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di Paolo Angelin

2.1. La ricerca di un senso, insieme

La velocità del cambiamento è esponenziale, linguaggi, culture e con- testi sempre più interdipendenti, l’apprendimento non circoscrivibile entro processi consolidati, confini disciplinari o di luogo. Basti pensare a quanto siano divenute quotidiane e pervasive le grandi trasformazioni del nostro tempo, prime fra tutte la globalizzazione dei mercati e dei saperi o l’in- calzare delle nuove tecnologie della comunicazione. L’instabilità interroga i modi della produzione e del consumo, mestieri e professioni, istituzioni sociali e forme della convivenza, il modo stesso di concepire ambiente e territorio.

Ogni insegnante, genitore o rappresentante delle istituzioni locali con il quale sia capitato un confronto, in questi anni, ci ha raccontato il proprio spaesamento, di mutamenti nelle relazioni interpersonali, nei modi e nei tempi di accesso alla conoscenza, dell’esigenza improrogabile di una rifles- sione collettiva che risponda alla crescente complessità dei problemi.

Da questo punto di vista il mondo della scuola, unitamente ai suoi stakeholder, appare alla ricerca di scenari credibili e relativamente condivi- si sulla base dei quali fare scelte, connettere il proprio percorso personale alle culture locali radicate e a processi planetari altrimenti privi di senso pratico.

Eppure il passaggio dalle “grandi narrazioni” a una “conversazione aperta” non è privo di ostacoli, impone uno sguardo al futuro in grado di condurre al di fuori dei pantani dell’urgenza.

Come ben sintetizza Marc Augè (2010, p. 88):

Il problema è che sul pianeta regna un’ideologia del presente e dell’evidenza che paralizza lo sforzo di pensare al presente come storia, un’ideologia impegnata a rendere obsoleti gli insegnamenti del passato, ma anche il desiderio di immagina- re il futuro. Da uno o due decenni, il presente è diventato egemonico. Agli occhi del comune mortale, non deriva più dalla lenta maturazione del passato e non lascia più trasparire i lineamenti di possibili futuri, ma si impone come un fatto compiuto, schiacciante, il cui improvviso emergere offusca il passato e satura l’immaginazione del futuro.

Quali idee di società, di comunità, di uomo, di legame sociale stiamo perseguendo? Come conciliare la distintività dei luoghi, l’ambiente e le cul- ture con le nuove forme del lavoro, mediando la spinta verso l’uniformità e la standardizzazione? Quali ruoli sociali per le agenzie educative quali strumenti utilizzare per perseguirli?

Domande che alludono a un “oltre” del quale non sono noti i confini né scontate le direzioni, a una sfida culturale che richiede una transizione de- gli immaginari, oltre che delle pratiche.

Arjun Appadurai, nel suo saggio Modernità in polvere (2001), sostiene che l’immaginazione rappresenti un “tratto costitutivo della soggettività moderna” che, a differenza di quanto avvenuto in passato, appartenga oggi alla logica della vita ordinaria: così si immaginano “possibilità per se stes- si, per i propri figli” in grado di cambiare le condizioni di vita. Egli ipo- tizza un forte legame fra immaginazione e potere (all’opposto, la fantasia, pur importante, è qualcosa di fisiologicamente differente in quanto slegata dalla progettualità). La pratica immaginativa, pur influenzata da pressioni globali e costruzioni locali a cui tutti siamo soggetti, giocherebbe un ruolo di primo piano nella costruzione delle identità personali ma anche, e di conseguenza, nell’agency collettiva.

La “capacità di aspirare” (Appadurai, 2004) a un futuro differente (mi- gliore), tuttavia, non si riferisce tanto a una tensione individuale quanto a una dotazione culturale presente in ogni gruppo, categoria sociale, istitu- zione o territorio. Non indica una semplice insoddisfazione per la condizio- ne presente quanto piuttosto un atteggiamento intenzionale, meno fatalisti- co, in relazione al cambiamento sociale.

