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Le “regole della clandestinità”

È così, con “regole della clandestinità”, che Bruna Fregonese si riferisce alla serie di norme non scritte alle quali ci si doveva attenere. Questi principi coinvolgevano aspetti di ‘metodo’ e ‘comportamentali’. Il metodo consisteva in delle buone pratiche, per esempio relative agli orari o ai percorsi, come nel fatto di distribuire tutta la propaganda senza mai rimanerne in possesso a fine giornata.320

Ma le regole si rivolgevano principalmente al ‘contegno’, al comportamento che l’appartenente all’organizzazione doveva tenere. La clandestinità non fu una dimensione facile dell’esistenza perché coinvolgeva ogni aspetto della vita del militante. Le staffette non potevano permettersi nessuna leggerezza e dovevano diffidare di tutto e tutti.

Fu un partigiano traditore, Firmino Morello (nome di battaglia Tarzan),321 a tendere un tranello alla staffetta Noris Guizzo e a scortarla alle carceri dove subì terribili torture. Fu sempre lei, in seguito, ad essere utilizzata come esca e fatta passeggiare liberamente per Treviso con l’intento di trasformarla in “un muto e involontario strumento di delazione”322. Sarebbe stato sufficiente che qualcuno la salutasse per permettere ai fascisti di individuare altri membri, o sostenitori, dell’organizzazione. Fu Bruna Fregonese a incrociarla in quel frangente. Le sue parole restituiscono la tensione e la sofferenza di quel momento:

“Un giorno venendo da via Canova e girando per piazza Duomo, la vidi, non era che ci fosse tanta gente in giro in quei tempi, lei dalla parte del Duomo veniva verso il Calmaggiore, sapevamo che la facevano muovere per la città per vedere se qualcuno la salutava, ci vedemmo, ed ognuna proseguì per i fatti propri. Non ricordo dove fossi diretta, so che avevo soldi e documenti addosso. Ricordo che mi mancarono le gambe, fu difficile proseguire e ricordo anche che prima di ritornare a casa passai da Carrer per dargli la notizia rassicurante: non ci tradiva!”323

Carmen “non tradiva” perché aveva fatto finta di non conoscere Bruna, che con un solo cenno, dell’una o dell’altra, sarebbe stata immediatamente condannata a causa dei documenti che portava addosso.

319 B. Fregonese, Le carte di Bruna, op. cit., p. 67. 320 Ivi, p. 56.

321 F. Maistrello, Nome di battaglia: “Carmen”, op. cit., p. 105. 322 Ivi, p. 109.

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Questa era la dimensione della vita clandestina: fatta di imprevisti e di una selezione rigidissima nella quale non ci si poteva sciogliere nemmeno in un saluto. Venivano meno tutte le basilari forme di relazione: la chiacchiera, l’ironia e la spontaneità. Ognuna di queste esplicitazioni sociali poteva trasformare i membri dell’organizzazione in traditori: prima di tutto di sé stessi.

È questo che intende Laura Stancari quando parla del sollievo e della liberazione che si provava varcando la soglia delle ‘case’ amiche dove si ritrovava, anche per un momento, la serenità e la normalità del vivere: dentro

“esiste la sicurezza di poter parlare, la sicurezza di non essere tradite, esiste fiducia reciproca e solidarietà. […] All’esterno ciò non è possibile, fuori non si possono salutare le persone che si conoscono, fuori c’è il nemico”.324

Il clima della vita clandestina, pressata dalle perquisizioni, è ben presente nei quaderni di Nicola Paoli. Il militante comunista ritrovò proprio in questa ‘non-vita’ la scelta antifascista fatta dal giovane figlio Vladimiro. Dice Paoli

“Se il mio Vladimiro portava con sé l’odio contro questi affamatori del popolo [leggi: fascisti], aveva la sua ragione: era cresciuto, nei continui spaventi”.325

L’autenticità di questa scrittura popolare chiarisce con quelle due parole, “continui spaventi”, il senso di una gioventù vissuta nella paura.

Alla dimensione umana della sofferenza, potremmo dire privata, di questo “trionfo del silenzio”326, ne corrisponde poi un’altra legata ai componenti dell’organizzazione.

