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San Domenico, Sant’Antonio Abate, Santa Caterina d’Alessandria (registro inferiore), Madonna col Bambino, San Gerolamo, San Bernardo da Chiaravalle (registro superiore)

(fig. 1) 1505-1510 c.

Ubicazione sconosciuta

Il dipinto è noto unicamente attraverso una fotografia in bianco e nero scattata dal fotografo milanese Girolamo Bombelli (Milano 1882-1969), il cui consistente archivio di negativi è conservato dal 1971 presso l’Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione di Roma (C14573). La riproduzione venne pubblicata nel 1991 col giusto riferimento dell’opera a «Cristoforo Pancalino» (Angelelli in Angelelli, De Marchi 1991), proprio nel momento in cui la critica incrociava l’identità dell’ignota personalità artistica individuata dal Castelnovi col nome del pittore fino ad allora senza opere Raffaello De Rossi. L’opera, tuttavia, sfuggì alle ricerche di Fedozzi (1991) e di De Moro e Romero (1992), come a tutta la letteratura successiva sul tema.

Nulla si sa in merito alle origini del dipinto, il cui soggetto principale riporterebbe ad un contesto domenicano, probabilmente ligure. Altrettanto ignote sono le sue vicende storiche: quando Bombelli la riprodusse entro la prima metà del secolo scorso l’opera doveva appartenere ad una collezione privata oppure a qualche galleria o casa d’asta di area milanese o dell’Italia settentrionale prima di essere dispersa sul mercato antiquario.

Il dipinto costituisce a nostro avviso la prima testimonianza nota dell’attività del pittore collocandosi in un momento di poco precedente la pala con l’Apparizione della Vergine a

San Bernardo (1510; cat. 2), entro la seconda metà del primo decennio del secolo. Bibl.: Angelelli in Angelelli, De Marchi 1991, p. 232 cat. 475.

2. Raffaello De Rossi

Apparizione della Vergine a San Bernardo (fig. 2)

1510

Tempera e olio su tavola in legno di pioppo, cm 222x148 Mosca, Museo Statale di Arti Decorative A. S. Puškin

Iscrizioni: «1510» (sul libro di San Bernardo e sul libro del gruppo di Evangelisti e Dottori

della Chiesa a destra nella schiera celeste)

Il dipinto, attualmente conservato a Mosca presso il Museo statale Puškin, è stato recentissimamente restituito al catalogo di Raffaello De Rossi da Massimiliano Caldera (in Caldera, Fiore 2018-2019). L’aggiunta risulta tanto più preziosa in quanto l’opera è datata, andando a configurarsi come la prima testimonianza nota dell’attività del pittore: l’iscrizione «1510» si legge due volte, rispettivamente sul margine superiore della pagina del libro aperto sul leggio di San Bernardo e su quello tra le mani del gruppo di Evangelisti e Dottori della Chiesa a destra nella schiera celeste.

La memoria della sua origine dal Ponente ligure non si perse nel corso dei secoli se già nel catalogo d’asta londinese in cui l’opera ricomparve all’alba del XIX secolo (Catalogue 1902) è detta provenire dalla chiesa di San Domenico a Savona. Il riferimento è stato, però, corretto da Caldera in favore di un altro vicino contesto domenicano, quello del convento di Santa Caterina a Finalborgo (sul complesso cfr. La chiesa 1982). Lo studioso, infatti, ha ragionevolmente proposto di identificare l’opera col «San Bernardo» che «tira allo stile del Perugino» registrato da Carlo Giuseppe Ratti (1780) presso la chiesa del convento finalborghese e, quindi, con l’«ampia ancona eseguita da dottissimo pennello, con grandissima diligenza sempre conservata» che padre Vaira (1840) ricordava essere stata ritirata dai Carenzo, allora patroni dell’altare, in occasione della soppressione napoleonica (1798-1810) e poi portata a Genova per essere alienata (cfr. Murialdo 1982b, p. 44; Castelnovi 1982, p. 64). Da una pianta settecentesca della chiesa conservata nella canonica della vicina collegiata di San Biagio (Murialdo 1982b, p. 43 fig. 27) si evince che l’altare di San Bernardo, il sesto della navata sinistra, faceva parte di quelle «cappelle laterali, ricavate fra il XVI e il XVII secolo sfondando la fiancata settentrionale della chiesa» (Murialdo 1982b, p. 44); risulta, allora, del tutto verosimile che l’importante famiglia Carenzo, cui diretti contatti col centro conventuale sono attestati già a partire dalla seconda metà del XVI secolo, quando nel 1561 sono registrati tre lasciti disposti da Nicolò e dalla madre Mariola (M. Caldera in Caldera, Fiore 2018-2019, p. 36 nota 8), si configuri come l’artefice della commissione. Caldera ipotizza che il ritiro dell’opera dall’altare della chiesa sia avvenuto per volere del Conte Cristoforo, il quale nel 1798 risultava proprietario del prestigioso edificio nei pressi della collegiata, e che la sua dispersione sia legata agli eventi del 1839, allorquando il Comune impose l’obbligo di apportare importanti trasformazioni al complesso abitativo (cfr. Ballarò, Grossi 2001, pp. 65-72) e la famiglia potrebbe aver deciso

