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Italiani su misura. Nicola Pende:biotipologia e ortogenesi

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INDICE

Introduzione……….2

Capitolo primo………3

L’ambiente culturale

1.1 Nicola Pende: note biografiche

………9

1.2 Eugenica e razzismo in Italia prima e durante il

fascismo

………..18

Capitolo secondo

Dal costituzionalismo di Achille De Giovanni alla politica

biotipologica di Nicola Pende

2.1 La scienza del costituzionalismo

………....31

2.2 Basi teoriche di una schedatura nazionale

……….62

2.3 La bonifica umana

………...80

Capitolo terzo

La vicenda del Manifesto e il dopoguerra di Pende

3.1 Pende e il Manifesto della razza

………100

3.2 Il razzismo germanico e il razzismo romano-italico

di Pende

………106

3.3 Il “caso Pende”: condanna e riabilitazione

all’insegnamento

………..127

3.4 La biotipologia al servizio della religione: scienza e

fede durante il dopoguerra

……….133

Conclusioni……….156

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Introduzione

Argomento di questa tesi è la figura di Nicola Pende, medico endocrinologo pugliese attivo durante e dopo il regime fascista. Nel tentativo di ricostruire le vicende storiche che lo videro protagonista, così come anche le teorie medico-sociali alla base del suo pensiero, è stato necessario servirsi oltre che delle sue opere, talvolta di difficile reperimento, anche di letteratura secondaria abbastanza esigua sull’argomento. A fare da guida alle argomentazioni sviluppate nel corso della tesi sono state soprattutto recenti pubblicazioni incentrate sul tema dell’eugenica in Italia, in cui Pende pur essendo riconosciuto come una delle colonne portanti dell’ “eugenica latina” occupa tuttavia uno spazio molto contenuto. Oltre ad un libro, dedicato interamente a lui e intitolato Gente di razza. Così parlò Nicola Pende tutore della

stirpe e pupillo dei gesuiti e al documentario Il Caso Pende,

trasmesso dalla Rai il 15 febbraio del 2007 nel programma La storia

siamo noi, condotto da Giovanni Minoli, non ci sono altri lavori

specifici su di lui.

Scopo della mia ricerca è stato dunque quello di offrire un quadro per quanto possibile dettagliato del personaggio, documentandone sia il pensiero, sia l’attività. In questo senso, dopo una succinta nota biografica, ho delineato uno sguardo d’insieme sull’ambiente culturale in cui si mosse Pende. Ho quindi riassunto le linee principali dell’eugenica in Italia, disciplina il cui termine, “buona genetica”,

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venne coniato da Francis Galton sul finire dell’ Ottocento. Una scienza che, partendo dal concetto darwiniano di selezione naturale, avrebbe dovuto portare ad un miglioramento della popolazione e, in origine, avrebbe dovuto favorire l’accoppiamento degli individui migliori senza per questo danneggiare quelli più deboli. Questa disciplina però, nel corso della sua diffusione in Europa, venne ad assumere tratti del tutto diversi e particolari. Dopo aver mostrato la distinzione tra un’eugenica “latina”, avversa a interventi drastici nei confronti degli individui più deboli come castrazione o eutanasia, da quella “germanico-scandinava” che al contrario favoriva l’attuazione di tali pratiche costrittive, ho preso in esame la prima. Ho passato velocemente in rassegna quel variegato universo che era l’eugenica italiana prima della cosiddetta svolta popolazionista del 1927, ricco di personalità e indirizzi diversi. Anche Pende nel 1927 scrisse

sull’obbligatorietà o meno del certificato prematrimoniale,

dichiarandosi contrario ad un simile provvedimento che aveva evidenti finalità di controllo delle nascite. Ricordandolo ho inteso

mettere in luce come la sua posizione sul tema dell’eugenica,

essenzialmente pronatalista, andasse perfettamente d’accordo con

quella assunta dal governo fascista nel celebre discorso pronunciato

nello stesso anno da Mussolini il giorno dell’Ascensione: nel

momento in cui si affermava che il numero dei cittadini è la forza della Nazione, non aveva più alcun senso proporre misure come controllo o limitazione delle nascite.

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A questo punto sono passato ad occuparmi dell’impianto teorico alla base della neo-scienza di cui Pende fu il fondatore: la biotipologia. Pende fu allievo di Giacinto Viola, massimo esponente della medicina costituzionalista, indirizzo cui ho dedicato un breve excursus. Oltre a introdurre nuovi parametri di carattere endocrinologico nel sistema di valutazione degli individui su cui si basava quella scuola, immaginò una sorta di controllo medico della totalità degli individui, capace di prendersi cura del singolo fin dal concepimento attraverso appositi istituti biotipologici e con l’introduzione di particolari e dettagliati strumenti di schedatura, i libretti biotipologici. Valutando fin dalla più tenera età (così da poter immediatamente emarginare i futuri criminali) ogni individuo, correggendo opportunamente ad ogni tappa

della crescita i suoi “difetti”, determinando in base alle sue

potenzialità a quale ruolo potesse essere utilmente destinato, il sistema ideato da Pende avrebbe permesso di selezionare e organizzare “scientificamente” una nuova umanità in modo degno delle peggiori fantasie di Aldous Huxley ( Brave new world è del 1932). Sulla base di una teoria organicistica dello stato in cui ogni individuo era paragonato ad una cellula e destinato per questo a ricoprire ruoli ben definiti, diveniva possibile giustificare interventi politici allo scopo di allevare e orientare i cittadini nell’interesse della Nazione. Non a caso il Duce non potette che incoraggiare i metodi proposti da Pende ed è proprio a lui che nel 1933 Pende dedicò il libro che ho illustrato nel terzo paragrafo del secondo capitolo.

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All’interesse per la medicina in senso fisiologico e clinico era subentrato quello per una “biologia politica”, capace di gestire ed organizzare le energie umane dello stato totalitario. A partire dal principio “ogni uomo al suo giusto posto”, Pende arrivò così a definire i ruoli che sarebbero spettati a bambini, donne, lavoratori e razza, i quattro pilastri della società da edificare attraverso biotipologia e ortogenesi. Ovviamente il “Mondo nuovo” di Pende non poteva che essere in piena linea con i propositi del fascismo, e così definendo i compiti e le caratteristiche che ogni individuo avrebbe dovuto possedere veniva a delinearsi una realtà pervasa da maschilismo e da un forte spirito nazionalista. Attraverso la scuola, “più che la famiglia, vera officina della personalità sociale”, si sarebbero formati uomini sani e robusti che, grazie alla biotipologia, avrebbero saputo anticipatamente a quale professione indirizzarsi. Una volta adulti si sarebbero occupati di lavorare per mantenere famiglie numerose, amministrate da mogli relegate ad occuparsi esclusivamente della

sfera domestica. Le donne, nella visione dell’endocrinologo,

avrebbero dovuto abbandonare una volta per tutte l’idea di competere con l’universo maschile nelle libere professioni, nello sport e nel lavoro in fabbrica, occupazioni nocive al loro ruolo di feconde riproduttrici. Per occuparsi dei figli e della casa avrebbero dovuto possedere tratti fisici adatti alla maternità avendo cura di conservare, pur praticando opportuni esercizi fisici, una giusta dose di “grassezza femminile”. Il titanico esperimento di controllo sociale e politico,

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fortunatamente, non decollò mai. Al di là delle affermazioni trionfalistiche, qua e là sparse, secondo cui il libretto biotipologico

fosse stato adottato dall’Opera Nazionale Balilla e divenuto

obbligatorio in tutte le scuole d’Italia fin dal 1935, nella realtà le

uniche esperienze furono probabilmente quelle legate all’Istituto

Biotipologico di Genova diretto da Pende. Nemmeno nel 1938, apice della fortuna di Pende, la Direzione generale per la demografia e la razza, dedita ormai esclusivamente alla campagna antiebraica, si occupò del suo progetto.