Come una tessera del domino, la caduta di uno dei pezzi poteva facilmente farne finire giù molti altri. Infatti, al di là delle accortezze che si tenevano nel ridurre al minimo la conoscenza e i contatti tra un membro e l’altro, nell’azione pratica, erano diverse le persone di cui si veniva a conoscenza. Infatti la responsabilità e la fatica non finivano con l’arresto: semmai raddoppiavano. A quel punto non era più in gioco soltanto la vita dell’imprigionato, ma quella di tutti i suoi cari, degli amici o degli appartenenti all’organizzazione che si potevano condannare cedendo alla tortura. Nel libro Eravamo fatte di stoffa buona (2008)327 curato da Maria Teresa Sega,

sono descritte le torture alle quali erano sottoposte le detenute. Dai racconti tragici delle violenze subite emerge la difficoltà che vi era nel tacere328 di fronte alle

324 L. Stancari, “Case Partigiane” nella memoria di Bruna Fregonese, op. cit., p. 156. 325 Corsivo mio, M. Anastasio, I quaderni di Nicola Paoli, op. cit., p. 70. 326 A. Casellato, Una piccola Russia, op. cit., p. 125.

327 Luisa Bellina, Ida e le sue sorelle. Ragazze cattoliche nella Resistenza veneta, in Maria Teresa Sega (a cura

di), Eravamo fatte di stoffa buona. Donne e Resistenza in Veneto, , IVESER, Nuova Dimensione Portogruaro 2008, pp. 39-68.

328 Sonia Residori, Gli ideali superano la paura, in Maria Teresa Sega (a cura di), Eravamo fatte di stoffa

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percosse, le violenze sessuali e la corrente elettrica applicata anche ai genitali.329 In

questi casi erano soltanto lo spirito d’abnegazione e la resistenza mentale, prima che fisica, a fare da garanzia per gli altri membri dell’organizzazione.

Si è parlato delle accortezze pratiche con le quali si mossero le staffette, ma sembra che, oltre ad alcune coordinate minime, non rimanessero loro altre risorse che inventiva e destrezza. È ormai chiaro che tutti gli appartenenti all’organizzazione dovessero attenersi a precise regole, ovvero ad un contegno contrario a tutto ciò che si può considerare ‘spontaneo’ in una persona.

Fu dalla capacità di dissimulazione che le staffette trassero la più importante delle loro armi. Infatti, prima di preoccuparsi di come superare i controlli, queste donne e ragazze si premuravano di sottrarsi alle perquisizioni. Qui entrava in gioco l’azzardo, la possibilità di far valere l’innocenza e la spensieratezza dei loro volti, sotto i quali in realtà si nascondeva a forza la paura. Tina Anselmi fu ad esempio l’autrice di un’imprudenza incredibile. Per trasportare una radio da Treviso a Castelfranco approfittò di un passaggio di un camion di soldati tedeschi.330 Viene da pensare che soltanto la disinvoltura e l’ostentata sicurezza le garantirono di non essere scoperta e arrestata.

Queste considerazioni, sulle difficoltà che vi erano nel superare i controlli, nascono dalle testimonianze che hanno lasciato le staffette relativamente alle tecniche usate per occultare i volantini. Gli ordini, ovvero singoli fogli, potevano essere nascosti tra i capelli, nel reggiseno, o sotto le gonna.331 I pacchi di propaganda richiedevano invece borse con doppifondi332 o altri oggetti che li coprissero. Ma

queste soluzioni non erano sufficienti.

Bruna Fregonese racconta che trovando dei pacchi molto grandi, spessi qualche centimetro, né arrotolati né piegati in due, fu costretta a metterli nel portapacchi della bicicletta e soltanto 3 o 4 nella borsa. Lei stessa scrive: “E poi ti chiedono dove nascondevi la stampa?!!!”.333 Se si ripensa alla radio trasportata da Anselmi, per

condannarla sarebbe bastato che uno dei soldati, anche solo per curiosità, sbirciasse nella borsa.

Era infatti molto difficile per le staffette non essere scoperte se perquisite. Lo si capisce anche dall’arresto di Nedda Zanfranceschi che fu trovata in possesso di volantini nascosti nel tubo della bicicletta e del manubrio, 334 posti certamente meno evidenti del portapacchi della bici.

329 Riccardo Caporale, La violenza contro le partigiane: il caso della banda Carità in Maria Teresa Sega (a cura

di), Eravamo fatte di stoffa buona. Donne e Resistenza in Veneto, , IVESER, Nuova Dimensione Portogruaro 2008, p. 108.

330 T. Anselmi, Ricordi di una staffetta partigiana di 17 anni tra città e campagna, op. cit., p. 123. 331 L. Tempesta, Memorie di partigiane in provincia di Treviso, op. cit., p. 34.