di disfarsi del dipinto «per far fronte a queste spese» (Caldera, Fiore 2018-2019, p. 36 nota 8).

La pala prese ben presto la via dell’Inghilterra, probabilmente attraverso la mediazione di «un viaggiatore vicino all’aristocrazia britannica che abbia percorso la Liguria, passando dal Finale», un personaggio che potrebbe corrispondere, secondo Andrea Fiore, al profilo di Marguerite Power Farmer Gardiner, contessa di Blessington, un cui soggiorno in Liguria e specificamente a Finale è attestato nel 1823 (A. Fiore in Caldera, Fiore 2018-2019, p. 32; cfr. Astengo, Fiaschini 1975, pp. 19, 49-52). Comunque sia, all’inizio del Novecento il dipinto faceva parte della quadreria di proprietà di Henry George Powlett, quarto duca di Cleveland, messa all’incanto nel 1902 insieme al resto della collezione custodita nella sua dimora di Battle Abbey nel Sussex (Catalogue 1902); una piccola etichetta sul retro del dipinto in cui si legge «BATTLE ABBEY 1426» ricorda il passaggio dell’opera in questa raccolta (Markova 2014, p. 81). La scheda del catalogo d’asta, un cui stralcio è tuttora leggibile su un cartellino anch’esso attaccato al tergo della tavola, riportava una serie di notizie errate a partire dall’identificazione del soggetto con San Domenico all’indicazione della coppia di donatori come membri della famiglia Grimaldi fino alla già discussa provenienza da Savona e, soprattutto, ad un’attribuzione a Boccaccio Boccaccino, probabilmente rinsaldata sulla scorta della nota dell’Alizeri che attestava la presenza del pittore ferrarese a Genova nel 1493 (Alizeri 1870, pp. 373-376) e il cui stile, come già notava l’abate Luigi Lanzi, «in parte conformasi con Pietro Perugino» (Lanzi, IV, 1809, p. 122). Dal catalogo manoscritto del battitore dell’asta del 1902 si evince che allora l’opera fu acquistata dal mercante d’arte Lesser Lesser al prezzo di 126 sterline (A. Fiore in Caldera, Fiore 2018-2019, p. 33); la notizia della vendita fu riportata una settimana dopo anche sulla rivista “The Athenaeum” (Sales 1902).

Dall’Inghilterra il dipinto dovette presto espatriare dal momento che una nota fotografia degli anni Trenta lo ritrae far bella mostra di sè su una parete della dimora di Otto Lanz ad Amsterdam (la foto è pubblicata anche in Caldera, Fiore 2018-2019, fig. 32). Nel 1940 venne esposto al Rijksmuseum in una mostra dedicata alla collezione del ricco conoscitore svizzero morto cinque anni prima con un riferimento a Cola dell’Amatrice, «ohne Fra Bartolommeo nicht denkbare» (Degenhart 1941, p. 36); allora il soggetto veniva correttamente riconosciuto, ma continuava ad essere riportata l’errata provenienza. Una riproduzione dell’opera in mostra è conservata in un album fotografico oggi custodito al Museo Puškin; la fotografia è corredata da un appunto manoscritto che recita «n. 1. Cola d’Amatrice, bis 1547, Maria erscheint dem St. Bernhardin» (Markova 2014, p. 81; A. Fiore in Caldera, Fiore

2018-2019, p. 34). Pochi mesi dopo l’esposizione, in seguito all’invasione nazista dell’Olanda, l’intera collezione fu acquistata da Hans Posse, allora direttore della Gemäldegalerie di Dresda e solo alla caduta del regime, mentre alcune opere rientravano nella capitale olandese, la nostra, insieme ad altre, prese la via di Mosca giungendo al Museo Puškin nel 1946 «as the work of an early sixteenth-century Italian master» (Markova 2014, p. 81).

