• Non ci sono risultati.

La rappresentazione aporetica della scena coniugale: la riconciliazione della presenza-assenza dell’amato nell’hic et

CAPITOLO II Itaca per sempre e Fantasmi romani: quale romanzo matrimoniale?

4. Il discorso romanzesco.

4.1. Il discorso binario come principio di conservazione, necessità e reciprocità.

4.1.1. La rappresentazione aporetica della scena coniugale: la riconciliazione della presenza-assenza dell’amato nell’hic et

nunc della scrittura romanzesca.

La natura dialettica della relazione matrimoniale, come è declinata dall’autore, si distingue rispetto alle consuetudini che nel matrimonio vedono il coronamento istituzionalizzato dell’ideale amoroso.151 Ne è un esempio il racconto Bakark, pubblicato prima sulla rivista «Linus» e poi riunito nella raccolta Dopo il pescecane, in cui il protagonista scopre che ad usare troppo la parola amore si ingrassa fino a morirne. Egli quindi studia una cura che consiste nell’eliminare progressivamente l’uso improprio di tale parola, allo scopo di non svuotarla completamente del suo significato.

Tuttavia le convinzioni malerbiane sull’amore non contraddicono la teoria freudiana secondo la quale la relazione amorosa è espressione di un desiderio irrealizzato e irrealizzabile. Per questa sua natura, la relazione amorosa non può che esprimersi nella forma di una relazione di tipo fantasmatico. Tradizionalmente tale relazione giungeva a compimento solo per intermediazione (dio, gruppo sacrale o fusione sessuale) e, come si evince dallo studio derougemontiano sull’amore in Occidente, avveniva per lo più al di fuori del matrimonio.

Luigi Malerba, invece, individua anche nel legame coniugale un tipo di struttura aporetica riconducibile alla dialettica presenza-assenza. In tal modo egli attribuisce al matrimonio una connotazione che non corrisponde ad un ideale di felicità e di affermazione sociale, quanto piuttosto ad un percorso verso la conoscenza che ha un esito solo attraverso la narrazione. A ben vedere, il desiderio nasce principalmente come desiderio di conoscenza e si traduce, almeno secondo la lezione lacaniana, in una domanda riguardante l’identità del soggetto all’interno del linguaggio. Tale richiesta si produce dalla

151 Anche nel Protagonista, Milano, Bompiani, 1973, p. 136, Luigi Malerba ironizza sul tema: «Io mi

necessità di far fronte ai propri bisogni: Ulisse si chiede ripetutamente chi egli veramente sia, Penelope invoca maggiore considerazione ed esprime il bisogno di una soddisfazione anche sensuale. Per parte loro Giano e Clarissa, che sulle prime spostano l’interrogazione sull’identità della coppia, si ritrovano a fare i conti con la stessa identità linguistica di lei.

In Itaca per sempre Penelope si cala socraticamente nella dimensione del discepolo che per raggiungere la verità deve vivere l’esperienza della follia, quasi in una esperienza mistica ante litteram: «Nelle lunghe sere passate in solitudine […] mi prende improvviso il desiderio di parlare di Ulisse, ma non so con chi. E allora pronuncio il suo nome per tutta la notte come una pazza. Ma non sono pazza, posso essere disperata ma non sono pazza. La pazzia è un lusso che non mi posso permettere» (IS, 43); «Parlo da sola come le persone fuori di senno o come una donna ubriaca, io che non bevo mai vino» (IS, 69). La preghiera cristiana è sostituita con la ripetizione del nome del consorte fino all’annichilimento o alla pacificazione dell’animo simile a quello raggiunto nell’esperienza estatica.152 Al contrario che per la donna, che ex-vocis richiama la presenza del marito, Malerba colloca Ulisse in una condizione di passività: egli possiede e porta con sé una conchiglia dalla quale ascolta la voce della moglie e ne sente la presenza. Per Ulisse Penelope è nella conchiglia ed averla dimenticata sulla nave significa che Penelope non è, cioè che è assente. La donna infatti è sempre e non si sottrae mai alla propria presenza ogni volta che Ulisse la porta all’orecchio, in un’eco kafkiana che rimanda al Silenzio delle sirene (Das Schweigen der Sirenen, 1917). In quel racconto, lo scrittore praghese si chiedeva se le sirene, in fin dei conti, avessero mai cantato al passaggio della nave di Ulisse. Costui non sa se non le sente perché ha le orecchie turate di cera o invece perché non esistono. Il fatto che egli sia convinto della loro esistenza dà tuttavia alle sirene una consistenza ontologica. Come la voce di Penelope, la loro voce assume una potenza creativa fondante della realtà che di