Tutte le pubblicazioni che trattano di Pende non hanno potuto fare a meno di occuparsi di un episodio della sua vita, sempre narrato nel segno del dubbio: Pende ha firmato o no il Manifesto della razza ? Grazie alle accurate ricostruzioni della vicenda effettuate da vari storici, appare chiaro che né Pende né Sabato Visco, l’altro cattedratico di un certo peso chiamato come lui a sottoscriverlo, avevano avuto parte nella stesura del Manifesto. Voluto ed ispirato da Mussolini, per testimoniare una vicinanza con l’alleato tedesco e per fornire una base teorica alle imminenti leggi razziali, il Manifesto era stato redatto da un giovane antropologo, assistente universitario, Guido Landra. Articolato in dieci punti come il decalogo biblico, infarcito di riferimenti ad un improbabile arianesimo, il documento

doveva, nelle intenzioni dell’estensore o forse anche del Duce,

essere simmetricamente sottoscritto da dieci scienziati. Pende e Visco, che avevano una reputazione da difendere, cercarono di

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proporre una riscrittura del testo, che venne tuttavia pubblicato tal quale con le loro firme. Non vi fu però mai da parte loro una esplicita dissociazione, né fu mai nemmeno ipotizzato un rifiuto a sottoscrivere il documento. Pende condusse poi una sua battaglia (Visco si defilò rapidamente) con articoli sui giornali e conferenze, per sostenere la sua idea di un razzismo romano-italico, che si configurava come più spirituale che biologico. Violentemente contrastato dai giovani razzisti biologisti di stampo germanico, che facevano capo a “La difesa della Razza”, Pende, appellandosi direttamente a Mussolini, ne uscì tutto sommato vincitore, divenendo la massima autorità in fatto di razzismo. Autore, per di più, di una formulazione delle teorie razziste fatta apposta per essere approvata dalla Chiesa. La commissione per l’epurazione che nel dopoguerra si occupò di Visco e di Pende argomentò che, avendo all’epoca protestato, non andassero considerati firmatari del Manifesto. Una lettura miope, di quella miopia che, come ha ben documentato Barbara Raggi, era così diffusa fra gli accademici italiani chiamati a giudicare i colleghi. Collusi quasi tutti col fascismo, assolti e reintegrati quasi tutti. Proprio alla sospensione e successiva reintegrazione di Pende nel suo ruolo di docente universitario e ai suoi tentativi di rientrare in politica nel dopoguerra è dedicato il terzo paragrafo del capitolo. Il quarto ed ultimo si rivolge al Pende post-fascista, cioè alle sue pubblicazioni dal 1943 in poi, dove alla fede fascista, sostituì la fede cattolica. Dimenticatasi opportunamente la cieca obbedienza al Duce Pende professava ora

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libertà, giustizia sociale, uguaglianza (a patto beninteso che in democrazia potessero esserci cittadini più agiati e meno agiati).

Cominciando da L’uomo alla luce del Vangelo uscito con grande

tempismo proprio nel 1943, l’anno della caduta di Mussolini, si distinguono in questa produzione di Pende due filoni: da un lato continuò a riproporre, con opportune correzioni, sia la biotipologia sia il libretto biotipologico, dall’altro si cimentò in avventurose prove di esegesi biblica in chiave biotipologica. La biotipologia e il libretto si sarebbero rivelati utili anche in seminario per verificare le vocazioni. Disponendo d’una diagnosi adeguata del peccatore un sacerdote avrebbe potuto meglio valutare l’entità relativa delle sue colpe. E così via, fino ad arrivare, con effetti di involontario umorismo, a sospettare “genidi” di Satana nell’utero di Eva, responsabili della nascita di Caino, il primo criminale.

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1 L’ambiente culturale

1.1 Nicola Pende: note biografiche

Nicola Pende nacque il 21 aprile del 1880 a Noicattaro, un comune di circa 25.000 abitanti in provincia di Bari, da una famiglia numerosa e benestante: il padre, Angelo, era commerciante e industriale agricolo mentre la madre, Marianna Carpuzzi, proveniva da una famiglia che aveva esercitato la professione medica per diverse generazioni. Ben presto però l’attività del padre cadde in rovina e Nicola, fratello primogenito di cinque sorelle, nonostante la mancanza di denaro riuscì a terminare gli studi superiori al liceo-ginnasio Cirillo di Bari e ad iscriversi alla facoltà di medicina dell’università di Roma. Qui ottenne una cospicua borsa di studio che gli permise di proseguire i suoi studi sotto la guida di prestigiosi professori come Amico Bignami e Giacinto Viola e nel 1903, a soli 23 anni, si laureò con una tesi sperimentale dal titolo Alterazioni della ghiandola surrenale dopo la

resezione del nervo splancnico.1 All’interno del lavoro venivano

indagati i rapporti tra ghiandole endocrine e sistema nervoso e su questo tipo di problematiche Pende intraprese una serie di ricerche successive.

Nel 1907 divenne docente applicato all’Istituto di Patologia medica del Policlinico Romano e due anni dopo assistente di Giacinto Viola presso l’Istituto di Patologia medica di Palermo dove scrisse il suo primo lavoro intitolato Sistema endocrino e sistema nervoso

1

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simpatico2. Nel 1912 al XXII Congresso della SIMI (Società Italiana di

Medicina Interna) tenuto a Roma e al quale parteciparono personaggi di spicco nel panorama medico italiano, come Achille De Giovanni e Augusto Murri, Pende ebbe modo di farsi conoscere con una relazione scritta assieme al collega Ghendini3. Durante gli anni della

Prima Guerra Mondiale, fu attivo in molti ospedali militari a Roma, a Padova, e a Palermo con importanti pubblicazioni scientifiche. Nel 1915 uscì infatti, in collaborazione con Pietro Castellino una Patologia

del simpatico4, e l’anno successivo un Trattato di endocrinologia5

quando la disciplina era ancora agli albori.

Infatti, sebbene nel 1855 Claude Bernard avesse formulato il concetto di “secrezione interna”, definendolo in termini esclusivamente nervosi, si dovette aspettare alcuni anni perché Charles Brown-Sequard nel 1891 individuasse una correlazione funzionale tra gli organi per mezzo dei prodotti di secrezione interna. Grazie a questa scoperta, dal 1900 al 1925 l’endocrinologia fece notevoli passi avanti, e mentre nel 1901 il chimico Jokichi Takamine isolava per la prima volta l’adrenalina dalla midollare surrenale, senza tuttavia comprenderne chiaramente la funzione, l’anno successivo i fisiologi inglesi William Maddock Bayliss e Ernest Henry Starling scoprivano l’esistenza della secretina individuandone la funzione di principio attivo della mucosa duodenale e produttore della secrezione pancreatica, dimostrando

2 Pende, 1909. 3 Pende, Ghendini, 1912. 4 Pende, Castellino, 1915. 5 Pende, 1916.

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così la correlazione funzionale degli organi annunciata dieci anni prima da Brown-Sequard. In questo modo i due scienziati inglesi gettarono le basi per una scienza che ancora non aveva un nome: secondo alcuni fu Pende nel corso del sopra menzionato Congresso della SIMI del 1912 a definirla “endocrinologia”.6

L’originalità dell’approccio di Pende all’endocrinologia derivava dall’individuazione di un legame tra sistema endocrino e sistema neurovegetativo. Constatata questa interazione, ritenne possibile curare l’ipertensione essenziale, condizione in cui la pressione del sangue nelle arterie risulta eccessiva. Osservando proprietà vasocostrittrici nell’ormone dell’adrenalina e individuando nelle capsule surrenali i centri di produzione di essa, Pende proponeva nei casi di ipertensione un’incisione del nervo splancnico governante la surrenale. Per questa metodologia di intervento, nota come “Operazione di Pende” , così come per aver individuato una patologia consistente in un’eccessiva attività funzionale della ghiandola del timo

e denominata “sindrome ipertimica di Pende”, venne candidato al

premio Nobel per la medicina senza tuttavia ottenere il riconoscimento.

