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Reddito, beni destinati al vitto e in genere al mantenimento, nell’espressione di diritto

48 L'avvocato nel medioevo

4. Reddito, beni destinati al vitto e in genere al mantenimento, nell’espressione di diritto

ecclesiastico m. vescovile, complesso dei redditi un tempo destinati al mantenimento degli ordinarî diocesani e delle curie rispettive.

SIUSA – Sistema informativo Unificato per le Sospaintendenze Archivistiche

La mensa del vescovo è il patrimonio (mobiliare e immobiliare) che egli ha a disposizione per il mantenimento della propria persona e di coloro che sono al suo servizio. Una frazione delle rendite ecclesiastiche destinata a tale scopo (portio episcopi) è citata già in un decreto di papa Gelasio (494). Il termine entrò però in uso soprattutto dal momento in cui il patrimonio della Chiesa

cattedrale fu diviso tra due mense, quella capitolare e quella vescovile, ognuna con gestione propria (in un momento non sempre esattamente determinabile, ma che generalmente si colloca tra XI e XII secolo).

Al vescovo potevano appartenere anche poteri temporali (di giurisdizione) che però, almeno in area italiana, furono generalmente erosi già nella prima in età comunale: a partire dal tardo medioevo questi rimasero quasi sempre pure petizioni di principio. La mensa vescovile si compose allora

soprattutto di diritti di natura economica (beni fondiari), che furono analogamente oggetto di assalti ed erosioni, ma rimasero a lungo particolarmente consistenti (riepiloghi, inventari, ricognizioni, atti processuali affollano gli archivi, dando conto della consistenza del patrimonio e delle modalità di gestione e di difesa). Le rendite della mensa erano molto ambite, per quanto fossero gravate anche da pesanti oneri da parte della curia papale e anche degli Stati regionali e nazionali (spesso con la motivazione della crociata o della guerra contro i turchi).

“Enciclopedia Cattolica” (scritta in inglese e tradotta dal sottoscritto):

La parola latina “mensa” ha come significato primitivo "una tavola per pasti"; designa la distribuzione delle spese, o meglio, le risorse necessarie per il sostentamento, e generalmente, tutte le risorse destinate all’aiuto personale. Colui che vive a carico di un altro, e la sua tavola, viene definito suo "commensale". In lingua ecclesiastica, la mensa è quella porzione della proprietà di una chiesa che è appropriatamente usata a sostegno delle spese del prelato o della comunità che serve la chiesa, ed è amministrata sotto la volontà di quello o dell'altro. Così, in una cattedrale appartiene al vescovo ed al capitolo, la mensa del vescovo è distinta da quello del capitolo, la prima consiste nelle proprietà e nei redditi goduti dal prelato, la seconda dal capitolo. La mensa capitolare consiste principalmente in proprietà individuali, per la mensa primitiva del capitolo si ha quasi dappertutto la divisione fra i canonici, ognuno di essi contribuisce personalmente tramite una una "prebenda". Similmente, nel caso di abbazie date in commendam (il cf. c. Edoceri, 21 il rescriptis di De), la mensa abbaziale di cui gode l'abate, è distinta dalla mensa conventuale che è usata per l’uso della comunità religiosa. La mensa curiale, che è di più tarda origine, è della stessa natura: la proprietà viene riservata per l’uso personale del curato, in modo distinto da quella applicata alle spese dell'adorazione o per l’uso dell’altro clero. La costituzione di una mensa nel senso canonico, perciò, non è soltanto una certa porzione di proprietà della chiesa appropriata all’uso del clero (nel quel caso ogni beneficio sarebbe una mensa, il che è falso); è necessario che esista una sezione fatta nella proprietà di una particolare chiesa così in modo che, appropriatamente la certa proprietà sia destinata all’uso del prelato o rettore, o i altro soggetto del clero; segue, perciò, che l'amministrazione di questa proprietà appartiene a coloro che la godono.

