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Rapporto Eurofound: The gender employment gap: Challenges and solutions

Nel 2016 Eurofound ha pubblicato anche un rapporto focalizzato proprio sul divario occupazionale tra donne e uomini, il rapporto è particolarmente interessante e rilevante per questa ricerca perché, oltre a fare luce sulle aree più critiche, dedica spazio ad alcune buone pratiche già introdotte e sperimentate in alcuni paesi europei (come la Germania), che potrebbero fungere da esempio da seguire per paesi, come ad esempio l’Italia in cui la differenza tra il tasso di occupazione maschile e femminile è tra i più marcati in Europa. Nel rapporto vengono prima di tutto citati alcuni dati relativi all’occupazione femminile e maschile in Europa. Si sottolinea il divario occupazionale di genere è maggiore in Grecia, in Italia e a Malta, rimane invece più contenuto in paesi dell’Europa del Nord come Finlandia, Lettonia, Lituania e Svezia. Nel documento viene riportato il costo totale dell’attuale tasso di

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occupazione femminile, valutato nel 2013 attorno ai 370 miliardi di euro, pari a circa il 2,8% del PIL dell’UE. Si stima che il costo dell’esclusione di una donna dal mercato del lavoro durante il corso della propria vita sia attorno a 1,2 e 2 milioni di euro, a seconda del proprio livello di istruzione. Lo studio riconosce inoltre che il lavoro domestico svolto da donne non attive all’interno del mercato del lavoro contribuisce notevolmente all’economia e che la partecipazione al mercato del lavoro da parte delle donne non ha però solo delle implicazioni economiche, ma anche degli effetti sociali. Migliora infatti la percezione individuale sulla qualità della propria vita e aumenta la qualità della società. Le donne occupate considerano infatti la propria vita più positivamente rispetto a quelle non attive nel mercato del lavoro, hanno inoltre livelli superiori di sicurezza economica e inclusione sociale maggiori. Nel documento ci si sofferma anche sulle politiche per la promozione della partecipazione delle donne nel mercato del lavoro che includono, tra le altre cose, disponibilità e flessibilità dei servizi di cura dei bambini, flessibilità del congedo genitoriale e di altri congedi, una cultura del lavoro a favore del lavoro flessibile e reattività al cambiamento dei bisogni nel corso della propria vita. Un aumento nel supporto pubblico alla cura dei bambini con lo scopo di aumentare la partecipazione delle madri nel mercato del lavoro sarebbe da auspicare soprattutto in Grecia, in Irlanda e in Italia. Tuttavia, questo aumento è legato anche alla disponibilità finanziaria dei paesi, per esempio in Italia gli asili sono finanziati dai comuni, il cui budget è stato fortemente ridotto dal governo centrale. Inoltre in Italia, così come in Grecia, sarebbe necessario aumentare gli orari di apertura degli asili per far sì che le madri possano lavorare full-time. Parlando di buone pratiche, in Svezia, ad esempio, gli asili pubblici sono garantiti a tutti i genitori e la maggior parte di questi sono aperti dalle 6.30 alle 18.30. Inoltre, per i bambini dai 3 ai 6 anni gli asili sono gratuiti fino a 15 ore alla settimana. Oltre ai servizi per la cura dei figli, vari studi hanno dimostrato che anche servizi di supporto alla cura degli anziani sono necessari per aumentare il tasso di occupazione femminile.

