Il seguente paragrafo è rivolto all’analisi sistematica dell’instrumentum; esso, come avremo modo di vedere, presenta una propria peculiare specificità in riguardo alle distinte attività economiche alle quali afferisce ed alla tipologia urbana o extraurbana del fondo nel quale l’attività si esercita, mutando, nel caso di specie, alcune sue componenti, a seconda della particolare species di negotiatio alberghiera a cui ci si trovi di fronte; dette attività possono avere uno svolgimento solo eventuale nel fondo rustico come nell’edificio urbano, oppure esserne l’unica ragione di esistenza: in entrambi i casi, quando alla predisposizione dell’instrumentum si associ un’organizzazione dell’attività in senso dinamico, essa assume una propria rilevanza imprenditoriale. In questo senso, l’esercizio di un’attività imprenditoriale può mutare la destinazione economica del bene in rapporto al quale è nata, evidenziando, in tal caso, un autonomo instrumentum100, diverso da quello
proprio del bene immobile. Allo scopo di approfondire queste relazioni, mi è parso necessario iniziare la mia analisi dalla definizione che Ulpiano dà dell’instrumentum, per poi trarre le fila del discorso sviluppando alcuni passi tratti dal Digesto, in particolare dal Liber XXXIII Titulus VII de
100Cfr. A. M. Giomaro, Dall'instruere all'instrumentum e viceversa nell'economia della Roma antica, in Studi urbinati di scienze giuridiche, politiche ed economiche. Nuova serie A, Vol. 62, 1-2, 2011, p. 159.
42
instructo vel instrumentum legato, e portare, di seguito, la mia indagine alla descrizione delle cose strumentali di una domus e di un fondo rustico, accingendomi infine alla più specifica definizione dell’instrumentum tipico connesso al settore della ricezione alberghiera,
oggetto principale di questo studio.
Il giurista severiano così definisce l’instrumentum:
Ulp. 20 ad Sab. D.33.7.12 pr: Quaesitum est, an frumentum, quod cibariis cultorum paratum foret, instrumento cederet. Et plurimis non placet, quia consumeretur: quippe instrumentum est apparatus rerum diutius mansurarum, sine quibus exerceri nequiret possessio: accedit eo, quod cibaria victus magis quam colendi causa parerentur. Sed ego puto, et frumentum et vinum ad cibaria paratum instrumentum contineri: et ita Servium respondisse auditores ejus referunt. Item nonnullis visum est, frumentum, quod serendi causa sepositum est, instrumentum contineri: puto, quia et instar culturae esset; et ita consumitur, ut semper reponeretur: sed causa seminis nihil a cibaris differt.
All’inizio del frammento, ci si domanda se il grano destinato ai coltivatori fosse da ricomprendersi fra le cose strumentali; la maggior parte dei giuristi dava a questo quesito una risposta negativa, poiché l’utilità del grano è nell’essere consumato101: le cose strumentali (l’instrumentum),
101Il giurista severiano riferisce che i plurimi (la maggioranza dei giuristi)
ritenevano il frumento, per il fatto stesso di essere un bene consumabile, non annoverabile fra le cose strumentali del fondo, a prescindere dalla destinazione impressagli, fosse, questa, di fungere da nutrimento per la famiglia servile o di fruire, in quanto semina, a dare avvio al ciclo produttivo successivo; ciò è ravvisabile anche dal fatto che, nella seconda parte del brano, viene riportato il parere di un’altra frangia giurisprudenziale (nonnulli), alla quale il pensiero di
43