Così il vescovo, l'abate secolare, il capitolo, la comunità religiosa amministra, ognuno all'interno dei limiti adatti, la proprietà della loro rispettiva mensa, senza rendere conto ad alcuno dell’uso dei suoi redditi; questo è vero anche per il curato che ha una mensa curiale. Le altre risorse della cattedrale o chiesa di parrocchia, o convento, che vengono destinate per l'adorazione religiosa, per i lavori di manutenzione degli edifici, ecc. sono soggette ai generali o a regole speciali per l'amministrazione delle proprietà della chiesa, se queste siano fatte da comitati della chiesa, amministratori, o altro organo amministrativo, o dal rettore della chiesa che sia unico amministratore; in tutti i casi una contabilità è dovuta al vescovo e, in generale, alle autorità ecclesiastiche, per l'amministrazione di tale proprietà. Ci sono comunque, delle eccezioni a questo principio. Dal momento che le mense, particolarmente le mense episcopali, hanno nel corso di secoli annesso entità legali, proprietà e fondazioni per altri scopi spesso non inerenti l’uso dei prelati; queste proprietà o fondazioni possono essere delle vere e proprie “opere pie” o lavori pii nel senso canonico. Così alcune mense episcopali controllano proprietà e case per il beneficio di preti anziani o malfermi, anche per stabilimenti istruttivi ed altri; alcuni legati per delle scuole di mensæ curiali od ospedali, prevedono per questi vari buoni lavori regole amministrative fin dalla loro loro fondazione. Ma tali casi si è visto facilmente sono ulteriori estensieni, estranee allo scopo primario e principale delle mense. Anche a queste proprietà si applica la vecchia regola, nel senso che loro non sono possessi ecclesiastici o comuni e non sono amministrate come essi, ma secondo il metodo usato per le proprietà della mensa.

Anche se appropriate all’uso di certe persone precise, le proprietà della mensa sono proprietà della chiesa, ed il suo amministratore è legato per osservare le regole canoniche che lo concernono. Come il rispetto della severa disposizione che stabilisce che egli deve tenere la proprietà in buona condizione e deve eseguire tutti i lavori convenienti a quel fine; in definitiva, lui deve comportarsi come un buon padre di famiglia. Egli non può fare qualsiasi cosa che usurpasse il diritto di proprietà riservato, in quanto lui non è il proprietario: l’ alienazione, o un contratto che la legge consideri

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simile all'alienazione, gli sono impediti, e omettendo tali formalità giuridiche che sono prescritte, cade sotto scomunica (Extrav. Ambitiosæ, reb di "De. eccl. non l'alienandis").

In testa a queste formalità prescritte c’è la concessione Apostolica, o dato direttamente o da Indulto, e che solamente quando l'alienazione o contratto simile è a vantaggio della Chiesa. Per l'alienazione delle proprietà della mensa, o per fare qualche contratto simile, il vescovo, in particolare, si salvaguardia tramite il beneplacito del capitolo (S. C. Concilii, 25 luglio 1891).

