto invece il momento di passare dalle parole agli atti, e di abbattere senz'altro, per intanto, tutte le nuove barriere e strutture doganali che a gara hanno elevato negli ultimi anni, considerando questa urgente riforma come la condizione prima e pregiudiziale per risolvere gli altri ponderosi ed assillanti problemi dei « debiti di guerra » e del « disarmo militare ».
Il protezionismo dovunque dilagante è stato, se bene si riguarda, la causa per la quale gli stati ex-belligeranti dell'Europa hanno commesso il grave errore di non porre chiaramente sin dal principio la questione dei debiti di guerra nei suoi termini esatti agli Stati Uniti di America.
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Quella che, con frase fortunata, Mussolini ha definito la « tragica conta-bilità della guerra », sulla quale egli vorrebbe ora giustamente gettare il « colpo di spugna », non si sarebbe mai formata, se i governi responsa-sabili degli stati europei debitori avessero sin dal principio tenuto al governo degli Stati Uniti questo semplice linguaggio: « Noi non ci rifiu-tiamo di pagare gli interessi e di fare in un tempo congruo la restituzione dei prestiti che voi ci avete accordati per la causa comune della guerra, ma, come i nostri debiti risultano per la massima parte da forniture di merci che, durante la guerra ed immediatamente dopo la guerra, voi ci avete fatte a prezzi che non potemmo allora liberamente discu-tere, così noi domandiamo, ed abbiamo il diritto di domandare che la restituzione — interessi e capitale — avvenga ugualmente in merci da esserci accreditate agli equi prezzi ora determinati dalla concorrenza internazionale ».
Anche oggi, sebbene in ritardo, un simile linguaggio può essere util-mente tenuto. Anzi, esso trova oggi il vantaggio di essere conformo alle vedute del nuovo presidente-eletto americano, il quale nei suoi recenti discorsi elettorali, mentre si ò professato contrario alla cancellazione pura e semplice dei crediti di guerra verso l'Europa, ha esplicitamente dichiarato di essere disposto ad agevolarne e facilitarne il pagamento nel solo modo possibile, cioè in merci e prodotti dei paesi debitori. Questa è una attitudine veramente ragionevole e da vero uomo di stato, nella quale il nuovo presidente-eletto Roosevelt sa ora di avere con sè e dietro di sè concorde e compatta, la enorme maggioranza del grande popolo che gli ha affidato con manifestazione inconsueta di fiducia il supremo e quasi dittatoriale potere politico per il prossimo quadriennio. Senza dichiararsi in nessun modo libero-scambista, ma compren-dendo la élite intellettuale cho ha già avuto il coraggio di tale procla-marsi, la maggioranza degli elettori che ha votato per Roosevelt e le nuove camere legislative democratiche, comprende la moltitudine dei produttori agricoli ed industriali degli Stati Uniti, i quali oggi sentono come non mai sentirono in passato il bisogno di aprirsi nuovi mercati per dare sfogo agli stocks invenduti delle loro derrate e delle loro merci, e per riprendere, con nuova lena e con ritmo meno soffocato la loro inter-rotta attività produttiva, prima di vedere i loro impianti tecnici com-pletamente svalutati e distrutti dalla continuazione della « crisi ».
Il concetto dei trattati di commercio a base di larga reciprocità e di liberali concessioni a paesi che siano disposti dal canto loro ad offrire corrispettivi adeguati, è oggi quello che solo può costituire una solida piattaforma di azione politica per il nuovo governo che assumerà il potere negli Stati Uniti nel marzo del prossimo anno 1933 (1).
(1) Il grandioso trionfo elettorale del partito democratico 6 in buona parto dovuto al fatto cho votarono por i candidati democratici por la presidenza, il senato o la camera, molti repubblicani malcontenti dell'attitudine ufficiale dol loro partito, recentemente