I concetti chiave della psicologia positiva sono rappresentati oltre che, dal già citato benessere, dal funzionamento ottimale e dalla felicità; questi costrutti ne costituiscono, infatti, gli ambiti principali di indagine teorica e applicata (Buss, 2000; Diener, 2000; Lopez & Snyder, 2003; Myers, 2000; Ryan & Deci, 2001; Seligman & Csikszentmihalyi, 2000a; Snyder & Lopez, 2002). In particolare, i costrutti di benessere e felicità sono di difficile definizione perché soggetti in buona parte ad interpretazione individuale, inoltre assumono significati diversi in vari momenti storici e culturali (Davidson & Begley, 2012; McMahon, 2006; Oishi, Graham, Kesebir & Galinha, 2013; Wierzbicka, 2004).
Nel presente paragrafo sarà oggetto di studio la relazione che intercorre tra il benessere e la felicità mettendo poi quest’ultimo costrutto in relazione alla cultura.
Il termine felicità è solitamente utilizzato per descrivere due distinti stati psicologici; il primo legato allo stato affettivo momentaneo di un individuo, come il sentirsi felice in un preciso momento, il secondo invece si riferisce allo stato relativamente permanente di benessere che sperimenta una persona, come ad esempio il sentirsi felici di come sta andando la propria vita. Questo secondo stato psicologico denominato anche benessere psicologico (PWB) e benessere eudaimonico (Ryan & Deci, 2001; Ryff, 1989) è quello a cui fanno riferimento i ricercatori che si occupano di benessere. Il benessere riflette quindi maggiormente uno stato di “buona salute” che perdura per l'intera vita di una persona rispetto allo stato affettivo momentaneo rappresentato dalla felicità (Diener, 1984). Alcuni ricercatori preferiscono evidenziare le differenti caratteristiche del benessere e della felicità poiché considerare questi costrutti come equivalenti evoca l’immagine di una persona immensamente gioiosa e allegra
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con cui molti, pur sperimentando benessere, non si identificano (Diener, 1984; Seligman & Csikszentmihalyi, 2000b; Tov, 2018).
Passando ad analizzare il costrutto di felicità, esso ha assunto significati diversi a seconda del periodo storico (McMahon, 2006), in particolare un aspetto centrale è quello relativo all’inserimento o meno del termine fortuna all’interno della definizione di felicità; se infatti alcuni filosofi greci antichi come Socrate e Platone hanno negato il ruolo della fortuna nella felicità, antichi poeti greci pensavano che la fortuna avesse un ruolo centrale nella felicità umana. Il considerare la fortuna come elemento centrale della felicità porta a considerare quest’ultima legata a elementi esterni e quindi non direttamente controllabile (Nussbaum, 2001). Nel XIII secolo San Tommaso d'Aquino ha proposto una nuova visione della felicità a cui si può aspirare attraverso il raggiungimento delle virtù teologali della carità, della speranza e della fede, questo ha reso il concetto di felicità più controllabile (McMahon, 2006). Nel XVI secolo poi, con l'ascesa del Luteranesimo e del Calvinismo, il concetto di felicità si è ampliato considerando elementi che portano felicità anche quelli legati ad attività economiche.
Questo breve excursus storico mostra come l'antico concetto di felicità che si concentrava sull'essere "al di là del controllo" si è gradualmente trasformato in un concetto di felicità che può essere raggiunta da tutti. Sebbene vi sia stata questa evoluzione la nozione di fortuna non è completamente scomparsa dalle definizioni di felicità; in particolare dall’analisi delle definizioni di felicità presenti nei dizionari di 30 Nazioni (Oishi, Graham, Kesebir & Galinha, 2013) è emerso come in 24 delle 30 Nazioni studiate (Australia, Brasile, Cina, Estonia, Francia, Germania, Guatemala, Indonesia, Iran, Israele, Italia, Giappone, Kenya, Corea, Malesia, Mozambico, Norvegia, Pakistan, Portogallo, Romania, Russia, Senegal, Singapore e Turchia) sono presenti termini di good luck e fortune nella definizione di felicità.