Storia

Come tutte le istituzioni ecclesiastiche, la mensa è giunta al suo status giuridico attuale come il risultato di varie modifiche. Nei primi secoli, tutta la proprietà di chiesa formò quella di una diocesi, esse erano in massa connesse, come tutto, com la chiesa principale o chiesa cattedrale. L'amministrazione di esse era del solo il vescovo che le amministrò o attraverso i suoi æconomus o i suoi diaconi. Il clero ricevette una porzione dei redditi di questa proprietà, qualche volta in modo fisso (uno-quarto in Italia, un terzo in Spagna), qualche volta secondo la decisione equa del vescovo. Presto le chiese fuori della città del vescovo avevano amministrazioni distinte loro proprie, e la ricchezza di cui si erano impossessati per l’adorazione religiosa o per l’appoggio del clero fu considerata come loro proprietà. Dopo il quinto secolo troviamo dei vescovi che accordano una certa proprietà della chiesa ai clerici, in modo "præcarium" cioè come proprietà revocabile che tali clerici usarono a volontà per il loro appoggio. Così il vescovo, l'abate, o il rettore della chiesa rimasero formalmente a lungo nella residenza e eseguirono le loro funzioni ecclesiastiche, non c'era ragione per cedere al clero inferiore, o i monaci, una parte della ricchezza ecclesiastica per cui era probabile che per questo motivo avessero disegnato il loro appoggio. Ma quando i primi Carlovingi, specialmente Carlo Martello dettero abitualmente le abbazie e le chiese ai loro compagni in arme, e quando i vescovi furono nominati secondo il favore reale essi cessarono di risiedere nella loro sede, e ne derivò qualche genere di divisione ed opposizione tra il prelato, abate, o vescovo e la comunità di monaci o clerici che erano in più di un'occasione andati via a causa di un superiore avido o negligente. Il rimedio per questo era l'istituzione di mensæ.

Il beneficiario fu costretto ad assicurare quello che era necessario alla comunità riservando per il suo uso una porzione sufficiente della proprietà della chiesa o convento. Così l'amministrazione superiore divenne agile per lui, mentre lui poté godere in pace e poté ottenere una equilibrata proprietà riservata per il proprio corretto uso (l'indominicatum); dall’altra parte la comunità guadagnò, oltre che la sicurezza materiale, anche un rinnovamento della vita religiosa, dato che la privazione dei beni materiali era inevitabilmente causa di rilasciamento della disciplina. La riforma Carlovingia, in particolar modo quella di Luigi il Pio, era principalmente responsabile per la costituzione di mense propriamente impostate e regolò in riguardo i conventi; come la mensa cattedrale era più comunemente una concessione benevola da parte del vescovo alla vita di comunità così creata (canonica di vita) fra il suo clero. Questa vita di comunità diviene più rara dopo la fine del nono secolo, ogni canonico ricevette la sua propria parte della mensa secondo la sua "prebenda". i canoni spesso avevano Più tardi, davvero, i canonici ebbero l'amministrazione separata delle rispettive proprietà, o come il risultato di una sezione o, più particolarmente, nell'adempimento di provvedimenti presi nella fondazione. Le mense, di carattere purchessia erano giuridicamente capaci di acquisire somme. Era attraverso loro che il principio della proprietà della chiesa, come nel caso della divisione, fu riattivato non solo per l'appoggio del clero, ma anche per i lavori totalmente religiosi e caritatevoli.

Fonti

LESNE, L'origine des menses dans le temporal des églises et des monastères de France au ixe siecle

(Paris, 1910); PÖSCHI, Bischofsgut und Mensa Episcopalis (2 vols., Bonn, 1908-1909); THOMASSIN, Vetus et nova disciplina, pars III, lib. ii; SÄGMÜLLER, Lehrbuch des kathol. Kirchenrechts (Freiburg im Breisgau, 1909), 244, 874; TAUNTON, Law of the Church (London, 1906), s.v.;

Vicario Capitolare (c.s.)

E’ l'amministratore di una diocesi vacante, eletto dal capitolo. Dopo la morte di un vescovo, i canonici di un capitolo della cattedrale (dove esiste) eredita la giurisdizione episcopale come corpo sociale. Dopo otto giorni che esiste il posto vacante, comunque, essi devono incontrare e devono costituire un vicario capitolare (Conc. Trid., Sess. XXIV, c. il xvi, de ref.). Se essi trascurano questo dovere, i passaggi corretti devono essere fatti dal metropolitano o, in caso che il metropolitano non ci sia, al vescovo di suffraganeo senior, o, quando la diocesi non ne ha, al vescovo più vicino. Per costituire un vicario capitolare, deve essere seguita una forma severa; ma se i suffragi vengono dati, essi devono essere segreti, e nessuno può votare per se stesso. L'eletto come vicario dovrebbe essere, se possibile, un dottore nella legge canonica, e un canonico sarà scelto comunemente senza che questo sia richiesto per la validità.