152 Per approfondimenti sul tema del misticismo femminile cristiano si rinvia al volume curato da

per sé non è contingente, ma emotiva in quanto frutto dell’attività della psiche. La forza della voce, che allude all’originaria natura orale del racconto, ha un fascino indubbio sull’autore parmense che vi attribuisce un’energia generativa simile a quella del lògos giovanneo.153

Nell’inscenare un discorso di tipo metonimico,154 Malerba fin da principio mette in relazione l’evocato con colui che lo evoca in modo tale che i componenti della coppia, pur non dialogando direttamente tra loro producono una propria realtà, e nel conoscere se stessi, finiscono anche per ri-conoscere l’altro.

Il disordine di matrice fenomenologica, osservato nel Serpente, nel

Pianeta Azzurro o anche in Salto mortale, che nell’esperimento della plurivocità

spiegava la capacità della scienza di moltiplicare all’infinito la realtà, viene sostituito con un discorso narrativo più strutturato che corrisponde meglio alla dialettica su cui Malerba fonda il rapporto realtà-immaginario. Infatti, come aveva già sottolineato Francesco Muzzioli in un saggio pubblicato su «Belfagor» nel 1989, «l’immaginario deve essere accolto e dotato di pari diritti, proprio in quanto ha continui effetti concreti sulla realtà: non è un doppione supplementare, ma fa parte di essa».155 L’immaginazione, infatti, modifica la realtà e le azioni di chi la sta vivendo, secondo un assunto già teorizzato da Jean-Paul Sartre156 nel 1936 e che Margherita Heyer-Caput non manca di

153 Non si tratta di una peculiarità di Itaca per sempre. Già nel Serpente la voce crea nell’esatto momento

in cui si manifesta e alla voce del narratore è affidata la creazione del racconto.

154 A tale proposito la studiosa walcottiana Valérie Bada, citata da Lisa Pike-Florindi nella sua tesi di

dottorato nel 2008 intitolata Penelope Speaks: Making the Mythic Specific in the Work of Five Contemporary

Caribbean and Italian Writers – Lorna Goodison, Juana Rosa Pita, Derek Walcott, Silvana La Spina and Luigi Malerba, rileva che la relazione aporetica è basata sul binomio attesa-ritorno e mostra da un punto di

vista narrativo un possibile scioglimento della contraddizione. Secondo Bada, anche i nodi della tela che Penelope non ha ancora stretto sono rappresentativi della presenza-assenza di Ulisse. Attraverso una relazione di tipo metonimico i nodi della tela rinvierebbero a quelli nautici: il fare e disfare tali nodi ha un impatto sul ritorno di Ulisse perché lo differiscono continuamente, così come Penelope rinvia continuamente la conclusione della tela. In altro modo la ripresa della metafora della tessitura intesa come arte del racconto sostiene non solo la possibilità di narrare una storia altrimenti impossibile, ma sottolinea anche l’esistenza di un racconto di Penelope, quello privato delle sue stanze relativo alla sfera dell’emotività e degli affetti.

155 Francesco Muzzioli, Ritratti critici di contemporanei. Luigi Malerba, in «Belfagor», nr. 5, 30 sett. 1989, p.

531.

