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La scrittura di un processo di una ricerca qualitativa, che va dalla sua ideazione ai risultati che porta, passando attraverso il percorso di analisi sul campo, fa parte dello stesso processo analitico che direziona il passaggio dai dati empirici all’emersione di una teoria esplicativa.

Relazionare riguardo ad una ricerca empirica vuol dire effettivamente raccontare il percorso attraverso il quale il ricercatore si è mosso e ha fatto luce su di un contesto sociale, su un processo o un preciso aspetto di esso: “Quando mettiamo per iscritto una ricerca raccontiamo storie (strutturate) sui dati” (Silverman, 2002). Si tratta in altre parole di argomentare le scelte fatte, le direzioni empiriche e teoretiche intraprese tra la raccolta di dati e la loro analisi, spiegare a quali condizioni e in quali contesti siano fondati i risultati della ricerca

una ricerca qualitativa e una quantitativa, in quanto in questa sede si pongono i criteri alternativi al concetto di validità, strettamente legato al secondo di questi approcci. Quando si tratta di ricerca qualitativa invece di parlare di validità interna sarebbe più adeguato utilizzare il termine di “credibilità”, garantita soprattutto dalla valutazione del resoconto di ricerca da parte dei soggetti coinvolti nelle interviste o nelle osservazione; lo stesso vale per la validità esterna, che invece dovrebbe essere sostituita dalla “trasferibilità”, che non si basa su procedure statistiche per stabilire la rappresentatività del campione analizzato, ma dalla presenza nel resoconto di una esaustiva articolazione concettuale e interpretativa, affinché la comunità scientifica possa valutarne la rilevanza per altri studi (Guba & Lincoln, 1989). Quindi, non è importante tanto l’aspetto della generalizzabilità dei dati e dei risultati, ma la loro “tracciabilità” nel percorso di ricerca, le argomentazioni che supportano le diverse fasi di codifica e analisi, che rendono evidente il processo attraverso cui sono stati ottenuti determinati risultati e con il quale è emersa una determinata teoria. In ogni caso, quanto appena detto non legittima la ricerca qualitativa a non dotarsi di rigorosi (ma non rigidi) strumenti analitici e di criteri che ne consentano una adeguata valutazione, in quanto “se le indagini qualitative non producono risultati giustificati razionalmente e si basano soltanto su impressioni o su una procedura disorganizzata, allora i progetti e gli interventi che sono basati su quegli studi non possono essere affidabili” (Sorzio, 2005, p. 129). Per quanto riguarda la scrittura di una ricerca qualitativa, e forse a maggior ragione di una ricerca svolta con l’approccio della Grounded Theory, è necessario evidenziare un altro aspetto fondamentale, quello che fa della

stessa scrittura uno degli strumenti analitici del processo di ricerca. Un resoconto di ricerca non nasce in questo caso solo dopo aver raccolto tutti i dati necessari e aver definito i risultati, ma la sua scrittura avviene già nello svolgimento, nel pieno dell’attività di raccolta dati e analisi. Dal momento che scrivere è già pensare, o perlomeno è una attività che offre al ricercatore l’opportunità di sistemare le molteplici idee e suggestioni e di fare nuove scoperte, è necessario tenere presente che il viaggio di una GT si estende attraverso il processo di scrittura (Charmaz, 2006).

Lo scopo di questo capitolo è quello di spiegare esattamente il processo che ha visto nascere la mia ricerca sulla partecipazione giovanile in un caotico insieme di obiettivi, finalità, domande e propositi e l’ha vista trasformarsi sulla base dell’analisi dei dati, arrivando sempre più a risultati precisi e circoscritti dal contesto e dalle condizioni nei quali la teoria andava emergendo.

La ricerca svolta si è collocata fin da subito nell’ambito dell’educazione alla cittadinanza, alla quale, dal mio punto di vista già argomentato nel primo capitolo, va data una accezione di partecipazione, ossia deve muoversi sul campo della cittadinanza attiva ed educare i soggetti non solo ad essere genericamente cittadini che acquisiscono per legge una serie di diritti e di doveri, ma prima di tutto soggetti con una cittadinanza agita nel contesto sociale, in grado cioè di comprendere e inserirsi nei processi decisionali che guidano una collettività. Tale collettività può essere declinata in diversi livelli, sia dal punto di vista dell’ampiezza – differente è l’impegno locale, focalizzato sulla realtà prossima nella quale il cittadino vive, dall’impegno su scala globale, che

si occupa di tematiche inerenti questioni di rilevanza nazionale o mondiale – sia dal punto di vista dell’idealità che la guida, alla luce della quale si può parlare di valori, etica, orientamenti politici, identità religiose, e tutte le istanze che guidano lo svilupparsi di una società declinandosi in una o l’altra decisione. Ad ogni modo, essendo la collettività un insieme di soggetti che relazionano tra di essi, che hanno scambi e che per forza di cose si influenzano, il passaggio da queste idealità alla concretezza delle scelte di una società non è automatico, ma richiede conoscenze e competenze che vadano verso la realizzazione di quell’idea arendtiana di soggetto cittadino che è tale quando è in grado di spendere la propria parola e il proprio agire nella comunità dei soggetti.

Sulla base di questa premessa ho iniziato a chiedermi quale fosse la strada che portasse ad una “educabilità” alla cittadinanza attiva, che da una parte si confrontasse con concetti fondanti come la democrazia, l’impegno, la responsabilità, la partecipazione, dall’altra si misurasse con un peso effettivo del cittadino attivo nelle scelte della comunità nel quale spende la propria esistenza. In altre parole, risulta irrisorio ed aleatorio educare i cittadini ad essere attivi se gli spazi decisionali (siano intesi essi come spazi politico- amministrativi o semplicemente portatori di interessi precisi) sono chiusi in dinamiche di potere misconosciuti dalla maggioranza dei soggetti; ma è vero anche il contrario, e cioè che i luoghi delle decisioni possono trovarsi in difficoltà nell’aprirsi ad una effettiva partecipazione, pur dotata di tutte le migliori intenzioni, se i cittadini stessi non hanno presente la propria utilità nella costruzione di decisioni pubbliche, e soprattutto se non hanno le competenze per comprendere e agire i meccanismi, talvolta molto complessi, per portare un

utile contributo che rispetti un ideale fortemente democratico.

3.2. Da partecipazione a “presenza” giovanile: motivi e obiettivi di una