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Il razzismo germanico e il razzismo romano-italico di Pende

3 La vicenda del Manifesto e il dopoguerra di Pende

3.2 Il razzismo germanico e il razzismo romano-italico di Pende

Che la “svolta” in senso razzista e anti-ebraico di Mussolini sia stata motivata da considerazioni opportunistiche e non da profondi e inveterati sentimenti antisemiti parrebbe in parte confermato, oltre che dalla sua relazione con Margherita Sarfatti, da una serie di dichiarazioni in cui il Duce potrebbe apparire addirittura filosemita:

L’antisemitismo non esiste in Italia. Gli ebrei italiani si sono sempre comportati bene come cittadini, e, come soldati, si sono battuti coraggiosamente. Essi occupano posti elevati nelle università, nell’esercito, nelle banche.135

In polemica col Vaticano, durante le trattative che precedettero il Concordato ebbe a dire, in funzione tattica:

Questo carattere sacro di Roma noi lo rispettiamo. Ma è ridicolo pensare, come fu detto, che si dovessero chiudere le sinagoghe o la sinagoga. Gli ebrei sono a Roma dai tempi dei Re; forse fornirono gli abiti dopo il ratto delle Sabine. Erano cinquantamila ai tempi di Augusto e chiesero di piangere sulla salma di Giulio Cesare. Rimarranno indisturbati.136

E se agli occhi di Mussolini il Führer appariva come un “cialtrone” di

breve durata, diversa era la considerazione che nutriva nei confronti del “grande popolo” di Israele con il quale, il 13 novembre 1934

135 Ludwig, 1932, pp. 73-74. 136

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rivolgendosi a Nahoum Goldmann, presidente dell’organizzazione mondiale sionista, affermava di simpatizzare:

Conosco Hitler. È un imbecille e un cialtrone [vaurien]… gli ebrei saranno sempre un grande popolo… Hitler non è che una farsa destinata a durare qualche anno … io sono sionista, io.137

Per questo ancora nel 1937, a soltanto un anno dalla pubblicazione delle leggi razziali, al cancelliere austriaco Kurt Schuschnigg dichiarava la netta distanza tra il fascismo e il razzismo d’oltralpe:

è manifesto che tra il Fascismo e il Nazismo vi sono delle differenze sostanziali. Noi siamo cattolici, fieri e rispettosi della nostra religione. Non ammettiamo le teorie razziste, soprattutto nelle loro conseguenze giuridiche.138

Se dunque da parte del fascismo nei confronti degli ebrei vi fu un atteggiamento molto ambiguo, alternando fasi di antisemitismo ad altre di tolleranza e rispetto, completamente diversa era la situazione nella Germania nazista.

In Germania l’antisemitismo aveva avuto un ruolo importante per l’ascesa al potere del nazionalsocialismo, che sfruttò oltre all’odio secolare contro gli ebrei, la frustrazione dei tedeschi per l’esito della Prima Guerra Mondiale. A una “cricca” di banchieri ebrei si imputava infatti la responsabilità delle sanzioni che gravavano sull’economia

137 Draenger, 1956. 138

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tedesca. Hitler ne aveva fatto una bandiera nel suo libro programmatico, il Mein Kampf, la cui traduzione italiana apparve nel 1934 da Bompiani, dopo che Mondadori si era rifiutato di pubblicarlo. Per comprendere da dove abbia avuto origine questa avversione contro gli ebrei, come sia potuta diventare così importante da motivare la gigantesca operazione di sterminio messa in piedi dalla Germania per la “soluzione finale” del problema ebraico è necessario ripercorrerne brevemente l’evoluzione.

Storicamente aveva una doppia origine religiosa l’odio per gli ebrei, ritenuti colpevoli della morte di Cristo e perciò esclusi, per volere della Chiesa, dall’esercizio di ogni professione tranne che dall’usura, attività turpe e peccaminosa che a loro, già dannati, era consentito esercitare. Odiati quindi prima in quanto deicidi e poi in quanto usurai. Anche Lutero aveva riservato agli ebrei odio ed esecrazione, e in modo ancora più violento, affermando trattarsi di stranieri che soggiornavano senza alcun diritto in terre non loro; parassiti che, senza mai lavorare, miravano ad impossessarsi del frutto dell’operosità dei cristiani indebitandoli con i loro sistemi di prestito ad usura. Lutero arrivò al punto di voler bruciare le Sinagoghe e i libri sacri degli ebrei, poi metterli ai lavori forzati o buttarli fuori dal paese. Nella sua predicazione l’ebreo è sempre associato a concetti come schifo, puzza, sudiciume, escrementi. Si deve probabilmente al radicamento di queste associazioni se nella lingua tedesca figurano numerose locuzioni e addirittura un verbo che stigmatizzano queste