156 Jean-Paul Sartre, L’immaginazione. Idee per una teoria delle emozioni (1936), trad. it. Enzo Bottasso,

riportare all’attenzione in un recente saggio malerbiano apparso su «Avanguardia» quando scrive che

l’immaginazione coopera, da un lato, con la percezione, anticipando la nostra possibilità di azione nel reale, mentre dall’altro, proietta le sue “immagini” o “fantasmi” in una direzione tangenziale rispetto all’azione evenemenziale, divenendo così finzione, attività ludica e onirica. Cosicché l’immaginazione, per questa sua intrinseca ambiguità ontologica, contribuisce di volta in volta ‘à étendre notre domination pratique sur le réel, ou à romper le attaches qui nous y relient’157.

L’immaginazione passa dallo stato di percezione a quello di esperienza: di fatto l’immaginazione altera la realtà al punto che essa è percepita come “altra” da ciò che è. Essa non è dunque più descrivibile, ma frutto dell’arbitrarietà dei sensi («vedo, sento»).158 Infatti, secondo la lezione sartriana, l’oggetto percepito è esattamente l’oggetto che si vede e si osserva quando è sotto i nostri occhi, mentre l’atto immaginativo, che è un atto spontaneo e non il prodotto dell’osservazione delle cose, comporta il rivolgersi allo stesso oggetto mentre esso non c’è. La scrittura malerbiana pertanto si distingue nettamente dall’esperienza del Nouveau Roman la cui orginalità scaturisce sì dallo sguardo, ma la descrizione della superficie delle cose che colpiscono l’occhio anziché dimostrarsi il principale strumento gnoseologico attraverso cui si intende dare ragione della realtà, si trasforma ben presto in uno sterile esercizio di stile.

Paradossalmente, da quando Ulisse può sentirne la voce vera, egli percepisce la moglie come più assente di quando la sentiva sussurrare nella conchiglia. È come se la presenza della donna avesse spazzato via l’idea di donna contenuta nella conchiglia. Pur nello stesso luogo, i due coniugi sono separati, alla maniera della scena adulterina rappresentata da Italo Svevo nella Coscienza

157 Margherita Heyer-Caput, Tra brevitas e levitas. La profondità alla superficie dell’ultimo Malerba, cit., p. 36. 158 «Il fantasma di Ulisse […] rende [i Proci] irritabili e rumorosi […] Se chiudo gli occhi in qualunque

momento della giornata vedo la sua nave che veleggia sulle onde del mare e non ho bisogno di molti pensieri per capire che si sta dirigendo verso Itaca. Talvolta sento il sibilo del vento e il fragore delle onde che si infrangono contro il nero scafo della nave e la voce di Ulisse che dà gli ordini ai marinai. Ma sono ormai troppi anni che questa immagine mi conforta e mi inquieta inutilmente. Il pensiero di Ulisse mi segue ovunque […] Quando visito i frantoi dove si spremono le olive e si riempiono le anfore di olio verde e profumato, io sempre vedo Ulisse che mi accompagna come un’ombra» (IS, 42).

di Zeno. Svevo, esposto e affascinato dalle prime teorie freudiane, aveva colto

uno degli aspetti più complessi della vita matrimoniale anche sul piano narrativo: l’essere nel matrimonio come adulteri – un ossimoro peraltro attorno al quale Malerba costruisce Fantasmi romani. Tuttavia, la distanza tra Zeno e Augusta non è reale, ma simbolicamente inscenata nel vecchio cliché del marito fedifrago che al contempo non vuole rinunciare alla stabilità e alle sicurezze che il matrimonio gli garantisce. Malerba al contrario preferisce ricreare il concetto di assenza con il monologo esteriore, cioè una voce non proferita, al contempo presente e assente, e raggiunge consistenza all’ipotesi, da noi formulata in occasione del travestimento, sull’aporia della presenza- assenza. Nella rappresentazione matrimoniale ciò si risolve infatti in una assoluta anonimia dell’uomo che è marito ma non può rivendicarlo.