La pala, di cui per lungo tempo si è persa memoria, è recentemente riemersa nel catalogo dedicato ai dipinti italiani conservati presso il museo statale russo (Markova 2014). In quell’occasione veniva esclusa l’attribuzione al Filotesio («Such an attribution does not seem sufficiently convincing, in terms of either style or chronology, since 1510 is too early», p. 82) e riproposta in maniera dubitativa quella tradizionale al Boccaccino («[...] the stylistic characteristics of this painting do not preclude such an attribution», p. 82).

Bibl.: Ratti 1780, p. 15; Catalogue 1902, p. 5 cat. 10; Sales 1902, p. 346; Degenhart 1941,

p. 36; Markova 2014, pp. 78-82 cat. 19; Caldera, Fiore 2018-2019.

3. Raffaello De Rossi

San Biagio in trono tra i Santi Pietro, Paolo, Caterina d’Alessandria e Cristoforo (pala

centrale); Madonna col Bambino tra i Santi Sebastiano, Caterina d’Alessandria,

Giovanni Battista e Rocco (cimasa); Il giudizio e San Biagio che resuscita un bambino, Martirio di San Biagio, Decapitazione di San Biagio (predella) (fig. 3)

1510-1515 c.

Tempera su tavola, cm 398x240 (pala centrale)

Finalborgo presso Finale Ligure (Savona), chiesa di San Biagio

Iscrizioni: «ABSIT / A ME H / OC PEC / CATUM /IN DO / MINO / UT CE / SSEM / ORAR

/ E PRO / VOBIS» (sul libro di San Biagio)

Nella cappella di testata della navata laterale destra della chiesa di San Biagio a Finalborgo, oggi consacrata a San Vincenzo Ferrer, ma già titolata a Santo Stefano (Murialdo, Rossini, Scarrone 1981, p. 2), a coronamento dell’altare marmoreo commissionato da Domenico Aicardi nel 1639 per la sua cappella dedicata a San Vincenzo nella chiesa del vicino convento di Santa Caterina (Murialdo 1982, pp. 45-46) è attualmente collocato il polittico smembrato dedicato al santo vescovo titolare della collegiata, di cui si conservano la pala centrale, la cimasa e la predella. Sebbene non sussistano motivi per dubitare della provenienza ab

antiquo dell’opera dalla chiesa di San Biagio, quella odierna non corrisponde,

evidentemente, alla sua originale collocazione. L’assetto attuale dell’edificio, infatti, è frutto dell’importante intervento di ricostruzione operato tra il 1634 e il 1659 dall’architetto finalese Andrea Storace, prima, fino al 1650, anno della sua morte, e dal suo collaboratore Antonio Sanguineto, poi, in parte sulle fondazioni dell’antico edificio trecentesco (1372- 1375) abbattuto tra il 1653 e il 1659 ad eccezione delle absidi, inglobate nelle mura, e del campanile, innalzato verosimilmente nella seconda metà del XV secolo anch’esso su una torre della cinta muraria (Murialdo, Rossini, Scarrone 1981). L’opera, che, verosimilmente, decorava in origine l’altare maggiore, venne successivamente privata dell’originale carpenteria, di cui si conservano solo alcuni elementi del coronamento, e, mentre cimasa e predella finirono in sacrestia, lo scomparto centrale fu adattato alla monumentale cornice barocca ovale sovrastante la cassa dell’organo nell’abside centrale, oggi ospitante la tela raffigurante San Filippo in gloria (1721) dipinta dal finalese Pier Lorenzo Spoleti (1680- 1726). Questo intervento è documentato da una memoria contenuta nel registro parrocchiale dei matrimoni degli anni 1682-1717, già trascritta da Federigo Alizeri (1874, p. 256), la quale ricorda: «Dell’anno 1715 del mese di novembre li Signori Ufficiali della Compagnia del SS. Sacramento eretta in questa insigne ed antichissima Collegiata hanno modernato l’ancona di s. Biagio titolare della detta chiesa, la quale fu fatta da Bernardo Faxioli che saranno da 300 anni circa, alla quale si è levata la cornice antica e si è fatto un ovato con haverle anco aggiunto il pittore finalese Grana tutto il terreno che resta sotto il trono di S. Biagio: e sia per memoria». In seguito al restauro realizzato all’inizio degli anni Cinquanta del secolo scorso dalla Soprintendenza alle Gallerie della Liguria, l’opera fu ricomposta e sistemata nella cappella a destra del presbiterio, dove tuttora si trova, in sostituzione della pala col Miracolo di San Vincenzo Ferrer dipinta nel 1762 dal pittore savonese Paolo Gerolamo Brusco (1742-1820) e proveniente, come l’altare, dalla chiesa del convento di Santa Caterina (Castelnovi 1982, p. 63).

