• Non ci sono risultati.

I L REGIONALISMO DELLA C OSTITUZIONE REPUBBLICANA E LA LENTA ATTUAZIONE DELL ’ IMPIANTO COSTITUZIONALE

Dal punto di vista dei rapporti istituzionali tra lo Stato e le autonomie territoriali, si osserva che la Costituzione repubblicana del 1948, come reazione al centralismo ed al pensiero unico che aveva predominato nel corso del regime fascista, configurò un sistema costituzionale totalmente basato sul concetto del pluralismo: in senso istituzionale, ideologico, sociale e politico72.

Uno dei risvolti maggiori del pluralismo istituzionale e politico fu certamente costituito dall'’affermazione, di cui all’art. 5 del testo costituzionale, del riconoscimento e della promozione delle autonomie locali, pur nel quadro complessivo dell’unità e dell’indivisibilità della Repubblica, limite ultimo alla promozione ed all’autonomia delle realtà territoriali, che non vale comunque a consentire il cambiamento della forma di governo.

Da un altro punto di vista, invece, quello della struttura amministrativa ed istituzionale statale, il passaggio alla forma repubblicana e l’avvento della Costituzione costituiscono l’occasione mancata per invertire la rotta rispetto alla tendenza – manifestatasi già nei primi anni del regime fascista – di lasciare che istituzioni e società si incorporassero a vicenda. Se cambiarono le forme di questa reciproca compenetrazione (che dopo il 1948 contemplarono il ruolo centrale dei ricostituiti partiti politici), di certo non ne cambiarono le logiche73.

L’intervento dello stato nell’economia si fece sempre più pesante e diversificato, le politiche sociali non solo si svilupparono notevolmente, ma si diversificarono in modi prima di allora inaspettati, né si abbandonò – ed anzi si rinnovò – il carattere protezionistico dell’intervento pubblico nei confronti dell’iniziativa economica privata74.

72

Vedi F. STADERINI, Diritto degli enti locali, Padova, 2005, p. 39

73

Vedi S. CASSESE, La nuova Costituzione economica, Bari-Roma, 2004, p. 67

74

Nuovi modelli privatistici di esercizio del potere pubblico si affermarono – dopo un impiego assolutamente massiccio del modulo dell’ente pubblico e dell’azienda di stato – con grande decisione in diversi settori, principalmente quello previdenziale e della rappresentanza degli interessi categoriali.

Con l’avvento del governo Moro del 1963, ma già da molto prima – quando De Gasperi agganciò (saldamente?) l’Italia repubblicana al fronte occidentale e fece largo uso dei fondi messi a disposizione dagli Stati Uniti d’America per la ricostruzione post-bellica europea – esplose in maniera piuttosto eclatante quello che fu poi giornalisticamente definito il ‘miracolo economico’ degli anni sessanta, i cui primi segni di crisi erano già in nuce negli eventi politici e sociali manifestatisi già a partire dal cd. ‘autunno caldo’ del 196975.

Nonostante la ricostituzione dei partiti politici, e l’avvento di un nuovo pluralismo sociale ed istituzionale a seguito della caduta del regime fascista e dell’esito positivo del referendum istituzionale, la Pubblica Amministrazione post bellica continuava a mutuare la quasi totalità delle sue caratteristiche (in primis quella strutturazione ‘ministeriale’ tipicamente fascista) dal Fascismo.

In sostanza, «come se la pluralizzazione istituzionale degli anni venti e trenta non fosse esistita, la Costituzione restò ferma a una concezione monistica dell’amministrazione, riducendo il problema al solo aspetto dei ministeri»76.

Quanto ai nuovi rapporti tra lo stato e le autonomie territoriali, il dibattito sul regionalismo fu avviato da un articolo di Luigi Einaudi che, condannando apertamente il ruolo dello stato accentratore e propugnando un ritorno all’elettività degli organi locali, si scagliava in un violento attacco frontale alla figura del prefetto, definendo quest’ultimo come «una lue inoculata da Napoleone nel corpo politico

75

«ovvero la fortissima conflittualità sindacale che manifestò, in quell’anno, come i lavoratori, che avevano contribuito al miracolo economico ricavandone ben poco sul piano salariale, non fossero più disposti ad accettare le condizioni di remunerazione e di lavoro che avevano conosciuto sino ad allora […]. Dalla contestazione si innescò anche un nuovo movimentismo politico che avrebbe ben presto assunto le forme devastanti della lotta armata, nella quale le frange più estremiste del movimento cedettero di trovare lo sbocco naturale del loro rifiuto del sistema». Così, sinteticamente, S. SEPE (a cura di), Lineamenti di storia dell’amministrazione italiana, Roma, 2003, p. 125

76

italiano […]; democrazia e prefetto repugnano profondamente l’uno all’altro […]; il delenda Carthago della democrazia liberale è via il Prefetto, con tutti i suoi uffici e le sue dipendenze e ramificazioni! Nulla deve essere più lasciato in piedi di questa macchina centralizzata, nemmeno lo stambugio del portiere […]; il prefetto napoleonico se ne deve andare con le radici, il tronco, i rami e le fronde»77.

