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2.1 Valutare a scuola: origini del discorso scientifico e sviluppo della docimologia . 25

2.1.3 Le radici della disciplina docimologica

Stando alla ricostruzione cronologica fornita da Notti e Tammaro (Galliani. 2015), la ricerca docimologica ha origine tra la fine dell’800 e gli inizi del ‘900, periodo in cui Edgeworth (1845-1926) nel suo saggio The Statistics of examinations (1923) riflettè per

2 https://www.treccani.it/vocabolario/docimologia/

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la prima volta “sulla scarsa validità e attendibilità dei giudizi attribuiti agli esami”

(Galliani, 2015 p.44).

Ralph W. Tyler (1932) elaborò in cosiddetto modello tyleriano che andava ad opporsi alla psicometria imperante negli anni Trenta negli USA (Bramanti, 1998 p. 131):

l’approccio psicometrico alla valutazione poneva il focus sullo strumento di valutazione,

“il quale deve essere costruito avendo alcune caratteristiche specifiche in modo da ottenere dati con un sufficiente grado di affidabilità, validità, pertinenza, discriminazione” (Pellerey, 1994, p. 133).

Stando alla prospettiva di Tyler, questo approccio era insufficiente: “non bastava misurare le attitudini, intelligenza, risultati scolastici e rappresentare le situazioni utilizzando le tecniche della statistica descrittiva: occorreva adattare le esigenze della misurazione a un processo di misurazione fatto in riferimento a piani educativi esplicitati negli obiettivi che si intendono conseguire” (Pellerey, 1994 p.133). Egli fece sì che il dibattito sulle misurazioni scolastiche uscisse da una dimensione tecnicistica, mettendo il focus sulla valutazione educativa in connessione all’evoluzione delle teorie sui processi di apprendimento e sul curricolo (Galliani, 2015).

Tyler “diede importanza alla scelta degli obiettivi (e dunque ai giudizi di valore implicati), alla fase di interpretazione e di apprezzamento dei dati forniti dalla misurazione o dalle misurazioni e alle conseguenti decisioni da adottare” (Bramanti, 1998 p. 131). In quest’ottica, assume rilevanza il concetto di “misurazione”, ed è attribuibile proprio a Tyler la prima distinzione tra misura e valutazione: la prima indica la stima quantitativa riguardante l’avere o meno alcun caratteristiche riferite al prodotto dell’intervento formativo, ovvero il risultato dell’apprendimento dello studente, mentre la seconda si riferisce all’aspetto qualitativo del processo formativo nella sua interezza, rappresentando un’importante risorsa per il suo miglioramento (Galliani, 2015).

Infine, sempre secondo Tyler, i criteri proposti per la valutazione “dovevano essere a suo avviso gli obiettivi che gli insegnanti, e più in generale la comunità scolastica, avevano deciso di perseguire con la loro azione educativa” (Pellerey, 1994 p. 134).

Come riporta Benvenuto (2003), a causa delle trasformazioni nei sistemi scolastici avvenute in Europa nel ‘900, crebbe la necessità di studiare e revisionare il sistema di valutazione di esame: lo sviluppo delle tematiche docimologiche è quindi legato all’aumentare del fenomeno della scuola di massa, ma in ambito psicologico e pedagogico

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la questione della valutazione era già una tematica sentita, tanto da essere inserita in due delle 15 tesi della “scuola attiva” presentate da Claparède al Congresso di igiene mentale nel giugno del 1922 a Parigi (Benvenuto, 2003).

“13) Le riforme qui preconizzate saranno possibili solo se il sistema degli esami verrà profondamente trasformato. La necessità dell’esame spinge molti insegnanti, loro malgrado, a sovraccaricare la memoria più che a sviluppare l’intelligenza. Salvo, forse, per un minimo di cognizioni indispensabili, gli esami dovrebbero essere soppressi, e sostituiti da una valutazione data in base ai lavori individuali fatti durante l’anno, oppure per mezzo di studi adeguati.

14) La psicologia sperimentale è in grado di fornire alla pedagogia pratica dei metodi adatti al controllo del valore dei metodi didattici e del rendimento scolastico. Essa ci fornisce anche dei metodi per la valutazione mentale (tests mentali)” (Benvenuto, 2000 p.30).

Pièron (1922) fu il primo ad utilizzare il termine docimologia ed è interessante riflettere sull’iter da lui seguito per dimostrare che vi erano criteri ben poco oggettivi nella valutazione scolastica tradizionale. Egli pubblicò nel 1936 i risultati sull’analisi delle prassi di svolgimento degli esami finali della scuola secondaria, il baccalauréat (Benvenuto & Giacomoantonio, 2008 p.2): lo studio prese in considerazione “votazioni fornite da 30 insegnanti, già commissari di esami, suddivisi in 6 diversi gruppi di esaminatori; ogni esaminatore corresse campioni di 100 elaborati scritti (composizione francese, versione latina, composizione inglese, matematica, disserta-zione filosofica e fisica), assegnando un giudizio (valutazione) con voto su scala in ventesimi.

