NAPOLI: MODERNITÀ POVERA O POVERTÀ DELLA MODERNITÀ?
QUALI POSSIBILITÀ NEI “QUARTIERI SENSIBILI”?
La notte del 5 Settembre del 2015 viene ucciso nel corso di un raid condotto da quella che è stata denominata la “paranza dei bambini” (Saviano, 2015) un ragazzo di 17 anni mentre chiacchiera con gli amici nella piazza del rione Sanità. Non è l’unico avvenimento di questo tipo in questi mesi. Questo episodio drammatico innesca l’ennesimo dibattito sulla criminalità a Napoli e su quanto stiano diventando sempre più invivibili alcuni quartieri. Il dibattito muove, come sempre avviene, intorno all’esclusione sociale che vivono questi quartieri. Proprio la presidente della Terza Municipalità della città di cui fa parte il rione Sanità evidenzia in più interviste l’assenza delle istituzioni e la mancanza di progetti di riqualificazione del rione Sanità orientati a creare coesione sociale e a produrre cultura. Nel rione Sanità vi sono, però, molte cooperative e associazioni che lavorano nel sociale da anni integrando le politiche pubbliche di welfare come avviene ovunque. Per di più, già dagli anni novanta, il rione Sanità come i Quartieri Spagnoli, considerati quartieri socialmente ed economicamente degradati, sono stati oggetto dei programmi europei Urban9. Come è noto i programmi comunitari Urban avviati nel 1994 in molte città europee ed italiane (Laino, 1999), tra cui Napoli, hanno il fine di promuovere una serie di strategie orientate a valorizzare i quartieri con interventi su aspetti per certi versi molto differenti tra loro (occupazione, servizi di quartiere, riqualificazione dello spazio urbano, etc.). Per quanto il focus di Urban in Italia fosse per lo più lo spazio fisico della città, di fondo vi è l’idea che la rigenerazione urbana possa essere la giusta risposta alle problematiche di esclusione sociale. Una sorta di sintesi fra il territorio con la sua morfologia e la popolazione e le sue pratiche di vita (Foucault 2010). Senza entrare nel merito del successo dei programmi Urban o del lavoro di chi opera nel sociale nei quartieri come la Sanità, è opportuno ragionare sul fatto che a Napoli, come altrove, le azioni “nel sociale” puntano sull’attivazione delle risorse locali in un quadro dove non esiste più “l’assistenza per tutti” (Castel, 2011). Non a caso nella fase descritta come di roll out del neoliberismo (Peck, Tickell, 2002), in cui si cerca di
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riparare alle iniziative di smantellamento delle politiche pubbliche conseguenti alle privatizzazioni, i “quartieri difficili” sono oggetto di interventi che agiscono attraverso azioni “dal basso” per contrastare i problemi sociali. Stando così le cose, risulta più complesso comprendere a fondo se i problemi dei “quartieri a rischio” – di cui l’episodio tragico segnalato in principio di questo paragrafo rappresenta un’evidenza – siano una specificità della città di Napoli e della sua “arretratezza” e dunque vadano ricercate unicamente nella persistente presenza delle organizzazioni criminali10 o siano, per certi versi, anche una conseguenza della “società del rischio” (Beck, 2000) in cui tutti sono esposti alla vulnerabilità (Castel, 2007) e dove probabilmente i più deboli hanno maggiori difficoltà a difendersi. Per dar forma a questa riflessione proviamo a ragionare partendo da una storia che può apparire in contrasto con una riflessione sui “quartieri a rischio”, ma che si inscrive perfettamente, invece, nel paradigma socio-economico contemporaneo che riguarda anche Napoli. È la storia di successo di un operatore di una cooperativa che si occupa di marketing territoriale proprio nel rione Sanità. Vittorio11 ha meno di trent’anni, parla di marketing, leadership, competitors, business plan e di impresa. Sa bene cos’è un piano di comunicazione, è stato all’estero, ha imparato l’inglese e si sta laureando. Tutte cose molto distanti dal vissuto di tanti giovani che come lui sono nati e vivono nella Sanità. È socio fondatore di una cooperativa che nasce nel 2006 che lavora per la valorizzazione del patrimonio storico-artistico nel quartiere. Con queste parole descrive la sua cooperativa nel corso dell’intervista12.