Con la sua elezione il vicario riceve tutta la giurisdizione episcopale all'ordine del giorno che il capitolo aveva ereditato, né il capitolo può riservarsi alcuna parte della sua giurisdizione, né costituire solamente un vicario provvisorio, né rimuoverlo. Facoltà che sono commesse ai vescovi dalla Santa sede dal per un periodo di anni, passaggio valido anche per il vicario capitolare (S. Via., 22 aprile., 1898) in cui sono inclusi i poteri di solito accordati per trattare un certo numero di casi (S. Via., 3 maggio, 1899). I Canonici di solito tengono le delegazioni perpetue ad ordinarie, come sanzionato dal Consiglio di Trento, similmente avviene al vicario capitolare. Comunque, le facoltà che erano state accordate personalmente al vescovo non sono estese al vicario. Ci sono, ciononostante, delle limitazioni al potere di un vicario capitolare, anche rispetto alla giurisdizione episcopale. Così, lui non può convocare un sinodo o visitare la diocesi a meno che non sia passato almeno un anno da quando questi uffici furono compiuti. Lui non può accordare le indulgenze. Lui non dovrebbe intraprendere alcun lavoro nuovo o prendere appuntamenti che possano portare pregiudizio all'azione del prossimo vescovo. Appena passato il primo anno di posto vacante, lui può promuovere da quel momento, ad ordini sacri solamente quando essi siano obbligati per ricevere quella dignità attraverso il possesso di un beneficio. Il vicario non può accordare i benefici della collazione libera, né può sopprimerli e

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unirli al capitolo della cattedrale. Lui non può alienare i beni della chiesa cattedrale o della mensa episcopale. Comunque, può accordare il permesso per l'alienazione

dei beni di chiese inferiori. Egli non può cominciare né può intraprendere un processo giudiziale riguardo ai beni o diritti della chiesa casttedrale. Il vicario non può dare permesso per l'erezione di un convento nuovo o una confraternita nuova (S.C. Ind., 23 Nov., 1878). I Canonisti di solito dichiarano che un vicario capitolare può ricevere clerici esterni nella sua diocesi, ma negano che egli possa distruggere la casa del clero. Se il vicario è in ordini episcopali, può compiere tutto ciò che appartiene al ministero della consacrazione; altrimenti lui può invitare un vescovo da un'altra diocesi per esercitare tali funzioni. Se il vicario muore o si dimette, il capitolo deve eleggerne un altro entro otto giorni, ma il nuovo eletto non deve essere uno che già ha ricevuto la nomina a sede vacante. Quando si rende necessaria la rimozione del vicario capitolare, questo può essere fatto solamente dalla Santa Sede. L'ufficio di un vicario capitolare cessa quando il vescovo che è stato eletto presenti nella diocesi le sue lettere di accreditamento al suo capitolo cattedrale. Il nuovo vescovo ha il diritto di esigere un rendiconto dal capitolo e dal vicario capitolare di tutti i loro atti di amministrazione, e di castigare ogni abbandono del dovere.

Vicario Episcopale

La figura del Vicario Episcopale è prevista dal Codice di diritto canonico nel suo Libro II intitolato Il popolo di Dio.

Il Can. 476 di questo Libro recita:

Ogni qualvolta lo richieda il buon governo della diocesi, possono essere costituiti dal Vescovo diocesano anche uno o più Vicari episcopali; essi hanno la stessa potestà ordinaria che, per diritto universale, a norma dei canoni seguenti, spetta al Vicario generale, o per una parte determinata della diocesi, o per un genere determinato di affari, o in rapporto ai fedeli di un determinato rito o di un ceto determinato di persone.