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particolari caratteristiche “ebraiche”. Solo nel Settecento l’Illuminismo e i princìpi della Rivoluzione Francese aprirono agli ebrei la possibilità di diventare cittadini come gli altri, anche se fu proprio nella nascente antropologia illuminista che si cominciarono a delineare gli elementi di una classificazione scientifica dell’umanità in razze diverse, superiori ed inferiori. Se da una parte diventava possibile per gli ebrei accedere al mondo della cultura e della scienza, accantonando o abbandonando gli ambiti tradizionali del pensiero ebraico come il Talmud e la Kabbalah, dall’altra la nuova scienza si preparava ad offrire una veste “obiettiva” ai radicati pregiudizi contro di loro, definendoli disprezzabili non più in quanto “deicidi” ma in quanto “semiti”, razza inferiore.

Non è comunque tanto nel Settecento che si trasforma l’odio religioso in odio razziale, quanto piuttosto nell’Ottocento. Diversi fattori concorrono a costruire l’idea stessa di razza, portandola ad essere elemento fondante della politica. Nel momento in cui venivano formandosi gli stati nazionali, per vantare un solido diritto sui territori in cui risiedeva, un popolo doveva non solo poter affermare che gli appartenevano da tempi antichi, ma che in quanto gruppo etnico si differenziava profondamente e nettamente dai suoi confinanti, per lingua, tradizioni, cultura e per caratteristiche morfologiche. Il concetto di razza accomunava tutte le peculiarità e le differenze esclusive dei nativi di un territorio creando un legame biologico sia fra loro stessi sia fra loro e il suolo, una radice solida e profonda per

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l’idea di “Patria”.

Un altro importante fenomeno che trovò nell’idea di razza valido supporto fu l’espansione coloniale degli stati nazionali. Dopo aver affermato il loro diritto di autoctoni a possedere il territorio come potevano giustificare l’occupazione di terre che appartenevano ad altre popolazioni? Non solo l’idea di razza, ma l’idea che esistano razze superiori e inferiori fornì la soluzione desiderata. La superiorità razziale degli invasori poteva motivare il proprio intervento, che avrebbe mostrato agli attuali occupanti come meglio sfruttare un territorio di cui non conoscevano le potenzialità. Gli indigeni avrebbero dovuto essere grati ai bianchi che portavano loro la civiltà. Il concetto di razza viene ulteriormente ad arricchirsi di connotazioni nell’incontro con l’idea di una selezione eugenica opportunamente

guidata. Se inizialmente il termine “razza” può semplicemente

indicare un raggruppamento legato da una qualche caratteristica, è in funzione di un “allevamento” selettivo che si procede a definire

scientificamente l’insieme delle popolazioni umane evidenziando i

caratteri tipici, desiderabili o da eliminare, correlati a differenti gruppi etnici.

Alla nascita dei grandi stati nazionali si accompagna la riscoperta dei valori religiosi cristiani, assunti come elementi fondanti della cultura e della civiltà, contribuendo così a rinfocolare l’avversione contro gli ebrei, visti come elementi estranei alle radici culturali nazionali, e provocando il ritorno di un antisemitismo cristiano.

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In Germania in particolare l’insieme di tutti questi fattori venne a legarsi con un articolato complesso di studi scientifici, di eugenica, antropologia, demografia e biologia, incentrati sul tema della razza. L’opinione che ci fosse una razza superiore, quella ariana, da difendere e che fosse assolutamente necessario agire per preservarne la purezza veniva a poggiare su un poderoso apparato scientifico. E scientificamente fu programmato lo sterminio degli indesiderabili, soprattutto ebrei.

L’Italia si trovava, per motivi storici e culturali, in una situazione molto diversa, nonostante la formazione dello stato nazionale fosse recente come in Germania. All’unità territoriale si era giunti solo dopo tre guerre d’indipendenza e la successiva presa di Roma, capitale del regno nel 1871. Gran parte delle popolazioni del meridione d’Italia avevano vissuto l’arrivo delle truppe piemontesi come una guerra di

occupazione. La ribellione popolare contro l’annessione al Regno

d’Italia, definita come “brigantaggio”, è un chiaro sintomo di quanto poco gli Italiani sentissero di far parte di un comune ceppo razziale. L’Italia era stata fin dall’antichità uno straordinario miscuglio di etnie diverse, un crocevia di popoli e di culture. Aveva subito, dopo la caduta dell’Impero Romano, invasioni e dominazioni da molti popoli senza che nessuno di essi avesse potuto determinarne le caratteristiche etniche in modo così esclusivo da poter essere assunto come ceppo originario. L’unico fattore unificante, l’unico mito su cui fondare un orgoglio nazionale restava l’antica Roma, un