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“Operazione di Pende”

Nel 1923, vincendo un concorso, divenne professore ordinario di Clinica e patologia medica all’Università di Cagliari e l’anno successivo fu nominato rettore della nascente Regia Università di Bari, “Università Adriatica Benito Mussolini”, per decisione dell’allora Ministro dell’Educazione Nazionale Giovanni Gentile che voleva fondare per prima la Facoltà di Medicina con annessa la Scuola di Farmacia. Nel 1925 succedette invece ad Edoardo Maragliano sulla cattedra di Clinica Medica di Genova e qui l’anno successivo fondò l’Istituto Biotipologico e ortogenetico, allo scopo di classificare i giovani per mezzo di “cartelle biotipologiche e ortogenetiche” e “allevarli” secondo i dettami dell’ortogenesi. L’Istituto avrebbe voluto

essere “centro di accertamento della crescenza normale fisica,

intellettuale, morale delle costituzioni, dei temperamenti fisiologici e morbosi e delle attitudini individuali” e contemporaneamente “organo

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di bonifica e di correzione di tutte le debolezze di costituzioni”7 . Questo istituto ebbe vasto successo tanto da venire imitato all’estero:

Nel suo bestseller dell' eugenetica mondiale, intitolato Man,

the Unknown (New York, 1935), il premio Nobel Alexis Carrel

- futuro direttore, nella Francia di Vichy, della Fondation Francaise pour l' Etude des Problèmes Humains - propone all' America di ispirarsi, per la «ricostruzione dell' uomo», al «grande progresso» realizzato da Pende con il suo Istituto. E in Argentina, nel 1933, le scuole di Buenos Aires adottano la ficha ortogenética escolar, mentre due anni dopo, Arturo Rossi, allievo di Pende, diviene direttore del locale Instituto de Biotipologia.8

Nel 1935, quando Pende ottenne da Mussolini il trasferimento all’Università di Roma, la sede del suo istituto venne spostata nella capitale. Le finalità di controllo e schedatura che Pende proponeva con la fondazione dell’istituto vennero a delinearsi nel 1933 in

Bonifica umana razionale e biologia politica9. Nel testo Pende

illustrava una teoria organicistica dello stato che definiva l’individuo alla stregua di una “cellula produttiva ingranata armonicamente e consensualmente nel complesso cellulare unitario dello stato mussoliniano”.10

Convinto della necessaria complicità di medicina e politica, fu un attivo sostenitore nonché protagonista del fascismo tanto che nel 1933 fu nominato Senatore del Regno. In tale veste fu membro della

7 L’Opera, 1928, p. 456. 8 Cassata, 2006. 9 Pende, 1933. 10 Ibid., p. 283.

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commissione per il Giudizio dell’Alta Corte di Giustizia dal 1935 al 1939 e successivamente, dal 1939 al 1945, membro della Commissione dell’educazione nazionale e della cultura popolare. Nel 1937 inoltre divenne membro del Consiglio Superiore di Sanità e del Consiglio nazionale delle ricerche, il CNR, che proprio quell’anno si stava riorganizzando e qui ebbe la responsabilità della sezione di eugenetica del settore biomedico.

Il nome di Pende compare inoltre tra i firmatari del Manifesto della Razza del 1938 (fatto che gli verrà contestato, nel dopoguerra, dalla Commissione per l’epurazione). Sappiamo, grazie a recenti ricostruzioni storiche, che l’endocrinologo, chiamato a sottoscriverlo, si oppose al contenuto del testo in quanto troppo lontano dal suo modo di concepire la questione razziale. Da ciò derivò uno scontro con Guido Landra, il redattore del testo, e coi fautori del razzismo biologico filogermanico che sembrò potesse condurre ad una emarginazione di Pende dalla scena politica. La vicenda si concluse con l’appoggio di Mussolini a Pende e al suo razzismo romano– italico, anche se non vi furono né abiure né disconoscimenti riguardo al Manifesto.

I legami tra Pende e Mussolini da questo momento divennero sempre più stretti tanto che venne approvato il suo progetto di costituire a Roma un istituto di ortogenesi e bonifica della stirpe e di allestire una

mostra dell’ortogenesi fascista della stirpe romano-italica da

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all’interno della “Città della scienza”.11

Nel 1941 venne nominato direttamente dal Duce rettore dell’Accademia della gioventù italiana del littorio e in tale veste propose una riforma dell’ente al fine di aumentare la durata del corso di studio da tre a quattro anni così da renderlo simile alla frequentazione di un corso universitario.

Nel 1943 con il crollo del governo fascista gli venne chiesto di aderirere alla Repubblica Sociale Italiana dal governo fascista repubblicano ma Pende, probabilmente intimorito dalla piega che gli eventi stavano prendendo, non accettò e assieme a suo figlio Vito si rifugiò in Vaticano. Nel giugno del 1944 per decisione del capo dell’Amgot Charles Poletti venne sospeso dall’insegnamento. Sottoposto a processo di epurazione, fu inizialmente condannato ad una sospensione di sei mesi senza stipendio. Successivamente, il 16 novembre, venne deposto dalla carica di Senatore. Dopo svariati ricorsi, nel giugno del 1947 venne riammesso all’insegnamento. A suo favore giocarono una lettera che Giuseppe Nathan, commissario dell’Unione delle comunità ebraiche, inviò al presidente del consiglio De Gasperi, e le testimonianze di 23 ebrei che dichiararono di essere stati ospitati da Pende all’interno del Policlinico Umberto I il 16 ottobre del 1943 durante il rastrellamento nazista. Nel 1948 Pende inviò una lettera al direttore della rivista “Israel”, Carlo Alberto Viterbo, in cui

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Il progetto di edificazione dell’ E42, voluto da Mussolini per ricordare i venti anni dalla Marcia su Roma aveva come scopo quello di costituire il nuovo centro di Roma ed ospitare le “olimpiadi della civiltà” del 1942. Tuttavia, i lavori iniziati nel 1939 furono interrotti dopo soli tre anni a causa dello scoppio della seconda Guerra Mondiale. Tra i tre disegni architettonici che furono presentati venne scelto, per volontà Di Pende, quello di una cittadella esagonale circondata da quattro bastioni a simboleggiare i quattro pilastri della nazione che negli scritti dell’endocrinologo venivano incarnati da fanciullo, donna, lavoratore e razza.

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sosteneva la propria innocenza rispetto alla politica razzista fascista, portando a difesa articoli e lettere scritti nel 1938 contrari all’impostazione del Manifesto. Questa lettera insieme alla risposta dettagliata e inesorabile di Carlo Alberto Viterbo venne pubblicata nel

1949 su “Israel” con il titolo Processo a Pende12

. Durante il

dopoguerra, trovando un valido appoggio nell’ambiente cattolico e tra i Gesuiti, continuò a pubblicare articoli e libri in cui tentava di far coesistere scienza e religione e mantenne la cattedra di Patologia Medica e Clinica dell’Università di Roma fino al raggiungimento dei limiti di età nel 1955. Il suo interesse per la medicina non calò dopo il pensionamento e nel 1957 partecipò al primo Congresso Nazionale di Medicina Omeopatica in occasione del quale tenne un intervento intitolato Biotipologia e omeopatia. Nel 1961 ricevette la Medaglia d’oro della Sanità pubblica dal terzo governo Fanfani. Anche dopo la morte, avvenuta l’8 giugno del 1970 a Roma, gli sono stati tributati onori. L’allora ministro della pubblica istruzione Misasi lo salutava come uno dei “più generosi maestri”13. Nel 1973 a Noicattaro gli venne intitolata una scuola media e ci sono vie che portano il suo nome a Bari e a Formigine, in provincia di Modena14. Nel 1996 Antonio Negro, suo fedele assistente, fondò un Centro studi biotipologici di ortogenetica “Nicola Pende” e nel 1998 venne istituito dalla Società Italiana di Endocrinologia un premio medico-scientifico

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Processo a Pende, 1949. 13 Mottola, 2010, p. 141. 14

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“Pende” per la ricerca. Il 25 febbraio 2012 la scuola media “Nicola Pende” di Noicattaro ha ospitato un congresso che “ha tenuto molto a rimarcare come la figura di Nicola Pende debba essere riscoperta e valorizzata per quanto attiene alla rilevanza scientifica e medica”15

. Tuttora il sito web dell’Università di Bari ospita un estratto del volume

Scienziati di Puglia: secoli V a.C. -XXI d.C.16 nel quale sono riportate

notizie riguardanti i suoi meriti scientifici e la sua carriera politica17.