Non dissimile è il procedimento narrative messo in atto da Böll in E

non disse nemmeno una parola. Nel romanzo tedesco, Fred ha abbandonato il tetto

familiare perché oppresso dalla miseria, in quello italiano Ulisse è rimasto lungamente lontano dalla patria e rimane nascosto. Si ripropone il cliché dell’uomo che si allontana di casa e impone la sua assenza, al contrario le mogli sono dipinte secondo il modello stereotipato della donna che non si allontana dal nido e che rimane in attesa del ritorno dell’amato. A partire da questi assunti Böll e Malerba discutono e costruiscono una personale idea della relazione coniugale che rifiuta la concezione del matrimonio come realizzazione di un precetto morale o garanzia di stabilità economica e sociale e si concentrano su un aspetto più personale nel quale si riflette la compartecipazione e la corresponsabilità del singolo al progetto comune.

Nei due romanzi in questione e in Fantasmi romani poi, il piano del récit e l’organizzazione del discours riflettono con chiarezza tale concezione. Le voci di Fred e Käthe, di Ulisse e Penelope, di Giano e Clarissa si alternano senza mai intersecarsi tra loro e inscenano tale relazione di presenza-assenza nella quale i soggetti del discorso amoroso sono alternativamente quelli dell’Io che ama nell’altro. A ben vedere però l’assenza non è una vera assenza, così come

la presenza non è mai un vera presenza. I romanzi analizzati, infatti, presentano coppie sposate che effettivamente si trovano nello stesso luogo: Fred e Käthe non vivono più insieme ma si frequentano regolarmente e sono informati rispettivamente delle vicende che riguardano l’altro; Ulisse e Penelope sono entrambi a Itaca nella reggia; Giano e Clarissa vivono nella stessa casa, pur avendo una propria vita indipendente fuori dalla mura domestiche. Tuttavia non riescono a comunicare tra loro verbalmente, non partecipano alla vita dell’altro e della famiglia, mentono o parlano per enigmi e

Witze, narrano o scrivono narrazioni. Al contrario l’unica comunicazione che

sembra funzionare è quella primitiva del rapporto tra corpi.

Come sintetizzare tale frattura, senza rinunciare alla forma matrimoniale? Ciò avviene sul piano del récit laddove il monologo del singolo coniuge include il discorso del proprio compagno rendendolo presente. Il vuoto creato dall’assenza produce cioè lo spazio per un discorso onnicomprensivo e, nel linguaggio che si articola in racconto, permette all’assente di esserci, secondo quanto sostiene Roland Barthes e cioè che «l’altro è assente come referente e presente come allocutore».159 Infatti, in tutti i romanzi citati l’io monologante non parla all’altro, ma parla di sé includendo l’altro. L’intenzione sottostante sembra ricondotta alla capacità insita nella narrazione di sanare la frattura tra Io e altro: attraverso il discorso l’altro torna a sé. La forma romanzesca scelta da Böll e Malerba, pertanto, si offre alla riflessione di tipo estetico come il luogo in cui l’aporia della presenza-assenza anziché annichilire il racconto della scena matrimoniale, ne sposta il significato ponendolo su un altro livello di comprensione. La scrittura consente di materializzare l’assente in virtù del fatto che il linguaggio è in grado di

159 Roland Barthes, Frammenti di un discorso amoroso (1977), trad. it. Renzo Guidieri, Torino, Einaudi,

attualizzare nel segno ciò che invece nella realtà rimane “laggiù”.160 Ne è esempio Fantasmi romani, che mutua la forma dialogica del romanzo precedente ma sposta i termini del racconto dall’oralità alla scrittura e ne incarna l’epifania. Nel suo ultimo lavoro l’autore emiliano recupera l’espediente del diario conservato in un cassetto che viene trovato aperto o che può essere facilmente aperto: il diario che si rivela essere un romanzo è letto a insaputa del marito dalla moglie. Grazie a questo secondo sguardo che Clarissa conoscerà una personalità e una natura sua e del consorte che non le erano note prima, sperimentando direttamente che l’essere umano è creatura alla mercé del linguaggio.

4.2. La duplicazione dei punti di vista. La voce salvata: dalla