invece, sono un insieme di cose utili per l’utilizzo di un bene (e, intanto, il grano lo è solo indirettamente, poiché è utile ai servi che fanno parte dell’instrumentum; tutti i cibi, infatti, vanno a costituire il vitto dei servi, e non sono perciò preparati per la semina), senza le quali, ritiene la maggior parte dei giuristi, non potrebbe aver luogo l’esercizio del possesso, ma tutte accomunate dall’essere destinate a durare per molto tempo. Ulpiano crede invece, disputando se i cibi siano o meno da ricomprendersi nell’instrumentum, che sia il grano che il vino preparati per il vitto dei servi siano da ricomprendervisi, e gli allievi di Servio riportano che abbia risposto in tale maniera anche quest’ultimo. Ad alcuni giuristi, invece, è parso preferibile ritenere parte delle cose strumentali anche il grano messo da parte per la semina; Ulpiano è d’accordo con questa interpretazione, perché ciò sarebbe come una coltura e perché il grano viene rimesso da parte di volta in volta che viene consumato: in questo, infatti, la semenza non differisce dai cibi. Alla luce di quanto detto, i prodotti del fondo rientrano nell’instrumentum, secondo buona parte dei giuristi, dal momento del loro reinserimento nel ciclo produttivo, in quanto in tal modo divengono parte dinamica dell’edificazione dell’attività di sfruttamento del fondo, nonché della creazione del prodotto successivo, mentre non vi rientrano se adibiti
al solo sostentamento: ciò denota come la qualità essenziale, per l’appartenenza all’instrumentum, sia la capacità dei prodotti del
fondo di essere direttamente funzionali alla produttività agricola.
Ulpiano è più vicino, incline a ricomprendere nell’instrumentum fundi solamente il grano preparato per la semina (si veda M. A. Ligios, Interpretazione giuridica e realtà giuridica dell’instrumentum fundi tra il I sec. a.C. e il III sec. d.C., Napoli, 1996, p. 87-88 e nt. 132).
44
Ulpiano, come del resto Servio, crede non vi sia differenza fra il grano adibito a nutrimento e quello a semenza, ovvero per lui non sembra esserci niente di strano (nonnullis visum est) all’inserimento del grano preparato come cibo nell’instrumentum fundi102. Ad ogni modo, si può già desumere da questo brano che l’instrumentum, come sostenuto da Anna Maria Giomaro, è ciò che è idoneo a costruire «una qualche attività nella sua concretezza, ponendo l’accento, dinamicamente, sull’attività più che sul bene costruito», ed in relazione alla definizione ulpianea (instrumentum est apparatus103 rerum diutius mansurarum, sine quibus
exerceri nequiret possessio), continua l’illustre studiosa, che l’instrumentum sia «il complesso di cose stabili e permanenti stabilmente e permanentemente utilizzate per l’esercizio del possesso del fondo104». Sull’argomento non c’era però unanimità di pensiero, come si evince dal seguente passo di Ulpiano:
Ulp. 20 ad Sab. D.33.7.12.2: Alfenus autem, si quosdam ex hominibus aliis legaverit, caeteros, qui in fundo fuerunt, non contineri instrumento ait: quia nihil animali instrumenti esse opinabatur; quod non est verum: constat enim eos, qui agri gratia ibi sunt, instrumento contineri.
Nel passo, infatti, per quanto ci interessa, il giurista Alfeno afferma che, se un tale abbia dato in legato ad altri alcuni dei suoi servi, gli altri servi che lavorarono nel fondo non appartengono alle cose strumentali, perché egli non riteneva ragionevole comprendere nell’instrumentum nessun
102A. M. Giomaro, Dall’instruere all’instrumentum, cit., p. 117-118. 103Cfr. E. Forcellini, Lexicon, cit., sub voce Apparatus.
45
essere animato105. Ulpiano ritiene, però, che questa affermazione non sia giuridicamente fondata: piuttosto saranno di certo da ricomprendersi fra le cose strumentali tutti coloro i quali hanno lavorato affinché il fondo producesse frutti. In questo senso, nonostante il parere discordante riportato nella parte iniziale del frammento106, il giurista severiano riafferma, anche in questa sede, quanto detto nel passo sopra visto107, ribadendo la presenza nell’instrumentum di tutte le componenti umane e materiali atte a favorire l’esercizio di una certa attività sul fondo, ovvero
una negotiatio.