15 http://www.noicattaroweb.it/attualita/2369-convegno-su-pende.html 16 De Ceglia, 2007. 17 www.ssscienza.uniba.it/scienziatidipuglia/Libro/Pende_Nicola.pdf

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1.2 Eugenica e razzismo in Italia prima e durante il

fascismo

Il termine eugenica venne coniato da Francis Galton nel 1883 per indicare una nuova scienza che ispirandosi al concetto di selezione naturale darwiniana si sarebbe dovuta occupare del miglioramento della specie umana. Per Galton si trattava soprattutto di favorire l’accoppiamento degli individui più dotati senza la necessità di eliminare gli altri. L’immediato successo di questa prospettiva vide la proliferazione, già a partire da fine Ottocento, in Inghilterra e in altri paesi europei, di associazioni eugeniche che si prefiggevano l’attuazione di concreti interventi sulla popolazione.18

Ben presto, date le conseguenze sociali e politiche che l’eugenica comportava, ne venne investito il terreno antropologico-razziale. A partire dalle leggi ereditarie mendeliane secondo cui alcuni individui erano portatori di qualità preferibili rispetto ad altre e trasmissibili nelle generazioni successive, alcuni eugenisti finirono per ritenere che caratteristiche di questo tipo fossero specifiche e determinanti per interi gruppi sociali. In questo senso si arrivò a parlare di razze pure caratterizzate da qualità genetiche superiori, da distinguere all’interno di una stessa popolazione. Al fine di preservare l’integrità di tali razze gli eugenisti

18 La fortuna di questa disciplina crebbe nel corso della prima metà del Novecento in Europa e all’estero, tanto che nel 1924 si contavano ben quindici paesi in cui erano presenti società eugeniche tra cui anche Argentina, Cuba e Stati Uniti.

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auspicarono l’accoppiamento degli individui portatori di qualità razziali superiori e allo stesso tempo l’eliminazione degli altri.

In paesi come la Germania, la Svezia, la Norvegia, la Svizzera, gli Stati Uniti, e la Danimarca, vennero introdotte misure coercitive tese a impedire la riproduzione dei soggetti più deboli, ritenuti un pericolo per il benessere collettivo della razza. Sarebbe fuorviante, un

approccio unitario che caratterizzasse l’eugenica in modo omogeneo

senza tener conto delle varianti assunte a seconda del tempo e del luogo in cui si manifestò. A tale proposito è preferibile definirla come “arcipelago multiforme”,19

secondo le parole di Francesco Cassata, caratterizzata cioè, “dalla compresenza di una molteplicità di national

styles”20.

Fino agli anni Settanta la storiografia tendeva infatti a vedere nell’eugenica un fenomeno unilateralmente basato su programmi che, come quelli tedesco-scandinavo o anglo-americano, attuavano pratiche come la sterilizzazione e il divieto matrimoniale allo scopo di liberare la nazione dal peso di individui considerati deboli e improduttivi se non addirittura dannosi. Nell’ambito delle ricerche più recenti è stato evidenziato che, oltre a questo tipo di eugenica, definita “qualitativa”, “negativa”, “attiva”, ce ne è stato anche un altro che, pur condividendo lo stesso fine di migliorare e irrobustire la popolazione, evitava comunque la riduzione delle nascite, preferendo

19 Cassata, 2006, p. 11. 20

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un approccio pronatalista al problema e acquisendo un carattere che è stato definito “quantitativo”, “passivo”, “positivo”. A tale proposito è possibile individuare un’eugenica nordica contrapposta ad un’altra latina presente in paesi cattolici come l’Italia, la Francia, il Belgio e diversi Stati dell’America centro-meridionale.21

Concentrandoci su ciò che riguarda la storia dell’eugenica in Italia e i legami che si stabilirono con il razzismo, nonostante alcune caratteristiche specifiche come l’opposizione da parte della maggioranza dei medici all’eugenica qualitativa e alle teorie ereditarie mendeliane, è tuttavia difficile tracciare un disegno unitario in grado di riassumere le posizioni dei singoli scienziati italiani in modo univoco. Per usare le parole di Claudio Pogliano, si dovette aspettare il 1912 perché la “miccia” potesse dare fuoco “in Italia a polveri fino ad allora inesplose”22

, anno in cui ebbe luogo, a Londra, il primo Congresso Internazionale di Eugenica al quale parteciparono molti personaggi di spicco nel panorama scientifico italiano23. L’anno successivo, la Società Romana di Antropologia istituì, per volontà di Giuseppe Sergi, fondatore e direttore della stessa, il Comitato Italiano per gli Studi di Eugenica allo scopo di collegarsi con il movimento eugenetico internazionale. Fino ad allora, in Italia di eugenica o eugenetica si era parlato pochissimo confondendola spesso con la genetica fondata da William Bateson nel 1906, della quale pochissimi

21 Ibid.

22 Pogliano, 1999, p. 428. 23

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erano in grado di comprendere con sicurezza le leggi. Certo, nella seconda metà dell’Ottocento concetti come quelli di degenerazione e rigenerazione propri ad esempio delle teorie lombrosiane, così come le tematiche dell’educazione igienica e sessuale, provenienti dall’ambiente della scuola antropologica fiorentina di Mantegazza, erano ampiamente circolate in Italia ma ancora lontane dalle realizzazioni socio-politiche che si prefiggeva l’eugenica.

Una ricostruzione dell’eugenica in Italia, il cui scopo sia quello di evidenziare le divergenze e le affinità tra i diversi scienziati così come i cambiamenti di paradigma cui andò incontro, non può non tenere conto degli eventi storico-politici in cui è inscritta. In questo senso si può parlare di un periodo precedente il Congresso di Londra, di un altro negli anni immediatamente successivi, di un altro ancora coincidente con guerra, per poi concludere con la svolta definitiva a cui si assistette con l’avvento del regime fascista.

Già sul finire del XIX secolo Giuseppe Sergi, quando non aveva ancora fondato la sua Società di Antropologia, in un saggio dal titolo

Le degenerazioni umane24 denunciava il pericolo che individui deboli

potessero contaminare la popolazione provocandone un

deterioramento. Centrali all’interno della sua teoria erano concetti come degenerazione e regresso, dai quali Sergi faceva derivare un conseguente adattamento inferiore per gli individui devianti. Accanto ai “normali” l’antropologo individuava infatti una serie di individui

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inferiori classificandoli in categorie di maggiore e minore gravità, le cui caratteristiche in virtù delle leggi di eredità biologica avrebbero continuato a sopravvivere nelle generazioni future.

Per questo, come sottolinea Pogliano, diversa era la sorte che la società avrebbe dovuto preservare ai sani e ai devianti:

Se ai normali, cui fosse accaduto di subire una disgrazia o un infortunio, era lecito e giusto prestare soccorso, per contro i degenerati non meritavano alcun riguardo, e non già perché li si dovesse punire (incerta sembrando la loro imputabilità), ma solo per scoraggiare l’adattamento inferiore che avrebbe loro concesso vita e prole.25

Se dunque era necessario intervenire sui fattori ambientali onde evitare deviazioni nello sviluppo di individui sani, si sarebbe dovuto escludere e relegare su isole di lavoro certe categorie di individui considerati irrecuperabili, rappresentando essi una minaccia per il benessere della nazione. A chi con spirito caritatevole e altruistico si proponeva di proteggere e aiutare i cosiddetti degenerati, Sergi proponeva infatti una “selezione artificiale” come completamento di quella naturale, allo scopo di impedirne la riproduzione ed eliminare allo stesso tempo gli individui dannosi attraverso deportazioni di massa:

Non si devono alimentare e proteggere i parassiti sociali, e nel proteggerli, aumentarli per l’incoraggiamento all’adattamento inferiore, e colla discendenza. Questa classe è come alcune specie d’animali inferiori, degradata, e

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23

adattata a condizioni inferiori, e non possiede il senso di piacere e di dolore come i normali.26