Anche don Sturzo, abbandonato ormai il Non expedit di Pio IX del 1874, spese molto del suo impegno politico nella difesa e nella valorizzazione delle realtà e delle istituzioni territoriali, nelle quali vedeva per i rappresentanti cattolici una prospettiva di influenza nella vita sociale e politica della nuova Repubblica, oltre che un’imperdibile occasione per la vita del nuovo Stato, che non poteva non tener conto delle specificità geografiche che lo caratterizzavano, ed al contempo non poteva esimersi dal compito di uniformare queste realtà nell’esercizio dei diritti civili e, sociali e politici, per realizzare finalmente una vera uguaglianza di fronte alla legge78. La soluzione adottata infine in Costituzione con l’istituzione delle regioni e la previsione della loro autonomia, più che costituire il frutto di una scelta politica convinta e consapevole, rifletteva le contrapposte, accese opinioni al riguardo manifestatesi in Assemblea costituente rispetto alle quali si poneva in posizione di strategico bilanciamento, e traeva le sue origini da un dibattito in realtà ben più risalente79.

Prima delle grandi riforme amministrative degli anni settanta, quindi, il decentramento di funzioni verso gli enti locali non avvenne se non in episodiche quasi del tutto trascurabili, come l’esperienza di cui alla legge 11 maggio 1953, n. 150, con la quale fu attribuita al Governo la delega legislativa a trasferire funzioni

77

Testualmente L. EINAUDI, Via il Prefetto!, in Scritti economici, storici e civili, Milano, 1996, p. 703

78

Vedi L. STURZO, La Regione nella Nazione, Roma, 1949, p. 99

79

Già è del 1861, quindi solo un anno dopo l’unificazione del Regno, l’opera di Carlo Cattaneo, che vedeva nel federalismo l’unica forma di governo in grado di produrre un miglioramento della condizione dei cittadini, essendo in grado di unire l’unità con la conservazione e la valorizzazione delle diversità etnografiche e territoriali. Si veda E. ROTELLI, Carlo Cattaneo e gli ordinamenti locali preunitari, in G. LACAITA, L’opera e l’eredità di Carlo Cattaneo, Bologna 1975, p. 83

statali di interesse esclusivamente locale a comuni e province nonché alle amministrazioni decentrate dello stato.

I decreti delegati che ne seguirono sottrassero tuttavia allo stato solo limitate funzioni in materia di marina mercantile, turismo e commercio, agricoltura e foreste, trasporti e motorizzazione civile.

Di ben più ampio respiro fu invece la riforma realizzata dalla legge 18 marzo 1968, n. 249 che, invertendo il criterio di ripartizione delle funzioni, assegnava al Governo la delega legislativa ad emanare decreti legislativi per il riordinamento dei servizi periferici dello stato e per il trasferimento agli enti locali «in relazione alle esigenze di più ampio decentramento amministrativo […], di tutte le funzioni amministrative, ad eccezione di quelle che attengono ad affari di interesse nazionale od internazionale e che comportino un rilevante impegno di spesa».

La circostanza che la delega restò poi inattuata rende ovviamente inutile sottolineare la portata innovativa di queste disposizioni, eppure essa costituì un’occasione di non poco momento non solo per iniziare ad attuare un reale decentramento amministrativo, ma anche per lo snellimento delle strutture ministeriali, altro parametro stabilito all’articolo 1 della legge delega80.

Dunque, mentre la Costituzione prevedeva che l’ordinamento regionale avrebbe dovuto essere attuato dal legislatore ordinario entro un anno dalla sua entrata in vigore, si dovette attendere il 1968 per una legge (la n. 108) sull’elezione dei consigli regionali, ed il 1970 perché nella cd. Finanziaria regionale81 si conferisse al Governo la delega al decentramento delle funzioni statali alle Regioni.

Tale trasferimento avvenne, poi, con i Decreti delegati del 1972, attraverso la tecnica cd. del ‘ritaglio’ in base alla quale, cioè, una stessa materia veniva suddivisa a diversi livelli, per attribuirne parte alla competenza statale e parte a quella regionale82.

80

Vedi F. STADERINI, Diritto degli enti locali, Padova, 2005, p. 42

81

La legge n. 281/1970, infatti, conteneva disposizioni in tutt’altra materia rispetto a quella, costituzionale, dell’attuazione dell’ordinamento regionale. In particolare, recava disposizioni contabili e finanziarie

Il sostanziale fallimento di questa tecnica spinse dunque il legislatore ad approvare una nuova delega al Governo83, che portò poi all’approvazione dei decreti delegati del 24 luglio 1976, nn. 616, 617, 618 con i quali si provvide effettivamente ad un complessivo decentramento molto più organico e consistente che nel passato.

83