Sulla commissione, «d’indubbia matrice collettiva», non si può escludere, secondo De Moro (1992, p. 32), una diretta partecipazione di qualche membro della famiglia marchionale Del Carretto, che proprio a Finalborgo risiedeva.

Alizeri, prestando fede alla sopracitata nota del registro matrimoniale, segnalava essere «bel vanto della Prepositura di s. Biagio in Finale aver l’effigie del titolare eseguita da Bernardino [Fasolo]» e aggiungeva, con evidente riferimento alla predella, che i «[...] rettori di quella chiesa [...] si gloriano pure d’un’altra ancona rappresentante i martirj del Santo Vescovo» (p. 255), opera «[...] d’un dipintore che in tutt’altro paese è sconosciuto o a meglio dire sepolto»

(p. 256). L’attribuzione al Fasolo fu accolta da Galileo Gentile (1949) nel primo contributo critico dedicato al dipinto, inserito in quella circostanza tra le «opere più significative del gruppo pavese a Genova e dell’influsso leonardesco in Liguria» derivato, in particolare, da Andrea Solario, e, in un primo momento, anche da Lamboglia e Silla (1951). Nel frattempo, Roberto Longhi (1917), recensendo la guida del Touring Club Italiano del Bertarelli edita l’anno prima, di cui lamentava la mancata menzione di importanti dipinti della Riviera, si era chiesto se non ci fosse a Finalborgo un Piero di Cosimo, accostamento quanto mai ambizioso (e forse in parte provocatorio) che, nondimeno, restituiva l’opera ad un più corretto ambito di appartenenza (l’attribuzione longhiana è citata da Grosso 1951). Il primo apporto verso la giusta soluzione del problema giunse dal Castelnovi nel 1952 in occasione dell’esposizione del polittico ricostituito alla mostra dedicata ai Restauri di opere d’arte

nella Diocesi di Savona allestita nell’oratorio di Santa Maria di Castello dal 18 al 28 ottobre

1951, quando l’intervento sulla cimasa e sulla predella era terminato, mentre quello sulla tavola centrale ancora in corso. Già allora lo studioso rifiutava categoricamente le due attribuzioni fino ad allora proposte, quella a Bernardino Fasolo, da una parte, e quella a Piero di Cosimo, dall’altra, entrambe inaccettabili, annoverando l’opera tra le più importanti «di un certo pittore, finora sconosciuto, che fu per mezzo secolo, dopo la morte del Brea, il più attivo nella Liguria occidentale» (1952, p. 17), lo stesso che successivamente avrebbe indicato con lo pseudonimo «Pancalino» e all’interno della cui attività la pala di Finalborgo sarebbe stata da collocare nel «primo e miglior tempo», intorno al quarto decennio del secolo (1970, p. 157). Ancora Castelnovi, poi (1987), appoggiando l’ipotesi proposta da Boggero (in Il Museo 1982) di distinguere all’interno del corpus pancalinesco più personalità artistiche, cronologicamente e qualitativamente distanti, assegnava la nostra opera al «Primo Pancalino», individuando, però, nella cimasa l’intervento di un «aiutante» identificato con l’autore di altre opere pancalinesche, quali il polittico di Sant’Eusebio già a Perti (1538) e una pala con San Sebastiano tra San Rocco e un Santo vescovo passata sul mercato antiquario genovese e attualmente irreperibile, nonchè collaboratore in opere più tarde; d’accordo Bartoletti (1988a; 1988b). In seguito all’identificazione dell’ignoto «Pancalino» con Raffaello De Rossi, mentre Fedozzi (1991) propose una datazione intorno all’anno 1538, vista la presenza del maestro in zona quello stesso anno, come documenta il sopracitato polittico di Sant’Eusebio realizzato per l’oratorio omonimo presso Perti, postulando anche l’intervento di aiuti, De Moro e Romero (1992) retrodatarono l’opera agli anni della primissima attività di Raffaello in Liguria, tra il 1514 e il 1518, classificandola come «la più straordinaria e commovente dichiarazione che mai toscano abbia lasciato in Liguria dopo

Filippino e prima del Buonaccorsi» (De Moro, Romero 1992, p. 32). D’accordo con una datazione precoce, intorno al 1515, ad eccezione, in un primo momento, di Fedozzi (Fedozzi 1999c), si mostrerà tutta la critica successiva, dapprima con qualche riserva (Bartoletti 1999c, 1999h), poi senza più incertezze (Zanelli 2000, Bartoletti 2002, Zanelli 2013, Fedozzi 2016). Solo Sista recentemente (in Rinascita 2019) ha proposto una datazione alla metà del terzo decennio.