Tale concezione, per certi versi vicina a quella della successiva eugenica anglo-americana e tedesco-scandinava, fu respinta a causa della drasticità dei rimedi che proponeva da chi, come Paolo Mantegazza ed Enrico Morselli, vedeva nei metodi educativi una potente risorsa per risolvere il problema degli individui inadatti. Il primo, fondatore della Società italiana di antropologia ed etnologia a Firenze, rivale di quella romana diretta da Sergi, commentando le idee presenti nell’opera del 1889 ne parafrasava il titolo definendolo “degenerazioni del concetto evolutivo di Darwin”. Enrico Morselli, sostenitore di un’eugenica fondata su una gerarchia fra le razze rilevabile in base a tratti oltre che antropologici e fisiologici anche psicologici27 e fiducioso nella possibilità di educare in parte i frenastenici attraverso la psichiatria, criticava il pensiero di Sergi perché considerando ineducabili gli anormali veniva implicitamente a

dichiarare inutile anche il ruolo della psichiatria. Sul finire

dell'Ottocento e l'inizio del Novecento quindi, mentre in paesi come gli Stati Uniti o la Germania erano state adottate a fini eugenici misure drastiche come la sterilizzazione e il divieto matrimoniale, in Italia prevaleva un'idea di eugenica più moderata, tesa all'educazione e

26

Sergi, 1889, p. 204.

27 Ricostruendo la storia evolutiva delle razze umane, Morselli distingueva tra razze protomorfe, inferiori e destinate a scomparire, e razze arcimorfe, negri bianchi e gialli. Dalla lotta tra loro le prime sarebbero scomparse e tra quelle arcimorfe si sarebbero affermate quelle leucodermiche. L’uomo dell’avvenire, all’interno della sua dottrina utopica eugenetica, sarebbe stato il “metanthropos”. Ogni razza era comunque destinata dalla natura ad affermarsi o decadere e dunque l’eugenica non avrebbe dovuto far altro che assecondarne la linea evolutiva.

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24

alla riabilitazione degli inadatti. Anche proposte come quella di Sergi, che prospettava la creazione di apposite isole di lavoro dove confinare gli anormali, emarginandoli dalla società, non ebbero seguito. In questo senso personaggi come l’alienista e criminologo Angelo Zuccarelli, che vedeva nella medicina sociale americana un modello da seguire, sono da considerare voci isolate.

Dopo lo scoppio della Prima guerra mondiale l’eugenica acquisì molta più rilevanza. Con le sue innovazioni tecniche e la sua durata, la guerra rappresentava, agli occhi dei medici, una minaccia per il benessere collettivo della popolazione. Il timore derivava dal fatto che la gigantesca forza distruttrice delle nuove armi da fuoco avrebbe potuto provocare un’antiselezione, per lo sterminio dei cittadini migliori e la sopravvivenza di quelli più deboli. Diveniva lecito chiedersi che cosa fare degli anormali durante la guerra e, al contrario di chi come Edmondo Trombetta, generale medico, spingeva per l’eliminazione dei tarati dall’esercito relegandoli in

“Compagnie speciali di deportazione colonie”,28

Enrico Morselli proponeva la loro utilizzazione nell’esercito per lavori di fatica come il trasporto di munizioni, lo scavo per le trincee, la costruzione di ripari ecc..

Il timore riguardava poi gli effetti disgenici che avrebbero continuato a perpetuarsi nelle generazioni successive, date le difficoltà economiche e psicologiche in cui i figli della guerra avrebbero visto la

28

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25

luce. Urgeva un intervento eugenico allo scopo di rafforzare la nazione stremata tanto dal punto di vista numerico che da quello qualitativo. Nell’immediato dopoguerra si assistette infatti alla nascita di istituti come l’IPAS (Istituto assistenza e previdenza sociale), la SISQS (Società Italiana per lo Studio delle Questioni Sessuali) e la SIGE (Società Italiana Genetica ed Eugenetica). In questo periodo è possibile individuare alcune tematiche, ossia controllo delle nascite, sterilizzazione, certificato prematrimoniale e igiene mentale, che caratterizzarono il dibattito eugenico in Italia, tra chi individuava la

causa di anomalie nell’ambiente esterno e chi invece insisteva sulla

preponderanza di fattori genetici. Ad Ettore Levi, fondatore e per alcuni anni presidente dell’Ipas, che pur dichiarandosi ambientalista e rifiutando pratiche costrittive proprie dell’eugenica anglosassone era a favore di una politica di controllo e limitazione delle nascite, si contrapponevano personaggi come il già citato Zuccarelli, ereditarista e a favore di pratiche di sterilizzazione. Contrari alle tesi di Levi erano anche Corrado Gini e Pietro Capasso che denunciavano i rischi di una politica di controllo delle nascite per il benessere della nazione. Anche sulla proposta di una legge che obbligasse i cittadini a visite mediche per ottenere un certificato prematrimoniale, tra i medici si riscontrarono divisioni. Elaborata nel 1919 dal sifilografo Ferdinando De Napoli, e formulata sotto forma di legge l’anno successivo dalla Società Italiana di Dermatologia e Sifilografia, la proposta legislativa

(26)

26

sulla profilassi matrimoniale non ebbe seguito.29 Vincenzo

Montesano metteva in dubbio l’efficacia del certificato a causa delle problematiche di carattere burocratico-organizzativo, che ad occuparsene fosse stato un medico privato o una commissione statale:

Non mi chiedo neppure se questo certificato dovrà essere rilasciato da una commissione statale o da un qualsiasi medico sotto la propria responsabilità: nel primo caso, come di regola, avremo un organismo burocratico di più, ingombrante e pesante, che complicherà le cose anziché facilitarle; nel secondo possiamo fin da ora giurare che pulluleranno i pseudo-specialisti pronti ad offrire, mediante adeguato compenso tutti i certificati che vogliono.30

A tale scopo era dunque preferibile a suo avviso sensibilizzare i cittadini attraverso programmi di propaganda evitando di imporre leggi che comunque sarebbero state facilmente aggirate. Già nel 1923 durante un incontro a Palazzo Chigi, la linea contraria all’attuazione del certificato prematrimoniale venne a delinearsi anche nelle parole con cui Mussolini, consapevole “delle necessità di difendere il matrimonio dalle insidie di gravi malattie sociali”, esprimeva il suo appoggio ad un’eugenica popolazionista affermando la convinzione che “noi abbiamo bisogno intensamente di prolificare”.31 29 Mantovani, 2004. 30 Montesano, 1922, p. 359. 31 Notizie, 1923, p. 438.

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27

Oltre a De Napoli erano in molti a schierarsi a difesa dell’introduzione del certificato. Pietro Capasso sosteneva che l’istituzione di una legge

sul certificato avrebbe comportato come conseguenza la

sensibilizzazione dei cittadini in quanto:

Gli ignoranti, all’applicazione della nuova legge, chiederanno, naturalmente, ragione del certificato. Sarà quella l’ora di una buona propaganda tempestiva da parte del medico specialmente.32

Al fine di proteggere la razza da degenerazioni diveniva dunque a suo avviso necessario intervenire attraverso l’imposizione del

certificato prematrimoniale.Se comunque la maggior parte dei medici

si dichiarava a favore di forme di visita in pochi avrebbero voluto che il certificato così come le visite divenissero obbligatorie, confidando nella responsabilità etico-civile dei cittadini senza privarli della libertà di scelta in materia sessuale.