Un patrimonio immaginativo che può essere valorizzato strategicamente, ponendo obiettivi pedagogici e formativi a una visione politica ispirata alle tematiche dell’equità e del “diritto alla speranza”. Servono modelli esempli- ficativi, buone pratiche, percorsi possibili, sogni imprenditoriali che si sono fatti realtà. Le idee di futuro, così come quelle di passato, sono incorporate (e nutrite) nella cultura, si trovano nel modo in cui scegliamo di relazionar- ci agli altri, negli accordi (patti locali, fra soggetti pubblici e privati) nelle tecnologie che vengono ipotizzate (tecniche, formative, di comunicazione, ecc.), nelle scelte (organizzative, di connessione, di servizio, ecc.), nei vissu- ti di appartenenza ad associazioni e gruppi di rappresentanza.

Il cambiamento culturale presuppone immaginazione e capacità di aspi- rare, è un processo di sistema che appartiene a tutti, indistintamente, ri- chiede la messa in discussione di ciò che non funziona e spazi nei quali fa- re sperimentazione, magari fallendo, per dare vita a diverse visioni, anche critiche. Serve un dialogo, progetti per pensare a lungo termine e strumenti che facilitino il confronto fra interessi, istituzioni, generazioni. Servono gruppi, noi diremmo, e servono cerchi intorno ai quali mettersi.

L’invito a un respiro più ampio accomuna alcuni fra i più acuti osser- vatori della contemporaneità. Edgar Morin (2015), auspicando un ruolo di “rigenerazione sociale e umana” per la riforma del sistema educativo, pone al centro la complessità dell’esistenza e “l’insegnare a vivere” insieme, “un’etica del dialogo” che passi dal riconoscimento dell’altro, un’idea di conoscenza contestualizzata piuttosto che frammentata.

L’educatore descritto da Morin, animato dall’eros per il sapere e dalla passione, avrebbe un ruolo simile a quello di un direttore d’orchestra:

Chi altri se non il direttore d’orchestra potrebbe insegnare concretamente le trappole dell’errore, dell’illusione, della conoscenza riduttrice o mutilata, in un dialogo permanente con l’allievo? Chi altri potrebbe, se non nello scambio com- prensivo, insegnare la comprensione umana? Chi altri potrebbe incitare concreta- mente, nell’incoraggiamento e nella stimolazione, ad affrontare le incertezze? Chi altri, nel suo umanesimo attivo, potrebbe incitare a essere umano? (Morin, 2015, p. 104).

Ad utilizzare la stessa metafora, quella della prova d’orchestra, è un grande sociologo contemporaneo, Richard Sennett (2012) in una suggestiva disamina su quanto la società moderna e le sue istituzioni non lascino spa- zio all’espressione di capacità collaborative, pur intrinsecamente apparte- nenti alla natura umana.

I musicisti professionisti sarebbero in grado di “condensare un enorme lavoro collaborativo in un breve tempo”, spesso con estranei, grazie allo sviluppo di capacità comunicative e di ascolto facilitate da veri e propri ri- tuali sociali che superano le parole e privilegiano l’informalità, costringono a considerare con attenzione significati sottintesi, segnali deboli o silenzi aprendo lo scambio al fraintendimento, a una costruttiva divergenza.

Per affinare le proprie competenze cooperative, alla capacità di con- versare in forma dialettica – tesi-antitesi-sintesi, “il gioco dei contrari che conduce all’accordo” – andrebbe affiancata la conversazione dialogica, accettando il dubbio che ne deriva e stando nei significati dell’altro, “lan- ciando in mezzo al campo opinioni ed esperienze in modo interlocutorio”. Sennett riflette sui sentimenti che ne derivano e sulla simpatia, il “so esat- tamente quello che provi”, contrapposta all’empatia, “ti sto ascoltando con attenzione”, sull’esigenza di una “diplomazia quotidiana” per la gestione dei conflitti e sui metodi non direttivi.

Anche in questo caso – come per Morin – la passione, “un impulso umano fondamentale sempre vivo, il desiderio di svolgere bene un lavoro per se stesso” (Sennett, 2008, p. 18) ne rappresenta la premessa fondamen- tale.

In questa relazione dialogica, di reciprocità, nello spirito cooperativo del gruppo che apprende e l’umanesimo attivo della conduzione, va ricer- cato il senso profondo del progetto Lara. Il cambiamento di cui si sente l’e- sigenza è radicale, richiede scelte culturali e la messa in gioco degli stili di vita. La gruppalità allude a una più ampia visione di cittadinanza, fondata sulla riappropriazione degli spazi relazionali, un territorio da connettere, appartenenze aperte alla diversità.