Confrontando le votazioni fornite dai singoli insegnanti si dimostrò che lo scarto medio tra i correttori era molto elevato (4 punti per inglese, matematica e fisica, 7 punti per francese e filosofia)” (Benvenuto & Giacomoantonio, 2008 p.19).

Ciò che emerse dallo studio di Piéron è che la media dello scarto tra i correttori era elevata (12/13 punti) e ciò era sintomo di una generale assenza di criteri valutativi condivisi: ogni valutatore teneva conto di alcuni aspetti delle prove e ne trascurava altri, e il riconoscimento della qualità delle prove non era concorde (Galliani, 2015). Per Claparède, i risultati ottenuti da Piéron segnarono “la piena affermazione come scienza della docimologia” (Notti, 1995 p.17); contemporaneamente aprirono la discussione su

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come si sarebbe potuto ovviare per correggere le distorsioni evidenziate (Benvenuto, 2003 p.33).

La docimologia si sviluppa quindi a partire dalla consapevolezza che fosse necessario cambiare il sistema di valutazione, a quel tempo prevalentemente soggettivo, introducendo tecniche e metodi più rigorosi, oltre alla definizione di obiettivi osservabili e misurabili, per assicurare una valutazione più equa (De Landsheere, 1974).

Sulla base di queste premesse, De Landsheere (1971) precisò ulteriormente la necessità di “definire gli scopi didattici ed educativi mediante la formulazione di obiettivi osservabili e misurabili, capaci di tradurre i comportamenti dei soggetti ovvero palesare gli apprendimenti raggiunti e correlarli con le opportunità loro fornite” (Notti &

Tammaro, 2015 p. 47). Il senso della definizione degli obiettivi, secondo l’autore, è quello di poter dare una restituzione dell’effettivo progresso o meno dell’alunno per quanto riguarda il suo progetto personale, in quale misura possiede le conoscenze necessarie al suo sviluppo e al suo ingresso nella vita sociale (De Landsheere, 1998).

Negli anni ’50 nacque la pedagogia per obiettivi, cui principale studioso fu Benjamin Samuel Bloom (1983). Nella sua opera Taxonomy of educational objectives, getta le basi la messa a punto di una tassonomia in cui venivano riconosciute tre aree fondamentali:

cognitiva, affettiva e psicomotoria (Santelli Beccegato & Varisco 2000, p. 20). Le fondamenta della pedagogia per obiettivi sono rintracciabili nelle idee già enunciate di Tyler (1932), il quale riteneva che per una valutazione autentica fosse necessario definire gli obiettivi in termini di comportamenti attesi dopo aver implementato un’azione educativa: “la classificazione di obiettivi di Bloom prende spunto dall’attività pratica degli insegnanti, dal loro intento di raccogliere in modo empirico i criteri di valutazione presi a riferimento nell’esaminare i loro allievi e i relativi percorsi di apprendimento.

Gli obiettivi pedagogici permettono di definire un’attività precisa del discente e di precisare i criteri che serviranno alla valutazione” (Notti & Tammaro, 2015, p. 46).

Bloom sostiene, infatti, che la scuola deve agire sulle caratteristiche dello studente, sulla qualità dell’istruzione e sui risultati dell’apprendimento, ma anche sulla tassonomia di obiettivi educativi e capacità generali e specifiche da acquisire e utilizzare durante l’apprendimento (Notti & Tammaro, 2015).

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La pedagogia per obiettivi fu successivamente perfezionata attraverso i contributi di altri studiosi: si ricorda in particolare quello di Mager (1975) il quale sostiene che un obiettivo efficace dovrebbe essere composto da tre componenti (Calenda & Milito, 2020 p. 105):

- la performance, osservabile e misurabile;

- la condizione, circostanze in cui eseguire la performance;

- il criterio, abilità per definire una performance idonea.

Si evince, come riportato da Santelli Beccegato e Varisco (2000), che “la formulazione di obiettivi e finalità non permette solamente una più chiara e comparabile delimitazione di ciò che si richiede per l’effettiva realizzazione di un processo di apprendimento, ma anche un più valido e obiettivo accertamento della realizzazione dello stesso, venendo a unire inscindibilmente il momento valutativo alle altre componenti costitutive del processo educativo” (Santelli Beccegato & Varisco, 2000 p.46).