Certo, c’era anche chi, come il patologo Umberto Gabbi, nel 1927 evidenziava l’assurdità di difendere la libertà individuale all’interno di uno stato, che come quello fascista, “concepito fascisticamente come forza e realtà etica non può lentamente procedere né essere privato del suo dominio sull’individuo e sulla collettività”33

ma in un paese cattolico come l’Italia sarebbe stato molto difficile riuscire ad imporre un decreto che limitasse la sfera del libero arbitrio. A tale proposito si era espresso negativamente anche Nicola Pende il quale, nel corso

32 Capasso, 1923, p. 188. 33

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28

di un articolo pubblicato su “Difesa sociale”, metteva in evidenza le difficoltà normative del certificato:

La funzione sessuale non può essere soffocata da una legge: e se nell’interesse della famiglia e dello Stato la procreazione da parte di individui tarati o malati è da evitarsi, non è possibile, né teoricamente né praticamente inibire a tali individui che, palesemente o nascostamente esercitino la loro funzione sessuale, la quale anzi come non di rado vediamo avvenire in certi malati […] si esalta, e sottratta ad ogni freno morale, spesso divampa in atti immorali o perfino delittuosi.34

Secondo Pende l’obbligo del certificato, oltre a non avere esiti positivi essendo facilmente aggirabile, avrebbe avuto come conseguenza una quantità di procedimenti penali a carico dei contravventori, con un ulteriore aggravio alle cancellerie dei tribunali. Era motivo di perplessità tra i medici la considerazione che sospendere il segreto professionale che legava medico e paziente avrebbe potuto avere conseguenze gravi, perché avrebbe indotto alcuni malati ad evitare le cure. Anche la formulazione di una diagnosi che dichiarasse un paziente inadatto alla riproduzione non era cosa da prendersi alla leggera. Anche se è singolare che a dirlo sia stato proprio Pende, che si dichiarerà in seguito fautore di una schedatura capillare dell’individuo da prima della nascita, molti medici avrebbero condiviso quanto scriveva nel 1927, che cioè nessuno di loro:

34

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29

vorrà illudersi di essere ispirato da Dio, oltreché così colto, da essere infallibile come un papa della medicina. E’ la medicina clinica che deve oggi dichiararsi onestamente incapace di dare un verdetto sicuro.35

Se dunque in Italia fino alla prima metà degli anni 20 il dibattito sull’obbligatorietà o meno del certificato prematrimoniale così come su birth control e sull’utilità di pratiche come sterilizzazione ed eutanasia era ancora aperto, a partire dal 26 maggio 1927 con il cosiddetto Discorso dell’ Ascensione di Mussolini, in cui veniva adottata un’ eugenica popolazionista, tutti coloro che si proclamavano a favore di politiche eugeniche qualitative furono messi a tacere. Gabbi, dopo aver affermato la necessità di “sgombrare subito il terreno da difficoltà che avevano radici profonde più nel sentimento che nella ragione epperciò niente certificati prematrimoniali, né consultori” dichiarava sciolto “il minuscolo plotone di idealisti” dei quali si sentiva “caporale”36

. Allo stesso modo il fisiologo Carlo Foà che in passato a proposito del controllo delle nascite si era espresso

affermando “che bisognerebbe avere il coraggio di giungere sino alle

estreme logiche conseguenze: cioè discutere non un provvedimento che impedisca il matrimonio (legale) ai tarati, ma un altro che imponga loro la sterilizzazione sessuale”37

, nel 1932 cambiava del tutto atteggiamento dichiarando che:

35 Ibid., pp. 8-9. 36 Gabbi, 1929, p. 288. 37 Foà, 1927, p. 151.

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30

il matrimonio italiano dev’essere dunque fecondo, e non s’ha troppo a badare se talvolta al numero possa per avventura non corrispondere la qualità.38

Alcuni come Capasso, non arrendendosi e stando però bene attento a non urtare il Duce, continuarono a difendere l’eugenica qualitativa e a riproporre il certificato medico prematrimoniale criticando moderatamente la politica demografica, ma ci fu anche chi, come Ettore Levi, non riusciva a sopportare il nuovo orientamento. Caduto in depressione nel 1926 e sostituito nell’incarico di presidente dell’IPAS da Augusto Carelli che continuava ad occuparsi di problemi eugenici con un approccio vicino ai valori della cristianità, si suicidò nel 1932.39

Da quando Mussolini pronunciò il Discorso dell’Ascensione,

comunque, l’eugenica quantitativa ebbe il sopravvento su quella

qualitativa e tra coloro che si convertirono e coloro che rinunciarono ai propri ideali prevalsero personaggi come Nicola Pende e Corrado Gini, sulle cui teorie costituzionaliste biotipologiche e demografico-statistiche venne basata la politica fascista in campo medico-sociale.

38 Foà, 1932, p. 192. 39

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31

2 Dal costituzionalismo di Achille De Giovanni alla

politica biotipologica di Nicola Pende

2.1 La scienza del costituzionalismo

Circa la biotipologia di Nicola Pende è necessario partire dagli antecedenti storici di questa disciplina all'interno del panorama medico che, dalla metà dell'Ottocento, portarono all'elaborazione di un nuovo approccio clinico alla malattia, il costituzionalismo. Nel corso di quel secolo, l'uso di nuovi accorgimenti nella costruzione dei microscopi e continue scoperte in campo chimico avevano portato alla nascita di due nuove importanti discipline, la biochimica, che convenzionalmente si fa risalire al 1861, anno in cui Pasteur vince il premio dell'Académie des Sciences, e la microbiologia per cui analogamente si indica come anno di inizio il 1884, quando Robert Koch stila i suoi Postulati. Malgrado gli studi di Francesco Redi e Lazzaro Spallanzani, la teoria aristotelica della generazione spontanea aveva continuato ad essere ritenuta valida almeno per i microrganismi. Pasteur riuscì a dimostrarne sperimentalmente l'inconsistenza. Formulò anche il principio di specificità a due livelli, per il quale ogni microrganismo è definito dalle specifiche reazioni cui può sottoporre materiali prelevati dall'ambiente e ogni malattia è specificamente determinata da un agente microbico; chiarì inoltre che le attività dei microrganismi sono descrivibili mediante equazioni

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chimiche. Quanto ai Postulati di Koch, si tratta dei criteri per stabilire scientificamente la correlazione di causa ed effetto tra un microrganismo e una malattia. Koch li aveva redatti due anni dopo aver isolato il bacillo responsabile della tubercolosi. Erano scoperte che aprivano alla ricerca medica scenari fino ad allora sconosciuti ed impensabili. Tanto impensabili che le reazioni del mondo accademico non sempre furono di entusiasmo e curiosità ma anche di incredulità e di irrisione. Un illustre anatomo-patologo dell’Università di Padova, Ludovico Brunetti, nel contestare altre possibili spiegazioni di alcune alterazioni, che riteneva prodotte da fenomeni tossici e da distrofie endogene e spesso costituzionali, riferiva con ironia le notizie che giungevano d’oltralpe sulle scoperte di Pasteur come se fossero fantasie parigine, invenzioni di un francese sedicente medico, visionario e forse impostore. Del resto, commentava il Brunetti, se quegli animaletti che il Pasteur raccontava di vedere al microscopio, che per essere così piccoli aveva chiamato “microbi”, fossero esistiti,

li avrebbero ben visti anche a Padova dove c’erano ben tre

microscopi, e sicuramente migliori di quello del chimico parigino.40 La scoperta di esseri viventi talmente piccoli da poterli vedere solo con un ottimo microscopio, unita a una accurata descrizione e dettagliate immagini di alcuni di essi risaliva in realtà alle osservazioni dell’olandese Antoni van Leeuwenhoek , che nel XVII secolo li aveva definiti “animalucoli”. Per molti studiosi tuttavia ( e van Leeuwenhoek

40

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33

non lo era, tutt’al più un tecnico ) si trattava di bizzarrie, curiosità legate allo strumento che le aveva mostrate, il microscopio, ma niente faceva pensare che potessero avere un rapporto con le malattie. La progressiva affermazione di un modello batteriologico dopo le scoperte di Pasteur, di Koch, di Ernst Klebs e Jacobs Henle fu però inarrestabile; anzi, la novità e l’importanza delle loro scoperte e la diffusione di questo tipo di indagini portarono a indirizzare la ricerca eziologica prevalentemente verso l’individuazione di agenti patogeni esterni.