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glorioso passato di cui ogni italiano poteva sentirsi erede. Si trattava

comunque di un legame spirituale, non c’era la pretesa, almeno

inizialmente, di vantare una discendenza di tipo biologico. In Germania, gli studiosi della razza tentavano invece di dimostrare un’effettiva, scientificamente provata discendenza da ceppi ariani. Il

razzismo romano-italico era, nella visione orgogliosamente

propugnata da Pende fin dai primi anni ’30, fondato sull’idea che della razza bianca esistessero cinque varianti, mediterranea, dinarica, alpina, nordica e slava, di cui la prima, frutto della fusione delle razze brune di area mediterranea, aveva saputo dare origine alla Roma imperiale. Pende sosteneva che i teorici tedeschi, sulla base di un’antiscientifica confusione tra razza e nazione: “rincorrono una presunta “purezza” etnica senza capire che le distinte “qualità” razziali possono e devono convivere nella superiore unità politico- culturale della “stirpe”.”139 Secondo lui solo nelle razze mediterranee, grazie alle loro eccezionali qualità, “la grande idea di Roma ha potuto trovare il suo humus biotipologico fecondo: mentre mai nella storia tale idea è riuscita a dissodare l’anima nordica e slava”.140

Un’affermazione di superiorità della civiltà romana rispetto a quella germanica - “razza” per Pende era sinonimo di “personalità collettiva” di un popolo141 - che è in sostanziale accordo con il giudizio

139 Pende, Biologia delle razze ed unità spirituale mediterranea, (Conferenza a Nizza il 5 gennaio 1934 su invito del Centro Mediterraneo e della Società Dante Alighieri), il testo è in ACS, SPD-CO f. 509-058, “Gr. Uff. Prof. Nicola Pende”, cit. in Mantovani, 2004, p. 328.

140 Ibid. 141

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inizialmente dato da Mussolini, nel 1934, della “nobiltà di razza” dei Tedeschi, commentando i primi provvedimenti razziali della Germania nazista:

Trenta secoli di storia ci permettono di guardare con sovrana pietà talune dottrine di oltre Alpe, sostenute dalla progenie di gente che ignorava la scrittura con la quale tramandare i documenti della propria vita, nel tempo in cui Roma aveva Cesare, Virgilio e Augusto.142

L’opinione espressa da Pende che i teorici tedeschi confondessero razza e nazione era comune anche ad altri studiosi: nel 1929, nel primo volume della collana “Studi giuridici e storici” dell’Istituto nazionale fascista di cultura, voluta da Giovanni Gentile, Luca Dei Sabelli aveva affermato: “In realtà l’errore della dottrina tedesca è di confondere due entità ben distinte: la nazione e la razza […] L’unità di una nazione non è data dalla comunanza dei caratteri fisici, ma si realizza sul piano della storia”.143

Aggiungendo poi che, mentre l’Italia: “è una delle più omogenee, delle più spiritualmente e fisicamente unite al mondo […] Il suo popolo può ben vantarsi di essere la risultante di tutte le razze, fuse perfettamente in un’unità nazionale dai caratteri netti e precisi facilmente riconoscibili.”144 Guardando poi alla Germania: “Meno di qualsiasi altra nazione la Germania può vantare la purità della razza.”145

Nel 1935, come 142 De Felice, 1961, p. 159. 143 Dei Sabelli, 1929, p. 44. 144 Ibid., p. 52. 145 Ibid., p. 51.

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estensore della voce Razze umane dell’Enciclopedia Italiana,

l’antropologo Gioacchino Leo Sera scriveva:

E’ assai comune la confusione fra razza, popolo e nazione. Ora, la prima è un’entità antropologica […] Popolo è un’entità sociologica […] Nazione è un’entità di natura politica. […] Non esiste perciò una razza, ma solo un popolo e una nazione italiana. Non esiste una razza né una nazione ebrea, ma un popolo ebreo; non esiste, errore più grave di tutti, una razza ariana (o meglio aria) ma esistono solo una civiltà e lingue ariane.146

E ancora Carlo Costamagna, nella Dottrina del Fascismo, testo ufficiale terminato nel dicembre 1937, affermava:

Il nazionalismo razziale […] rappresenta il più grave pericolo per le sorti della civiltà europea […] Non è possibile desumere la nazionalità dal dato della razza.147