Rispetto a queste differenze di definizione legate alle diverse culture, la linguista Anna Wierzbicka (2004) ha osservato come mentre i termini inglesi happy e happiness sono ampi e potrebbero così descrivere un qualsiasi evento positivo, i termini utilizzati in francese, polacco, tedesco e russo sono più specifici e descrivono quindi solo un evento positivo raro. A seconda quindi del termine utilizzato e della definizione di felicità questa può riferirsi a uno stato di beatitudine relativamente raro o a un evento che si sperimenta più comunemente. Alcune indagini empiriche hanno evidenziato variazioni culturali nella connotazione di felicità. Ad esempio (Lu & Gilmour, 2004; Tsai, Knutson & Fung, 2006) è stato evidenziato come gli americani tendono ad associare alla felicità stati di eccitazione e il raggiungimento del successo, mentre i cinesi stati di pace e calma. Questo perché per gli americani la felicità è
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legata al raggiungimento dei propri obiettivi e quindi le emozioni risultanti sono di eccitazione e orgoglio; al contrario la concezione cinese della felicità è incentrata maggiormente sulla fortuna e quindi lo stato emotivo risultante è simile alla gratitudine e alla soddisfazione piuttosto che all’eccitazione e all’orgoglio. Differenze culturali si riscontrano anche dal punto di vista grafico, i libri per bambini tailandesi raffigurano un sorriso mite più spesso di un sorriso ampio, mentre al contrario i libri per bambini americani raffigurano più spesso un ampio sorriso rispetto a un sorriso mite (Tsai, Louie, Chen & Uchida, 2007). A seconda anche della religione è stato evidenziato come i testi cristiani usano frequentemente emozioni positive di eccitazione elevata, mentre i testi buddisti usano più spesso emozioni positive a bassa eccitazione (Tsai, Miao & Seppala, 2007). L’idea culturalmente definita di cosa sia la felicità e cosa essa possa portare rappresenta un ulteriore elemento di differenza nei diversi paesi, ad esempio mentre la felicità è interpretata dagli americani come un legame tra le persone (ad esempio, il sorriso è la porta di una nuova amicizia), la felicità in Giappone è un'emozione potenzialmente pericolosa che potrebbe interrompere importanti relazioni sociali. Diversi studi hanno dimostrato inoltre come i cinesi si aspettino una cosa brutta dopo una serie di cose buone, mentre gli americani tendono ad aspettarsi una cosa buona dopo una serie di cose buone (Ji, Nisbett & Su, 2001). Un ulteriore esempio è quello dei coreani che ritengono come vi sia una quantità fissa di felicità simile ad una quantità fissa di fortuna (Koo & Suh, 2007). Quindi, se una persona coreana si sente felice (fortunata) oggi, probabilmente dirà che potrebbe non essere felice (fortunata) domani perché sta consumando tutta la sua felicità (fortuna) oggi; questo mette in evidenza come molti orientali oggi conservano la fragile visione della felicità (Miyamoto & Ma, 2011) propria degli antichi poeti greci (Nussbaum, 2001).
Un’ulteriore differenza è presente nella popolazione indù che vede felicità e dolore come i risultati delle vite passate e non solo di quelle attuali. Nella misura in cui non si ha il controllo sulle vite passate, i concetti indù di felicità sembrano essere coerenti con l'antica visione greca. Inoltre gli indù tendono a provare felicità quando sacrificano i loro beni materiali o rispondono ai bisogni degli altri. Come i buddisti anche gli indù vedono l'attaccamento agli oggetti come causa della sofferenza (Srivastava & Misra, 2003).
Quanto detto fin qui mostra le diverse concezioni di felicità nelle varie culture e come il significato del termine felicità si sia espanso e cambiato nel tempo a seconda delle diverse credenze religiose, delle condizioni economiche, sociali, politiche e fisiche (McMahon, 2006; Oishi et al., 2013).
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Se numerose sono le ricerche che hanno studiato come la definizione di felicità sia culturalmente connotata vi è una presenza minore di studi che si sono focalizzati sulle modalità di condivisione ed espressione della felicità stessa (Gable & Reis, 2010); la condivisione aumenta il benessere personale di chi prova felicità e migliora anche il benessere relazionale tra chi parla e chi ascolta (Gable, Reis, Impett & Asher, 2004; Langston, 1994; Rees et al., 2010a). Per concludere, è importante ricordare come la cultura prescrive anche le norme di comportamento da tenere nei contesti interpersonali (Kitayama & Markus, 2000; Mesquita & Leu, 2007), ciò influenza anche la modalità con la quale vengono esibite le emozioni, ad esempio gli asiatici, rispetto agli americani e agli europei, sono più propensi a smorzare le loro emozioni positive (Miyamoto & Ma, 2011), percepiscono l'esperienza e l'espressione di emozioni positive come inappropriate e indesiderabili (Eid & Diener, 2009) ritenendo le persone che le esibiscono immature e superficiali (Su & Oishi, 2011).
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