Congiuntura rilevante fu che l’igiene come disciplina nascesse in Italia contemporaneamente all’emergere del «paradigma» microbiologico. Francia e Gran Bretagna, un po’ meno la Germania, avevano già allora una tradizione semisecolare di medicina «pubblica» e di organismi sanitari, la quale agì non di rado come impaccio, come resistenza alla metamorfosi concettuale. L’isolamento di precise responsabilità epidemiche ed endemiche nel regno dell’infinitamente piccolo trasformava l’approccio a diagnosi e nosologia, nonché i criteri esplicativi della malattia stessa. Dal sintomatico – la visibilità esterna dell’affezione – l’accento si spostava sull’eziologico – la ricerca di cause agenti.41

Diversi furono gli atteggiamenti assunti dagli studiosi dell’epoca di fronte alla scoperta di questi microscopici agenti patogeni. Da chi, come il Presidente della Società italiana d’igiene Alfonso Corradi, giustamente argomentava che comunque era nell’ambiente putrido

41

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34

che i germi trovavano alimento e che in una situazione di corretta igiene difficilmente i microbi avrebbero proliferato a chi, come l’igienista Arnaldo Cantani, vedeva nel “mondo dei minimi” un nuovo terreno d’indagine da esplorare, perché approfondendo la conoscenza dei batteri, la batteriologia avrebbe potuto diventare batterioterapia. Dalla prudenziale sospensione di giudizio assunta da Giorgio Roster, professore d’igiene all’Università di Firenze, alla dichiarazione di guerra lanciata da Luigi Pagliani, professore d’igiene all’Università di Torino, a quegli

Esseri di una piccolezza estrema, di una prolificità superiore ad ogni immaginazione, che appunto per queste loro essenziali proprietà attaccano più facilmente gli organismi superiori penetrando nel loro sangue, nei loro tessuti più intimi e delicati, dovunque annidandovisi e svolgendovisi per modo da lederne la funzionalità, e da indurre in essi processi di alterazioni spesso mortali.42

Alcuni ricercatori tuttavia, che presero il nome di costituzionalisti o neo-costituzionalisti, preferirono insistere sui possibili fattori

predisponenti all'instaurarsi della malattia. L’accenno alla

“costituzione” nelle argomentazioni riferite dal Brunetti a proposito di distrofie endogene e spesso costituzionali, potrebbe indurre a

pensare a una sua sostanziale vicinanza con l’indirizzo

costituzionalista e per converso che questo si riducesse a una sorta di arroccamento su posizioni antiquate. Al di là dell’ovvia opposizione

42

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35

che è propria d’una scelta di campo, in realtà i due indirizzi, quello batteriologico e quello costituzionalista, non si escludevano. L’idea di “costituzione” non era per i costituzionalisti un concetto vago, bensì solidamente acquisito, anzi il principale oggetto di studio sia per definirlo compiutamente sia per individuare un metodo di determinazione valido nella pratica medica.

Allo studio dei batteri patogeni iniziò così ad aggiungere l'osservazione dei caratteri fisici, morfologici e antropometrici dell'individuo. Si può dire che la malattia, in questo senso, sia la risultante dinamica di due campi di azione: quello dei fattori morbosi esterni, classificabili universalmente e quello dell'individuo fisico, particolare e costituito da molteplici variabili specifiche. Stando a Giacinto Viola, medico costituzionalista che diresse per un lungo periodo la sezione di medicina dell’Enciclopedia Italiana, già nel 1822 uno studioso francese, Rostand aveva dato una definizione di "costituzione" che offriva “la più perfetta larga e completa visione del problema.”.43Scriveva il Rostand:

Egli è raro che un equilibrio perfetto regni in tutti i sistemi della economia animale. Questa meravigliosa armonia non è forse mai esistita che nell'immaginazione degli antichi. Quasi sempre qualche sistema sembra dominare tutti gli altri... E allora è facile concepire che la predominanza di un apparecchio debba imprimere una modificazione importante alla nostra costituzione fisica e morale. Effettivamente i varî

43

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sistemi che abbiamo riconosciuto entrare nella composizione del corpo umano, e i liquidi che ne fanno parte, non si trovano sempre in un rapporto tale che ne risulti un equilibrio perfetto. Talvolta l'apparecchio gastro-intestinale predomina, e da questa predominanza risulta un tipo particolare di organizzazione: talora predominano gli apparecchi respiratorio e circolatorio, donde una nuova costituzione; talora invece gli apparecchi della locomozione, altre volte l'apparecchio della innervazione, spesso quello della generazione, ecc. E sono queste diverse predominanze che caratterizzano, secondo noi, le costituzioni organiche diverse, costituzioni altrettanto moltiplicate per quanti sono i nostri apparecchi, e che differiscono ancora secondo le loro combinazioni infinite: la qual cosa rende sufficientemente conto delle varietà senza numero dei temperamenti, che la natura presenta alla nostra osservazione. Questa maniera di considerare l'organismo mi sembra infinitamente più chiara e più precisa di tutte le altre.44

In quest'ottica è dalla costituzione individuale del soggetto, intesa come contenitore di predisposizioni e somma di tratti ereditati e acquisiti, che deriva la possibilità di sviluppo della malattia. Il fattore morboso esterno, il batterio, il microbo patogeno, non è più dunque la causa ma l'elemento che attiva la malattia. Esaminando l'insieme di caratteri morfologici dell'individuo che ha di fronte, il medico costituzionalista giunge a formulare un giudizio su quale sia la sua predisposizione per determinate malattie, ciò che prende il nome di diatesi.

Caposcuola del costituzionalismo in Italia fu Achille De Giovanni.

44 Ibid.

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37

Durante gli anni trascorsi all'università ebbe una formazione scientifica orientata verso il lamarckismo e il materialismo positivistico, mentre la passione risorgimentale lo portò nel 1852 ad arruolarsi nei Cacciatori delle Alpi, corpo di volontari agli ordini di Garibaldi, e nel 1866 a partecipare alla Terza guerra di indipendenza. Colpito dalla tubercolosi, fu costretto a rientrare a Pavia. Se a questo episodio si aggiunge la morte dell’ unico figlio, nel 1898 per la medesima causa, si comprende il suo impegno nella lotta contro la patologia. In veste di senatore infatti prese la parola una sola volta, nel 1909 e non a caso a proposito di un disegno di legge che riguardava l'insegnamento della ginnastica in cui vedeva un'arma efficace assieme all'igiene per combattere la tubercolosi. Nel 1898, inoltre, fondò la Lega Nazionale Italiana contro la tubercolosi allo scopo di sviluppare un'azione di profilassi con la collaborazione del governo.

Tornando alla formazione scientifica, De Giovanni ebbe modo di conoscere il materialismo positivista, grazie al suo maestro Bartolomeo Panizza, direttore dell'istituto pavese di Anatomia umana, il quale lo iniziò alla morfologia comparata. Per quanto riguarda l'apparato teorico del suo pensiero fu invece determinante la

Philosophie zoologique di Lamarck che nel 1809 aveva evidenziato la

preponderanza dell'ambiente nel processo di formazione degli organismi viventi e sostenuto come l'uso degli organi, dettato da necessità esterne, fosse alla base della loro costituzione e

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38

modificazione. Nel ventennio tra il 1860 e il 1880 De Giovanni ebbe modo di recarsi all'estero per perfezionare la sua preparazione scientifica grazie a un sussidio concessogli dal ministero dell'istruzione. Conobbe così l'ambiente medico tedesco dove era in

voga l'orientamento di tipo meccanicistico materialista.