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Tra le buone pratiche in favore della partecipazione delle donne nel mercato del lavoro menzionate nel rapporto troviamo la Perspektive Wiedereinstieg, tradotta come reintegrazione professionale, introdotta in Germania. L’iniziativa sostiene le donne che sono rimaste fuori dal mercato del lavoro a causa di questioni familiari per almeno tre anni e che stanno cercando di riottenere un’occupazione e offre, attraverso un portale online, informazioni e servizi di orientamento e formazione. Si rivolge anche ai datori di lavoro attraverso un portale che contiene informazioni sugli incentivi fiscali ed esempi di buone pratiche sulle strategie per supportare sia il reintegro delle lavoratrici che politiche a favore delle famiglie. Inoltre, il rapporto inserisce tra le buone pratiche anche il sistema di sussidi genitoriali in vigore in Germania. Il così detto Elterngeld è un sussidio che spetta ai genitori durante il primo anno dopo la nascita o l’adozione di un figlio sia nel caso in cui riducono il proprio orario lavorativo (fino a un massimo di 30 ore), che se usufruiscono di un congedo. Spetta anche a studenti e a genitori non occupati, inoltre, per i genitori single il sussidio può estendersi fino a un massimo di 14 mesi. Per quanto riguarda l’Italia, i dati dimostrano che il congedo di maternità ha un effetto positivo sull’occupazione femminile, perché, per le donne che abbandonano il proprio lavoro dopo la nascita di un figlio risulta molto difficile riottenere un’occupazione.

Un altro tema trattato nel rapporto di Eurofound è il cosiddetto gender pay gap o divario retributivo di genere, rimasto costante in tutti gli stati membri dell’UE, nonostante la legislazione sulla retribuzione paritaria tra donne e uomini sia entrata in vigore più di trent’anni fa. Tra le cause responsabili del divario vengono menzionate la difficoltà di conciliare lavoro e vita privata, la sottovalutazione delle competenze e del lavoro delle donne e un mercato del lavoro in cui persiste la segregazione di genere. In media, nel 2014, le donne hanno guadagnato nell’UE 16,1% in meno per ora rispetto agli uomini, secondo i dati Eurostat. Il divario persiste nonostante le donne abbiano prestazioni migliori sia a scuola che all’università. Dato che le scelte delle donne in ambito lavorativo sono spesso vincolate anche dal difficile equilibrio tra

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lavoro retribuito e non retribuito, questioni legate a una migliore conciliazione dei due ambiti acquisiscono un’importanza primaria. C’è inoltre da constatare che, se, da una parte, il fatto di avere figli aumenta il tasso di occupazione tra gli uomini, dall’altra, tra le donne continua a produrre l’effetto contrario in quasi tutti i paesi europei.

Nella figura 17 sono riportati i punti percentuali di divario tra la retribuzione maschile e femminile. Osservando questo grafico l’Italia, nell’economia nel suo complesso, ha un gap pari solo al 5,5 per cento Se si scompone lo stesso indice a seconda che il datore di lavoro sia pubblico o privato, emergono forti differenze: per l’Italia, il gender pay gap è pari a 3,7 nel pubblico e a 19,6 nel privato. Ma, come afferma Roberta Carlini su Internazionale, il gender

pay gap “grezzo” non ci dice tutto. Carlini prosegue spiegando che

A volte, come nel caso italiano, irisultati migliori non si devono a una migliore situazione generale delle donne italiane sul mercato del lavoro retribuito, ma anzi, proprio al suo opposto. In primo luogo questo indicatore, misurando la paga oraria,

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non tiene conto del fatto che tra le donne è molto più diffuso il lavoro part-time, dunque il gender gap che non si vede sul salario orario si allarga, e molto, su quello mensile o annuale. Si potrebbe dire che questo non è frutto di discriminazione ma di libera scelta: purtroppo così non è, visto che l’Istat ci informa che il 60 per cento del part-time femminile è involontario.

Carlini sostiene inoltre che c’è un’altra ragione per cui l’indice del grafico risulta un po’ fuorviante: per definizione, infatti, questo gap è calcolato solo sulle donne che lavorano. E l’Italia ha storicamente una occupazione femminile molto bassa con un divario di 19 punti percentuali rispetto al tasso di occupazione maschile. Il divario di genere sul tasso di occupazione paradossalmente può restringere quello salariale, se a restare fuori del mercato del lavoro sono le donne meno qualificate e che svolgerebbero mansioni più basse: è quello che storicamente è successo in Italia.

2.5 Relazione del 2 agosto 2016 sulla creazione di condizioni del mercato del