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1520-1521

Alassio, oratorio di Santa Caterina

Il 16 maggio 1520, nello stesso periodo in cui è impegnato nelle commissioni per le chiese genovesi di Santa Maria di Castello (cat. 50) e della Maddalena (cat. 52), «Raphael florentinus pictor quondam Nicolai» dichiara di aver ricevuto da Antonio di Oliva e Giovanni Andrea Romana di Alassio, rispettivamente priore e sottopriore della confraternita di Santa Caterina, rappresentati al momento dell’atto, rogato in Banchi, dal loro conterraneo Giovanni Garibbo, la somma di venti scudi d’oro «infra solutionem precii unius altaris faciendi pingendi et construendi per dictum magistrum Raphaelem» secondo accordi precedentemente intercorsi tra le due parti. Garantiva per lui il sarto Pantaleo Balbo di Ponte di Giacomo. Quasi un anno dopo, il 22 aprile 1521, «supradictus magister Rafael pictor» confessa, sempre in Banchi, presente questa volta il sottopriore Andrea Romana in persona, di aver ricevuto da questi altre trenta lire genovesi d’argento e promette di recarsi ad Alassio entro quindici giorni per portare a termine il lavoro.

L’opera, che dovette essere portata a termine se identificabile con quella segnalata e descritta nell’oratorio di Santa Caterina di Alassio, annesso alla chiesa collegiata di Sant’Ambrogio (sul complesso cfr. La collegiata 2008) in occasione della visita del vescovo d’Albenga Pier Francesco Costa circa un secolo dopo («[...] à fronte appare superba mole d’altare adorno di politi, e mischi marmi, con sontuosa ancona con effige della santa titolare in atto di ricevere la palma»), risulta ad oggi perduta, né appare accettabile l’identificazione del quadro proposta da Reghezza con una tela di piccole dimensioni rappresentante l’Incontro di Maria

con Sant’Anna tuttora esistente sulla parete destra della cappella (Reghezza 1908-1912, pp.

226-227).

Documenti: ASG, notaio Antonio Pastorino, sc. 140, f. 41, n. 452, 16 maggio 1520, 22 aprile

1521 (doc. II).

Fonti manoscritte: Paneri 1624-1653 c., I, c. 340 v.

Bibl.: Alizeri 1874, pp. 210-211; Dizionario 1975, X, p. 40; Reghezza 1908-1912, pp. 226-

227; Fedozzi 1991, pp. 17-18, 54-55 cat. 3; De Moro, Romero 1992, pp. 29, 31-32, 172; Bartoletti 1999c, p. 92; Bartoletti 1999h, p. 392; Fedozzi 1999c, p. 547; Cervini 2000, p. 8; Fedozzi 2016, p. 217; Caldera, Fiore 2018-2019, p. 29.

52. Raffaello De Rossi

Altare del Corpo di Cristo e altre pitture

1520

Genova, chiesa di Santa Maria Maddalena

Tra gli atti già ricordati da Alizeri vi è la quietanza di pagamento del 21 agosto 1520 che testimonia di un’altra impresa perduta eseguita a Genova dal maestro Raffaello, la decorazione della cappella della confraternita del Corpo di Cristo nella Chiesa della Maddalena. Nell’atto rogato in Banchi, «Raphael florentinus pictor quondam Nicolai» dichiara di aver ricevuto da Francesco Riccio, priore della consorzia, il saldo delle centocinquanta lire genovesi spettantigli «pro precio unius altaris Corporis Domini Nostri Iesu Christi cum Capella depicta» (e più sotto ancora: «ad complementum precii dicti altaris et Capelle picte»). Questo documento risulta della massima importanza perché rappresenta anche la prima testimonianza dell’esistenza alla Maddalena della compagnia del Corpo di Cristo (o del Santissimo Sacramento), già ricordata da Stoppiglia nelle sue notizie storiche relative al complesso al primo posto tra le congregazioni in quanto «essa nella sua sostanza è antichissima nella chiesa, anzi la più antica di tutte» (1929, pp. 164-166). Nel 1552 con bolla di papa Giulio III il giuspatronato di una capellania perpetua fondata da un certo Giacomo di Promontorio De Ferraris, figlio di Rolando, presso l’«altare corporis christi sub invocatione eiusdem corporis christi in ecclesia Beate Marie Magdalene Januem» fu ceduto ad Andrea di Promontorio De Ferraris, sollevando chiunque altro, in particolare i priori della Confraternita del Corpo di Cristo, da qualsiasi diritto sull’altare (Stoppiglia 1929, pp. 164- 165 e 359-361 per la trascrizione del documento).

La cappella andò certamente distrutta durante la ricostruzione tardo cinquecentesca subita dell’edificio in seguito all’insediamento dei Padri Somaschi nel 1576 su progetto dell’architetto lombardo Andrea Ceresola detto il Vannone (1585), che prevedeva, tra le altre cose, il ribaltamento dell’asse della chiesa col posizionamento del presbiterio laddove precedentemente era la facciata d’ingresso e l’apertura di profonde cappelle laterali comunicanti separate dalla navata centrale attraverso possenti coppie di pilastri (sulla chiesa cfr. Stoppiglia 1929; Colmuto 1970, pp. 124-136; Colmuto Zanella 1976; Boggero 1979; Pazzini Paglieri, Paglieri 1992, pp. 37, 89). Della compagnia del Santissimo Sacramento si conservano ancora in chiesa solo i due sepolcri pavimentali costruiti nel 1608 nella navata centrale riservati ai confratelli defunti, rispettivamente agli uomini quello di sinistra e alle donne quello di destra (Stoppiglia 1929, pp. 99-100).