Pertanto è una figura facoltativa nelle Diocesi cattoliche di rito latino.

La figura, se presente, può essere unitaria o in un numero diverso a seconda delle necessità. I compiti

Come si evince dal Codice di diritto canonico i compiti sono sempre limitati e specificati, possono essere limitati ad una frazione del territorio diocesano o possono riguardare soltanto una parte ben definita dei compiti episcopali.

Il vicario episcopale fa parte solitamente del consiglio di Curia. Araldica

L'arma dei vicari episcopali è uguale a quella dei prevosti salvo che essi non siano anche vescovi ausiliari. In tale caso usano le armi proprie di questo rango.

Vicario Generale

La figura del Vicario Generale è prevista dal Codice di diritto canonico nel suo Libro II intitolato Il popolo di Dio.

Il can. 475 al comma 1 di questo Libro recita:

In ogni diocesi il vescovo diocesano deve costituire il vicario generale affinché, con la potestà ordinaria di cui è munito a norma dei canoni seguenti, presti il suo aiuto al Vescovo stesso nel governo di tutta la diocesi.

Pertanto è una figura obbligatoria nelle diocesi cattoliche di rito latino.

La figura è sempre unitaria salvo alcune eccezioni previste nel secondo capoverso dello stesso canonico. Le eventuali eccezioni possono nascere dall'ampiezza della diocesi o dalla dimensione demografica della stessa.

I compiti

Rappresenta il vescovo, e cura i rapporti con le parrocchie e i vicariati, le concessioni degli imprimatur, i rapporti con gli enti territoriali e della società civile, l'amministrazione dei beni ecclesiastici e gli aspetti giuridici dei sacramenti e della loro celebrazione.

Pertanto fanno riferimento diretto al Vicario Generale più uffici, se esistono e se sono organizzati in tal modo (l'esempio è tratto dall'Arcidiocesi di Bologna):

la Cancelleria della Curia i parroci

i vicari pastorali

il Collegio dei parroci urbani per i rapporti con le strutture amministrative l'ufficio amministrativo diocesano

il Consiglio diocesano per gli affari economici l'Istituto diocesano per il sostentamento del clero l'Ufficio diocesano per le nuove chiese

il Servizio diocesano per la promozione e il sostegno economico alla chiesa gli amministratori del Beni ecclesiastici

i consigli parrocchiali per gli affari economici eventuali strutture di gestione economica

Solitamente il vicario generale fa parte del consiglio di curia. Chianciano

Sottomessa a Siena (1230) dai conti Manenti. Pochi anni più tardi, quando una parte della famiglia si schierò con la repubblica di Orvieto (1237) la famiglia cominciò la sua inarrestabile decadenza. Orvieto si impossessò dei beni dei Manenti chianciasnesi lasciando loro solo una parte del castello della città di Chianciano e i beni che avevano nel Chiugi, essendo questi sotto la giurisdizione di Perugia. Acausa di questo i conti, spinti da ristrettezze , cominciarono a vendere i loro diritti, compresi quelle delle acque termali di Chianciano, ai comune ed ai privati.

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Le nuove classi mercantili colsero l'occasione di questa debolezza per rivoltarsi e nel 1276 tolsero ogni potere ai Manenti di Chianciano. Sconfitti i Manenti, nel 1287, la comunità di Chianciano si dette i primi Statuti con clausole specifiche riguardanti la famiglia Manenti per impedirne la riconquista del potere. Di questo parleremo più approfonditamente nelle conclusioni.

Visto che ora conosciamo in quale ambiente e durante quali avveimenti era cresciuto e morto Giacomo Villa e abbiamo più chiaro il significato di alcuni termini usati nelle varie versioni della vicenda vediamo la sua storia come ci viene raccontata nei secoli, oltre le tre legende, i tre documenti chiusini, il libro delle decime e alcuni dei documenti serviti.