Successivamente, quando già insegnava a Padova si recò a Parigi per qualche mese, nel 1880, dove osservò da vicino il modo di procedere di Jean Martin Charcot del quale ammirava l’approccio neuropatologico. E’ certo che, nel corso di questi soggiorni in Francia e in Germania, De Giovanni non poté non venire a conoscenza di personaggi come Pasteur o Koch e dunque di discipline come la

batteriologia o la microbiologia. Nel suo opporsi all’indirizzo

batteriologico, che si stava affermando, ciò che contestava non erano le discipline in sé quanto l'unilateralità dell'approccio medico alle patologie basato esclusivamente su un' eziologia degli agenti microbici o al contrario su un' individuazione della patologia a partire da un organo specifico. Per De Giovanni il bacillo di Koch è “rappresentante del tubercolo” ma non della tubercolosi in senso propriamente clinico, sono invece essenziali la costituzione e le “differenti attitudini del sistema nervoso”. In altre parole fisiologia e anatomia, avendo per oggetto di studio l'organismo umano, elemento complesso e variabile, non possono che procedere unitamente. Il fisiologo che nell'analisi di un fenomeno non tiene conto degli aspetti anatomici svolge a suo avviso un lavoro a metà, e allo stesso modo

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un approccio esclusivamente anatomico non può che risultare incompleto:

Quando il fisiologo si arresta a determinare un fenomeno o a registrarne le fasi, le modalità ecc., senza preoccuparsi delle modificazioni anatomiche, compie uno studio a metà; così, quando l'anatomico si accontenta di registrare le modificazioni di forme, di volume ecc., di una parte, senza interessarsi della corrispondente funzionalità, non percorre tutte le fasi del lavoro scientifico. Il medico poi il quale si avvicina allo studio di un fatto morboso colla mente conscia delle coincidenze puramente anatomiche che sono state riscontrate, o dominata dalla conoscenza delle teorie filosofiche sulle funzioni delle parti che esamina, andrà tentennando fra le une e le altre, finché l'empirismo non gli faccia intravedere la parte migliore delle une e delle altre, quando non lo consigli a diffidare di queste e quelle.45

In quest’ottica l’essenza della malattia (“ens morbi”) non coincide esclusivamente con la sua causa (“causa morbi”) come voleva l’approccio microbiologico, ma essa diventa l’effetto di una relazione dinamica tra l’azione di un fattore esterno e un terreno biologico di predisposizioni individuali. Diventa dunque necessario riconoscere nell'organismo affetto da processi morbosi, la sua particolarità e individualità, liberandosi dal preconcetto che l'individuo, appartenente alla specie, possieda sempre caratteristiche uguali e uguali capacità di reagire.

Tale impostazione si basa sull’osservazione che a partire da uno stesso fattore esterno, da microbi patogeni dello stesso tipo, la

45

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malattia si sviluppa in modo diverso a seconda dei vari organismi che ne vengono colpiti. Uomo e batterio non sono che due aspetti diversi e importanti allo stesso modo per determinare lo stato morboso di un determinato individuo. Lo studio della malattia deve dunque prendere le mosse dall’osservazione dell’individualità dei sintomi, che a partire

da uno stessa fonte morbosa variano a seconda dell’individuo in cui

si manifestano. La capacità dei diversi organismi di rispondere a stimoli esterni si trova così a essere determinata da condizioni specifiche che dipendono dalle diverse interazioni tra organi e funzioni, all'interno di costituzioni specifiche. Ecco così spiegati i presupposti teorici della disciplina che De Giovanni vuole sviluppare: se da una parte è necessaria la coesistenza della fisiologia e dell'anatomia, dall'altra non si può prescindere dalla particolarità del soggetto che ci sta di fronte. Compito del medico non è dunque curare la malattia ma l’individuo malato inteso come caso singolo e particolare: “Non malattie ma individui malati si devono trattare”.46 Nella ricostruzione eziologica della malattia entrano così in gioco tutta una serie di fattori particolari il cui rilevamento diventa presupposto per la diagnosi. Fattori ambientali come l’alimentazione o il clima e fattori socio-economici o psicosociali, possedendo un carattere sempre variabile e mai fisso da caso a caso, richiedono particolare attenzione da parte del medico. Lo studio morfologico e anatomo-funzionale dell’individuo si trova così a essere preceduto da un lavoro

46

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che può essere definito biografico, teso cioè a far emergere un profilo il quanto più possibile dettagliato dello stile di vita condotto dal paziente. Per comprendere le basi teoriche del pensiero di De Giovanni è utile rifarsi alla descrizione che ne dà Giorgio Cosmacini:

Materialismo biologico come sfondo concettuale della clinica, scientificità di questa e sua diretta portata filosofica (al pari di ogni scienza), unificazione metodologica della medicina osservativa con la medicina sperimentale, elaborazione dottrinale di una scienza della costituzione e della predisposizione densa di implicazioni teoriche (concezione unitaria dei processi naturali) non meno che pratiche (indicazioni di terapia preventiva e di igiene sanitaria), premonizione contro il pericolo che le specializzazioni mediche degenerino in specialismi e comportino la perdita di una visione totalizzante dell’uomo (e del mondo).47

Centrale resta comunque l’aspetto morfologico dell’individuo. In linea con il pensiero positivista italiano, De Giovanni è guidato dalla convinzione che le funzioni degli organi, nel loro svolgersi, determinino l’assetto anatomico degli stessi. In questo senso il quadro morfologico risulta rilevatore di quello fisiologico: “Forma e funzione sono intimamente connesse, come forza è connessa a materia”.48

Ma quali i dati da raccogliere e quale il metodo da adottare per individuare tali caratteristiche costituzionali? il criterio alla base del neocostituzionalismo di De Giovanni era essenzialmente morfologico

47 Cosmacini, 1984, p. 1260. 48

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e basato su misurazioni delle varie parti del corpo in rapporto all'altezza. L'anamnesi del malato doveva dunque partire da una raccolta di dati quantitativi da correlare tra loro per poi confrontarli con categorie di soggetti generali. Ecco che divenivano di estremo interesse l'altezza personale, la circonferenza del torace, l'altezza del ventre e quella sternale.

Sulla base di questo complesso di dati De Giovanni arrivò dunque a elaborare un tipo morfologico ideale in cui la possibilità di contrarre malattie sarebbe ridotta al minimo e a descrivere poi tre tipi di diverse combinazioni morfologiche dove poter osservare le predisposizioni a determinati tipi di patologie. La costituzione ideale sarebbe dunque quella in cui statura e apertura delle braccia sono identiche, la circonferenza del torace è uguale alla metà dell'altezza personale, l'altezza dell’addome è uguale ad un quinto della circonferenza del torace e alla metà di quella del ventre, il diametro bisiliaco a quattro quinti dell'altezza addominale.

Tale tipo ideale, secondo De Giovanni restava comunque qualcosa di astratto, non esistente nella realtà a differenza di quelle che erano invece le 3 combinazioni morfologiche devianti da esso. Un primo tipo longilineo predisposto a contrarre malattie dell'apparato respiratorio e digerente; un secondo, muscoloso, più incline ad ammalarsi a livello dell'apparato cardio-circolatorio e a contrarre malattie reumatiche; e un ultimo in cui si mescolano le combinazioni morfologiche dei due tipi precedenti venendo però a formare un tipo prevalentemente

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brevilineo e tendente all'obesità, predisposto a malattie cardio-respiratorie e dell'apparato digerente a causa dell'eccessivo sviluppo dell'addome. De Giovanni fu quindi il primo in Italia a proporre una definizione di diversi tipi costituzionali, dando così vita ad un nuovo orientamento medico, il neocostituzionalismo.

Coerentemente rispetto alla sua impostazione positivista e all’intuizione di partenza, che all’individuo si dovesse guardare, il suo metodo prevedeva un approccio rigorosamente matematico ma di volta in volta commisurato al singolo individuo. Non si tratta per De Giovanni di inserire il paziente in una casella predeterminata di un sistema, ma di indagarne ex novo di volta in volta le potenzialità facendo riferimento a dei modelli di struttura fondamentalmente astratti, che indicano correlazioni ma non concrete misure di riferimento. Introdurre nelle sue configurazioni dei precisi riferimenti metrici, delle misure standard, avrebbe ridotto e snaturato il carattere di indagine sull’individuo e avrebbe cambiato il carattere del suo metodo, facendone magari il fondamento di una ricerca statistica. Sarà proprio quello che farà il suo allievo e biografo Giacinto Viola (1870-1943). Che così spiega le ragioni del cambiamento da lui introdotto :

Il De Giovanni si trovò dinnanzi a tutte le difficoltà e al peso d’una profonda rivoluzione del pensiero medico, che dai valori medi, fino allora contemplati, si volgeva alle varianti individuali.(…) Per mettere ordine e numero al caos iniziale dell’immensa materia raccolta, il De Giovanni molto operò

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