Restauri: Grana, 1715; Soprintendenza alle Gallerie ed opere d’arte della Liguria, 1951;

Cesare Pagliero, 2018/2019.

Documenti: Archivio Storico Diocesano di Savona, Registro dei Matrimoni (1682-1717),

Parrocchia di Finalborgo (Alizeri 1874, p. 256).

Bibl.: Alizeri 1874, pp. 255-256; Longhi 1917, p. 364 (1961, p. 396); Gentile 1949, pp. 54-

55; Grosso 1951, p. 250; Lamboglia, Silla 1951, p. 42; Castelnovi 1952, pp. 14, 17-18; Castelnovi 1960, p. 32; Lamboglia, Silla 1960, p. 42; Castelnovi 1970, pp. 157, 178 nota 39; Lamboglia, Silla 1978, p. 49; Murialdo, Rossini, Scarrone 1981, pp. 21, 23-24; Castelnovi 1982, p. 63; F. Boggero in Il Museo 1982, p. 40 cat. 57; Boggero 1984, p. n. n.; Castelnovi 1987, pp. 137, 159 nota 34; Bartoletti 1988a, p. 791; Bartoletti 1988b, p. 14; Fedozzi 1991, pp. 21, 50, 61-62 cat. 9; De Moro, Romero 1992, pp. 32, 79-83 cat. 1; Bartoletti 1999c, pp. 92, 94; Bartoletti 1999h, p. 392; Fedozzi 1999c, p. 548; Zanelli 2000, p. 32; Bartoletti 2002, p. 69; Zanelli 2013, p. 26; Fedozzi 2016, p. 217; A. Sista in Rinascita 2019, pp. 12, 13 nota 16.

4. Raffaello De Rossi

Grottesche, Dio Benedicente (fig. 4)

1515-1518 c. Affreschi

Genova, chiesa di Santa Maria di Castello, cappella di Santa Rosa da Lima

San Gerolamo, Sant'Ambrogio, Sant'Agostino, San Gregorio (figg. 4i, 4l, 4m, 4o)

1515-1518 c.

Affreschi strappati trasportati su tela, cm 107x87 (ciascuna lunetta)

Genova, refettorio del convento di Santa Maria di Castello (dalla cappella di Santa Rosa da Lima)

Nella chiesa domenicana di Santa Maria di Castello a Genova, al di sopra dell’attuale soffitto della cappella dedicata a Santa Rosa da Lima, alla testata della navata laterale sinistra, si conservano ancora il catino a cinque spicchi costolonati e le corrispettive lunette dell’antica volta, «forse corrispondenti al 1483, anno in cui fu concessa al patronato di Edoardo Giustiniani» (Poleggi 1973, p. 37), successivamente coperti durante il rifacimento della cappella realizzato tra il 1592 e il 1610. L’intradosso della volta tardoquattrocentesca, oggi nascosto dal controsoffitto barocco e dal maestoso timpano di accesso, opera di Taddeo Carlone e Battista Bagutti, è tuttora fruibile attraverso un’apertura praticata nella muratura che ha comportato la distruzione parziale della vela centrale e quella totale della relativa lunetta sottostante, accessibile dal pianerottolo delle scale della torre campanaria attigua al retro della cappella. I quattro spicchi laterali della volta ospitano ciascuno una coppia di Putti in atteggiamenti variati tra racemi e mascheroni, di cui uno risulta molto danneggiato e altri due pesantemente ridipinti, mentre quello centrale un Cristo benedicente fortemente lacunoso e distrutto, come sopra accennato, nella zona inferiore. Le lunette erano occupate da quattro Dottori della Chiesa, San Gerolamo, Sant’Ambrogio, Sant’Agostino e San

Gregorio, poi strappati (evidenti tracce di colore si intravedono ancora sulle pareti) e

attualmente conservati, molto impoveriti, nel refettorio del convento, e da una Madonna col

Bambino in quella centrale, completamente perduta (Zanelli 2000, p. 32). L’intradosso

dell’arco d’ingresso alla cappella, infine, reca motivi ornamentali a forme vegetali dipinti a monocromo grigio su un fondo blu intenso (fig. 4g).