Di particolare interesse è l’opinione di Wilhelm Schmidt, direttore del Pontificio museo missionario etnologico lateranense, il cui testo

Razza e nazione, apparso in lingua tedesca nel 1935 e nella

traduzione italiana nel 1938, divenne punto di riferimento per l’antropologia cattolica italiana. Per Schmidt si era operata durante la prima metà dell’Ottocento, in concomitanza col crescente interesse per gli studi di linguistica, una pericolosa confusione tra razza, nazione e gruppo linguistico, che aveva portato a interpretazioni fantasiose, lontane dalla realtà fisica oggetto di indagine. Al contrario,

146 http://www.treccani.it/enciclopedia/razza_(Enciclopedia_Italiana)/ 147

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nella seconda metà dell’Ottocento aveva preso piede un atteggiamento materialistico, con la pretesa dell’antropologia fisica, cui spetta l’indagine dei caratteri anatomici e fisiologici, di spiegare attraverso quelli la vita spirituale dei popoli, sovrapponendosi indebitamente all’etnologia. Per il credente, non era accettabile la visione di un’umanità determinata, nei suoi caratteri fisici e psichici, corpo e anima, dall’ereditarietà, dalla “razza”. Era una teoria che cozzava con l’idea di anima creata in ogni individuo da Dio, senza legami ereditari, né con un altro corpo né con un’altra anima, nemmeno quella dei genitori. La razza non andava intesa come immutabile, semmai soggetta a trasformazioni sia per effetto dell’ambiente sia della volontà di chi ne è parte. In conformità alla narrazione della Bibbia anche per Schmidt l’umanità aveva avuto inizio in un solo luogo (monogenismo) che egli collocava in Cina e inizialmente, un’unica forma non differenziata. Una prima serie di diversificazioni si sarebbero venute a manifestare con l’affiancarsi alle primordiali attività di caccia e raccolta della coltivazione della terra e l’allevamento del bestiame. Dalla separazione di tre culture legate ai tre modi di sussistenza, attraverso lunghi periodi di isolamento (grandi distanze, ostacoli naturali) e successive interazioni, in cui i popoli pastori si imposero per la loro tendenza a spostarsi e ad occupare le terre, vennero formandosi le razze. Dalle arcaiche razze originarie e dalle primitive culture, attraverso successive unioni e interscambi, nel tempo si sarebbero determinate le razze come le

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conosciamo. Nessuna razza può dunque dirsi pura o primigenia. Le nazioni avrebbero avuto formazione molto tardi, all’interno di grandi gruppi che si trovavano a condividere cultura e aspirazioni. Le nazioni quindi non hanno il loro fondamento né nella razza né nella lingua, ma nel riconoscersi in una comune storia, cultura e, cosa importantissima per Schmidt, religione. Poiché questi erano i principi su cui si fondava l’orientamento dei pensatori cattolici rispetto alle tematiche razziali, è facile comprendere come il razzismo spirituale romano-italico di Pende risultasse per la Chiesa molto più accettabile del razzismo biologistico di stampo tedesco. Per altri versi, poi, il razzismo romano-italico con la sua orgogliosa affermazione di fondarsi sulla gloria di Roma imperiale non poteva non piacere a Mussolini.

Occorre chiedersi quindi perché, al fine di stilare un documento sul razzismo, invece di coinvolgere direttamente Pende o altri scienziati dello stesso orientamento, Mussolini si sia rivolto a Guido Landra, personaggio non certo di primo piano. Nella difficile ricostruzione della genesi del Manifesto vale forse la pena soffermarsi a considerare la particolare forma con cui questo tipo di messaggio è stato confezionato. Non si tratta di un editto o di un proclama in cui l’autorità esponesse delle tesi e decretasse degli obblighi; all’opinione pubblica doveva apparire come l’iniziativa di un gruppo di scienziati, preoccupati per lo sviluppo e la crescita della nazione, che invitavano tutti, i cittadini e le istituzioni, a farsi carico di un problema: quello