332 Wanda Canna, Ricordi di una staffetta partigiana, Ottobre 1943 Aprile 1945, Giacobino editore,

Susegana 2010. p. 38.

333 B. Fregonese, Le carte di bruna, op. cit., p. 41. 334 I. Bizzi, Il cammino di un popolo, vol. II. op. cit.,p. 37.

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Quindi, anche se sembrerà banale, per non essere trovate in possesso di stampa, ordini o i più diversi materiali che a loro venivano affidati, le staffette si adoperavano in ogni modo per evitare di essere perquisite.

Il profilo

Una questione molto importante è che la quasi totalità delle staffette di cui si ha memoria sono donne.

Per spiegare questa preponderanza femminile, generalmente, si fa riferimento alla maggiore libertà di movimento delle donne: esse non erano soggette ad obblighi di leva militare. Questa giustificazione non è sufficiente perché le donne potevano essere comunque cooptate per la realizzazione di opere difensive.335 Certo, la guerra aveva ribaltato il confine tra spazio pubblico e privato. Le ragazze incontravano minore difficoltà a muoversi perché, come osserva Sonia Residori:

“Il confine tra sfera privata e pubblica viene scardinato dal conflitto in corso e la natura stessa della guerriglia porta le donne a una mobilità intensa e vivissima, fuori dai confini della quotidianità”336.

Sono loro che

“ai posti di blocco si confondono con [altre] donne in cerca di cibo o in movimento per questioni familiari, ma le [loro] borse nascondono materiale antifascista e armi smontate.”337

Questa considerazione ha comunque un secondo risvolto, perché dà l’impressione che le partigiane occupassero quei ruoli che gli uomini non volevano ricoprire, o comunque fossero da questi ritenuti ‘secondari’. L’osservazione nasce dal caso di Pietro Bovolato, antifascista castellano. Appresa la notizia della morte del fratello Lenin, Pietro dichiarò la volontà di sostituirlo nella lotta:

“Pietro […] si reca al CLN e al Partito [comunista], da Pietro Bresolin, chiedendo di poter prendere il posto del fratello. […] Sarebbe stato necessario metterlo alla prova prima. Per questo gli affidarono il compito di staffetta tra Castelfranco e Treviso e nella zona della Pedemontana.”338

Da questi elementi emerge come una persona non ritenuta idonea ad essere immediatamente inserita nei quadri combattenti venisse destinata a ricoprire l’incarico di staffetta. Sembrerebbe che la divisione dei ruoli non fosse dettata dall’opportunità o dalla predisposizione del soggetto, ma dall’essere appartenenti

335 B. Fregonese, Le carte di bruna, op. cit., pp. 31-32.

336 S. Residori, “Gli ideali superano la paura”: le donne vicentine nella Resistenza , op. cit., p. 81 337 Ibidem.

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all’uno o all’altro sesso. Certo si trovano casi di donne partigiane339 o di uomini

staffette340, ma questo non cambia la sostanza delle cose.

Le donne e ragazze che svolgevano quel compito avevano comunque gravi difficoltà a muoversi alla luce del sole, tanto che per giustificare il loro impegno in questo settore non è sufficiente la motivazione legata agli obblighi di leva.

Non vi sono infatti degli elementi ‘interni’ a questo compito che possano farne una prerogativa femminile. A dispetto di ciò, la gerarchizzazione ideale interna al movimento vide una minore considerazione di questo ruolo a dispetto delle responsabilità che pesavano sulle spalle di chi lo ricopriva.

Nel libro In guerra senza armi (1995), che affronta la Resistenza con un approccio di genere, si scopre che le responsabilità ed attività delle donne nella Resistenza vengono generalmente indicate con le parole “contributo e partecipazione”.341 Questi

due vocaboli, detti “deboli” dalle autrici, nascondono proprio un’idea di secondarietà, se non di accessorietà, dell’esperienza e della lotta condotta dalle donne. Da questa idea nascono anche le interpretazioni del “maternage di massa” quale scelta istintiva, quasi pre-morale.