Questa decorazione fu segnalata per la prima volta da padre Raimondo Amedeo Vigna, che la giudicava «non tanto felice nella esecuzione, poco solida e anche deteriorata» (1864, p. 269). Quasi un secolo dopo, la costituzione del Museo di Santa Maria di Castello diede l’occasione a Enrico Castelnovi di riconsiderare almeno le quattro lunette, che nel frattempo erano state strappate e trasportate su tela dal restauratore Martino Oberto (Castelnovi 1959, p. 36) e sistemate allora nella seconda saletta del museo (De Negri 1965). Lo studioso già nel 1959 e, più approfonditamente, l’anno dopo accostava le pitture alla mano di quell’ignoto artista, da lui stesso soprannominato «Pancalino», attorno al quale aveva raccolto un corpus di circa trenta opere provenienti dal Ponente ligure; solo il Sant’Ambrogio e il Sant’Agostino (da lui identificato con San Gregorio), però, sarebbero stati opera del maestro, il quale si sarebbe avvalso nell’impresa di ben due collaboratori, l’autore del San Gerolamo, «vicino nella figura squadrata e nel limpido ma più forte colore», e quello del San Gregorio (per lui Sant’Agostino), «del tutto indipendente e, modesto, impacciato e greve» (Castelnovi 1960, p. 33). Quest’aggiunta al catalogo dell’anonimo pittore risultava di grande importanza

costituendo non solo l’unica testimonianza conservatasi della sua attività di frescante, ma anche la sola traccia del suo passaggio a Genova «tra il 1530 e il 1540, nel suo primo e miglior periodo» (Castelnovi 1960, p. 32); d’accordo in un primo momento anche Bartoletti (1988a, p. 791). All’inizio degli anni Novanta, in seguito all’identificazione dei «Pancalino» con la dinastia dei De Rossi, mentre Giorgio Fedozzi (1991) si allineava al parere di Castelnovi, postulando che Raffaello, dopo il trasferimento nel Ponente, fosse rientrato a Genova intorno agli anni Trenta del secolo (ancora recentissimamente lo studioso ha sostenuto l’autografia per solo due delle quattro lunette correggendo la datazione intorno alla seconda metà del sesto decennio, cfr. Fedozzi 2016), De Moro e Romero rintracciavano in tutti e quattro i Dottori l’intervento del solo Giulio ritardandone l’esecuzione al settimo decennio (1560-1565 circa), un momento, dunque, che «potrebbe seguire di qualche tempo il suo esordio conosciuto nel polittico di Bassanico» (De Moro, Romero 1992, p. 113) e che avrebbe coinciso per altro con la presenza del padre Raffaello nel santuario di Nostra Signora di Coronata a Genova (1560). Sebbene ancora recentemente qualcuno abbia sostenuto l’autografia di Giulio nelle lunette e una loro datazione tarda (M. Caldera in Caldera, Fiore 2018-2019), Gianluca Zanelli (2000; 2013) ha nel frattempo preso in esame il problema in maniera più ampia riconsiderando l’intera decorazione e associando il ciclo alla committenza di Andrea Cichero del 1518 (cat. 50) sulla base dell’identificazione dell’attuale cappella di Santa Rosa con quella anticamente dedicata ai Santi Giovanni Battista e Giovanni Evangelista, punto sul quale vale la pena soffermare per un attimo la nostra attenzione. Il Vigna nell’introdurre «le notizie riguardanti la erezione di quelle cappellanie, che in epoche più o meno remote fondarono nella chiesa di Castello alcuni distinti personaggi» citava «per le prime, perché più antiche, le cappellanie fondate da due piissimi Zaccaria». In particolare, pubblicava il testamento del 18 settembre 1361 nel quale Ottaviano Zaccaria esprimeva la volontà di essere sepolto nel monumento funebre che avrebbero costruito i suoi eredi presso l’altare di San Giovanni Battista nella chiesa di Santa Maria di Castello a Genova e sborsava al Comune la somma di mille lire genovesi affinché due cappellani vi celebrassero una messa giornaliera. La sua cappella, insieme a quella fatta erigere nella stessa chiesa dal fratello, sarebbe passata alla sua morte sotto il giuspatronato della figlia

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