La cooperativa è una società, cioè noi la chiamiamo cooperativa perché c’ha delle cose in più rispetto ad una società però è come una società a tutti gli effetti cioè c’ha il bilancio che deve finire come deve finire, c’ha risorse umane, c’ha tutti gli aspetti che ha un’azienda, c’ha il marketing, c’ha tutto, tutti gli aspetti dell’azienda. Una azienda che ha un certo codice etico e che punta a vivere nel tempo, secondo me, assume gli atteggiamenti che assumiamo oggi noi. E ovvio sono ragionamenti puramente imprenditoriali che però hanno anche delle ragioni etiche, sociali, in un contesto che riguarda la cooperativa, quello sì, però quello che t’ho detto prima all’inizio, il progetto stesso determina il vantaggio competitivo. Questo è un termine puramente di business, io ti parlo di vantaggio competitivo, abbiamo parlato di fattori critici che determinano il successo nostro, cioè sono aspetti che riguardano il business, è questa la parte interessante nella nostra cooperativa barra società. Quando lavoravo al call center mi facevano una testa così con il briefing motivazionale, “sorridete al cliente”…Vieni qui la mattina e guarda le guide, tutti sono sorridenti, tutti danno il massimo perché sono soci di una cooperativa, hai capito qual è la differenza? È un’impresa quella della cooperativa che ha dei punti di forza cha altre imprese standard non hanno e che determina il successo. Noi siamo in quel mercato alla pari di tutti e abbiamo dei vantaggi che altri non hanno.
Quella dove lavora Vittorio è una start up a tutti gli effetti che nasce dal “lavoro sociale” fatto nel rione Sanità da un parroco insieme ad alcuni giovani. È una “storia moderna”, distintiva di ciò che significa oggi “essere in grado di fare da sé”. Una volta intrapresa
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la propria strada professionale nello stesso quartiere dove è cresciuto, Vittorio lavora sul suo capitale sociale e culturale (Bourdieu, 1986) studiando, andando all’estero, imparando la lingua così da “modificare” il suo habitus (Bourdieu, 2013), agendo su quelle “disposizioni strutturate”, come le chiama Bourdieu, che sono la conseguenza delle proprie condizioni di esistenza. È la piena espressione dell’individuo moderno che secondo i principi del neoliberismo è in grado di governare se stesso, di essere responsabile del suo successo individuale come scrive David Harvey:
Una volta garantita la libertà personale e individuale nel mercato, ciascun individuo è ritenuto responsabile delle proprie azioni e del proprio benessere, e può essere chiamato a risponderne. Questo principio si estende ai campi dell’assistenza sociale, dell’istruzione, dell’assistenza sanitaria e perfino delle pensioni […] Il successo o l’insuccesso individuale vengono interpretati in termini di doti imprenditoriali o di fallimenti personali (per esempio perché non si è investito abbastanza nel proprio capitale umano tramite l’istruzione) invece di essere attribuite a qualche caratteristica del sistema (come le esclusioni classiste che in genere si imputano al capitalismo) (Harvey 2007, p. 80).
Le leggi del mercato impongono competitività e il settore pubblico non è in grado di reggere il confronto con i privati che sono la gran parte dei finanziatori della cooperativa, come racconta Vittorio, il cui unico finanziamento pubblico riguarda un progetto sulle
smart cities condotto proprio all’interno del rione Sanità:
L’ente pubblico non riesce ad essere un nostro partner, sono lenti, burocratici…il famoso Maggio dei Monumenti; ma è mai possibile che una cooperativa fa un progetto artistico, lavora oggi, paga gli artisti oggi e da te i soldi li riceve forse dopo quattro anni? ma che logica è?