Le autrici sottolineano invece come la scelta di ospitare o aiutare uno sbandato sia “una forma di resistenza civile insieme rafforzata e mediata dalla carica simbolica connessa alla figura femminile”.342 Infatti la fame, la stanchezza della guerra o

l’orgoglio, sono catalizzatori che non bastavano da soli a far varcare la soglia del disconoscimento della legalità fascista.343

Relativamente al soggetto di studio della propaganda partigiana, si è già sottolineato come le notizie sulle staffette emergano principalmente da studi di genere, o dalla memorialistica femminile. Nel primo capitolo si era osservato come il tema della propaganda fosse stato trattato in modo diretto principalmente dai protagonisti di quella particolare attività. Il ruolo femminile sembrerebbe quindi legarsi ad un aspetto della lotta partigiana successivamente rappresentato quale secondario e complementare.

I dati e le osservazioni che vanno costruendosi in questo lavoro suggeriscono invece un approccio diverso. Il peso e il carattere delle contromisure utilizzate nei confronti delle staffette non hanno nulla di diverso da quelle prese contro i partigiani combattenti. È proprio questo un dato che indica come l’attività clandestina delle donne fosse paritaria, per rischi e fatica, a quella degli uomini e di tutti coloro che combatterono in montagna.

339 Partigiana combattente in Cansiglio è stata Leda Azzalini, nome di battaglia “Mariska”. Cfr. Irene

della Pietà, Michela Tocchet (a cura di), Mi chiamavano Mariska, Vittorio Veneto, ISREV, 2003.

340 Vi sono uomini come il “Sauro” (nome di battaglia Marcello Cadalto) il quale, una volta ricevuta da

Bruna la propaganda in via Callalta di Treviso, la trasportava a Biancade e Roncade. Cfr. B. Fregonese,

Le carte di Bruna, op. cit., p. 56.

341 Io stesso in questa ricerca ho fatto, involontariamente, abbondante uso di questi due termini. Anna

Bravo, Anna Maria Bruzzone, In guerra senza armi: storie di donne, 1940-1945, Roma-Bari, Laterza, 1995. p. 16.

342 Ivi, p. 18 343 Ivi, p. 17.

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Per dire ciò, è sufficiente osservare quale fu il loro lavoro interno all’organizzazione legato alla logistica del movimento partigiano. L’opera femminile fu la premessa per ogni genere di Resistenza militare e dell’efficacia della stessa.

Proseguendo nel tentativo di dare un’identità alla staffetta e al suo compito, nemmeno l’età poteva essere una valida discriminante. Furono la condizione, le conoscenze e la ‘complessione’ fisica a determinare il compito ricoperto dalla partigiana. Per esempio la giovane Tea Palman, classe 1922, figlia di proprietari di un’osteria, era adatta a fare da tramite tra altre staffette. È proprio lei a precisare:

“non è che facessi la staffetta, a portare in giro lettere; io non mi muovevo di casa; mi portavano e io consegnavo”.344

La più grande Angiolina Morona, di 28 anni, faceva invece da staffetta per Toni Adami nel quartier del Piave senza bicicletta “perché bisognava andare per le montagne”345. Lei ricopriva questo ruolo perché la sua precisa conoscenza dei sentieri

ne faceva la persona più adatta a dedicarsi a quel compito.

Infine bisogna ricordare che il movimento resistenziale era molto eterogeneo. L’essere partigiana nasce certamente dal contesto familiare e culturale, ma in alcuni casi anche dall’opportunità. Bruna, con tono accesso, parla del trattamento di favore che si riservava ad una staffetta:

“Per lei [un responsabile] aveva stabilito un compenso di 500 £ per volta e lei un giorno mi disse che a lavorare per i tedeschi si guadagnava di più. Di cosa avrei dovuto parlare io con quella tipa, di ideale? Io che non vidi mai un centesimo”346

Quello che preme segnalare, al di là di questo caso particolare, sono le diverse modalità con cui ci si avvicinava al movimento: vi erano le Bruna Fregonese, Tina Anselmi, Noris Guizzo legate sentimentalmente e idealmente alla Resistenza. Al loro fianco lavorarono invece persone che calcolavano la differenza di guadagno che vi era nella militanza per l’uno o l’altro campo. Questo sta a significare che vi erano molti modi di stare nella Resistenza, e quindi di fare la staffetta.

344 Adriana Lotto, Tra tedeschi e italiani. Storie di donne bellunesi 1943-45, Maria Teresa Sega (a cura di),

Eravamo fatte di stoffa buona, Portogruaro, Nuovadimensione, 2008. p. 179.

345 D. Ceschin, La lunga estate, op. cit., p. 141. 346 B. Fregonese, Le carte di Bruna, op. cit., p. 51.

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