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della razza. Successivi pronunciamenti da parte del governo e del Partito sarebbero apparsi come risposta a queste istanze e avrebbero significato un ulteriore passo nel processo che doveva, nelle intenzioni di Mussolini, condurre gradatamente ma in tempi ragionevolmente brevi all’emanazione delle leggi razziali. Emanarle era necessario per uniformarsi all’alleato nazista, farlo senza apparirne gregario era un obiettivo che Mussolini perseguiva per non sminuire la propria autorevolezza agli occhi degli italiani. Tuttavia, malgrado le manovre messe in atto, le sue intenzioni erano così trasparenti che a soli tre giorni di distanza dal comunicato di Starace, segretario del PNF, in cui le proposizioni del Manifesto venivano fatte proprie dal partito, il pontefice Pio XI, in un discorso rimasto celebre

rivolto agli alunni di Propaganda Fide, si chiedeva “come mai,

disgraziatamente, l’Italia abbia avuto bisogno di andare ad imitare la

Germania”.148E’ comunque pensabile che, nelle intenzioni di

Mussolini, quel testo dovesse discostarsi dalle posizioni fin lì assunte dal fascismo, e risultare convincente per l’alleato tedesco. Guido Landra, giovane assistente di antropologia con simpatie naziste, poteva essere l’uomo giusto per scrivere su commissione ciò che Mussolini voleva. Dopo la prima pubblicazione del testo, apparso anonimo su “Il Giornale d’Italia” il 14 luglio, il ministero della cultura popolare convocò alcuni professori universitari che avrebbero dovuto figurare tra i redattori o i sostenitori del “Manifesto degli scienziati

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razzisti”. Secondo la ricostruzione su cui fondarono, con successo, la loro difesa davanti alla Commissione per l’ epurazione, ritenuta tecnicamente attendibile anche da Israel e Nastasi, Pende e Visco protestarono, chiedendo rettifiche o una nuova dichiarazione. Nell’immediato comunque Achille Starace il segretario del Pnf pubblicò nuovamente il Manifesto con la premessa che le proposizioni in esso contenute costituivano la base del razzismo fascista, seguito da dieci firme, comprese quelle di Pende e Visco. I dieci firmatari venivano a costituire il “comitato dei dieci” o Ufficio Razza. Dopo alcune loro riunioni, in cui Pende e Visco avevano continuato a manifestare il loro dissenso, Pende, che aveva mandato a Mussolini il testo di una nuova dichiarazione e successivamente sollecitato il suo segretario particolare Sebastiani perché venisse pubblicata, ricevette il 3 agosto dal ministro Alfieri questa secca risposta: “Per superiore incarico vi comunico che non si ritiene opportuno per ora pubblicazione nota dichiarazione

.”

149 Intanto la serie dei provvedimenti antisemiti procedeva, il 5 agosto comparve l’Informativa diplomatica n.18 dove si affermava che discriminare non è perseguitare e che, visto che gli ebrei in Italia erano solo 44000 bisognava che i posti pubblici da loro occupati fossero proporzionati all’ entità numerica. Era iniziato intanto nello stesso mese un censimento della popolazione ebraica. Il comitato dei dieci non venne più convocato e Landra istituì nel Minculpop un Ufficio studi e

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propaganda sulla razza che iniziò la sua attività il 16 agosto.

Pende, che aveva già rilasciato un’intervista al Corriere della Sera, apparsa il 7 agosto, con il titolo Gli aspetti del concetto razziale nel

pensiero di Nicola Pende, ebbe occasione di far sentire le sue

opinioni alla riunione annuale della Sips il 4 settembre. L’intervento, che aprì i lavori, ripropose la sua visione del razzismo, intesa come insieme di attività per il miglioramento della razza, mediante il ricorso a una biologia politica, facendo uso dell’ortogenesi postconcezionale e della bonifica costituzionale individuale. Attaccò decisamente l’eugenetica negativa di stampo tedesco ma anche, più in generale, ogni tipo di intervento eugenico che non avesse un fondamento spirituale. Era evidente quanto le tesi di Pende fossero discordanti da quelle del Manifesto. Gran parte dei relatori della sezione di Patologia si allinearono o comunque mostrarono una sostanziale unità di vedute con Pende, contrari ad una eugenica anticoncezionale germanica, più proclivi ad un progetto di razzismo “italico” .Che non significava affatto un indebolimento della politica antiebraica, avendo Pende ben chiarito che per preservare la razza bisognava evitare ogni mescolanza, anche con gli altri europei: meglio restare ”italici con italici”. Sul fronte degli interventi legislativi intanto negli stessi giorni, tra il 5 e il 7 di settembre entrarono in vigore i primi provvedimenti di legge anti ebraici, che riguardavano tra l’altro l’espulsione dal loro ruolo, a partire dal 16 ottobre, dei docenti ebrei. L’attacco di Pende non passò inosservato, tanto che l’Ufficio razza,

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diretto da Landra, inviò il 14 settembre un rapporto al ministro in cui si proponeva di applicare il silenzio stampa alle affermazioni di Pende. All’intervento alla Sips fecero seguito due articoli usciti entrambi

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