Documenti: ASG, notaio Antonio Pastorino, sc. 140, f. 41, n. 147, 21 agosto 1520 (doc. IV). Bibl.: Alizeri 1874, p. 210; Fedozzi 1991, pp. 17, 54 cat. 2; De Moro, Romero 1992, pp. 29,

172; Bartoletti 1999h, p. 392; Fedozzi 1999c, p. 547; Zanelli 2013, p. 29; Fedozzi 2016, p. 217 («a. 1519-20»); A. Sista in Rinascita 2019, p. 12.

53. Raffaello De Rossi

San Gerolamo tra San Domenico e Santa Caterina d’Alessandria

1523

Taggia (Imperia), chiesa di Santa Maria della Misericordia e di San Domenico

Il 21 gennaio 1522 Domenico Oddo di Taggia stabiliva per volontà testamentaria che ogni suo bene fosse destinato a una cappella dedicata a San Gerolamo da erigersi nella chiesa del convento di San Domenico. In particolare, disponeva che 25 ducati servissero alla realizzazione di una pala d’altare che avrebbe dovuto effigiare il Santo titolare affiancato dai Santi Domenico e Caterina d’Alessandria (Calvini 1982 [Calvi 1622-1623]). Così, poco più che un anno dopo, il 23 marzo 1523, padre Pietro da Dolcedo, priore del convento di San Domenico, insieme a Gerolamo Reghezza e Edoardo Curlo, fidecommissari testamentari del fu Domenico Oddo, si accordavano con «Magistro Raphaele de Rubeis pintore florentino quondam Nicolai» per l’esecuzione dell’opera. Due erano i termini di confronto imposti al pittore. Anzitutto, il dipinto avrebbe dovuto presentarsi «[...] de illa altitudine et latitudine et cum tanto auro adornata [...]» come l’ancona della Santa Croce nella chiesa cittadina dei Santi Giacomo e Filippo, ossia, come proposto per primo da Boggero (in Restauri 1986 p.

57 nota 6), come la pala con la Crocifissione e Santi datata 1510 probabilmente commissionata da Bartolomeo Ruggeri per la cappella della Santa Croce fondata in parrocchiale nel 1517, tradizionalmente attribuita a Leonoro dell’Aquila, successivamente accostata al nome del pittore lombardo senza opere Andrea Mairola (Cervini 1995, pp. 37- 40; Bartoletti 1999c, p. 92) e recentemente ricondotta ad un corpus di opere comprendente l’Assunzione della Vergine della chiesa di Santa Maria Assunta a Genova Rivarolo e il San

Nicola da Tolentino presso l’oratorio di San Giovanni Battista di Triora, ma proveniente

dalla vicina chiesa di Sant’Agostino, ricondotto ad un ignoto pittore ligure attivo entro il terzo decennio del XVI secolo (Scagliola 2005-2006). Le figure, invece, avrebbero dovuto eguagliare «in pulchritudine» niente meno che quelle eseguite da Ludovico Brea un decennio prima (1512-1513) nella pala raffigurante la Vergine in trono col Bambino tra San Domenico

e Santa Cecilia nella cappella della Madonna del Rosario in San Domenico (De Floriani

2012, pp. 41-43; fig. 3n). Il maestro Raffaello avrebbe dovuto portare a termine il lavoro entro i tre mesi successivi e il compenso sarebbe stato stabilito dai sopracitati fidecommissari e da un certo Francesco Vasorio di Arquata, il quale figura anche come garante del pittore, sulla base della «bonitatem et pulcritudinem» del risultato finale, entro una cifra variabile compresa tra i trentacinque e i quarantadue scudi d’oro.

L’opera, erroneamente identificata in passato (Reghezza 1908-1912) con la Crocifissione e

i Santi Domenico, Gerolamo, Pietro martire e Caterina d’Alessandria commissionata nel

1530 al prete pittore pignasco Emanuele Macario per la stessa cappella Oddo e realizzata entro il 1532 (cat. 88), non risulta ad oggi pervenuta. Parte della critica ha ritenuto che il dipinto non fu mai realizzato (Boggero 1986; Bartoletti 1993, 1999h, 1999i, 2012). Fedozzi, in un primo momento (1991, pp. 18-19), ipotizzò che già durante la fase di elaborazione del progetto potesse essere emersa una frattura tra pittore e committenza a causa della divergenza di vedute tra le due parti, comportando, così, un’interruzione del rapporto, «forse», aggiunse Bartoletti, «perché essa [la committenza] non trovava consone ai propri gusti le cadenze toscaneggianti del suo linguaggio» (Bartoletti 1993, p. 34; 1999i, p. 34; 2012, p. 32). Non manca, tuttavia, chi crede che l’opera sia stata, invece, eseguita e che abbia costituito per il Macario un inevitabile termine di confronto (Scagliola 2005-2006).

Documenti: ACT, notaio G. B. Ardizzoni, f. 164, s. n., 23 marzo 1523 (doc. V).

Bibl.: Calvini 1982 [Calvi 1622-1623], pp. 110-111, 254-255; Reghezza 1908-1912, pp. 123-

124, 133-35; F. Boggero in Restauri 1986, p. 55; Fedozzi 1991, pp. 18-19, 55-57 cat. 4; De Moro, Romero 1992, pp. 33-34, 172; Bartoletti 1993, p. 34; Bartoletti 1999h, p. 392;

Bartoletti 1999i, p. 34; Fedozzi 1999c, p. 547; Cervini 2000, p. 8; Bartoletti 2002, p. 70; Scagliola 2005-2006, pp. 67-68; Bartoletti 2012, p. 32; Fedozzi 2016, p. 217; A. Sista in

Rinascita 2019, p. 12.

54. Raffaello De Rossi

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