Un ulteriore frammento, tratto dal primo libro degli Enunciati plausibili di Labeone, l’ultimo del Liber XXXIII Titulus VII del Digesto, dimostra ancor più chiaramente come, sulla tematica dell’instrumentum, vi fosse, fra i giuristi, una diversità di opinioni ed interpretazioni, più o meno condivisibili:
Lab. 1 “pithanon” D.33.7.29: Si navem cum instrumento emisti, praestari tibi debet scapha navis. Paulus: immo contra. etenim scapha navis non est instrumentum navis: etenim mediocritate, non genere ab ea differt,
105Ad eccezione di Alfeno, dal parere del quale Ulpiano si discosta, il pensiero
giuridico era totalmente orientato ad includere nell’instrumentum gli esseri animati; si veda, sul punto, M. A. Ligios, Interpretazione giuridica, cit., p. 18 e 33-39.
106Alfeno dimostra, in questo passo, (come in Alf. 2 dig. a Paul. epit. D.33.7.16.2)
una prospettiva ben diversa rispetto a quella della giurisprudenza romana maggioritaria; egli risultava sul punto completamente isolato, prendendo, probabilmente, le mosse da una riflessione filosofica che non tollerava schiavi od animali, quindi esseri animati, al servizio di un bene inanimato come il fondo; si rimanda, in proposito, a M. A. Ligios, “Taberna”, cit., p. 96 nt. 214.
46
instrumentum autem cuiusque rei necesse est alterius generis esse atque ea quaequae sit: quod Pomponio libro septimo epistularum placuit.
Nell’apertura del passo, Labeone afferma che, qualora si fosse comprata una nave con le cose strumentali, questa doveva essere data anche con la scialuppa di salvataggio; il giurista Paolo si oppone a questa affermazione argomentando che la scialuppa della nave non è una cosa strumentale della stessa, poiché differisce da questa soltanto per le sue misure, ma non per il genere: infatti, Paolo ritiene che le cose strumentali debbano necessariamente, per essere tali, differire dalla cosa che vanno ad attrezzare in quanto al genus che le costituisce, ed anche Pomponio è dello stesso parere, come riportato nel settimo libro Delle epistole. Tuttavia, criticando il parere di Labeone, Paolo non ne coglie appieno l’essenza, poiché la scialuppa (scapha) è naturalmente un bene destinato al servizio della nave, e, in quanto tale, proprio perché questa funzione ausiliare è in concreto prevalente, dovrebbe rientrare di diritto nel novero delle cose strumentali per questa predisposte108.
Avendo enucleato, nello sviluppo del paragrafo corrente, i tratti generici dell’instrumentum, ritengo sia giunto il momento di incentrare questa ricerca sui testi che fanno riferimento esplicito o indiretto alle cose strumentali delle attività commerciali di ricezione alberghiera. Mi pare opportuno, dunque, riportare un famoso ed edificante brano del giurista
108Questa opinione di Paolo viene fortemente criticata da R. Richichi, L’inquadramento della nave nelle categorie delle <<res>> in diritto romano, in
Rivista di Diritto Romano, I, 2001, p. 19-20 e nt. 81: l’Autore riporta il pensiero di Bonfante, il quale considera l’opinione di Paolo una sottigliezza, un cavillo (P. Bonfante, Corso di Diritto romano, II, La proprietà, Milano, 1966, p. 168).
47
Paolo, tratto dal quarto libro del commentario ad Sabinum, per introdurre la tematica:
Paul 4 ad Sab. D.33.7.13 pr.: Tabernae cauponiae instrumento legato etiam institores contineri Neratius existimat: sed videndum, ne inter instrumentum tabernae cauponiae et instrumentun cauponae sit discrimen, ut tabernae non nisi loci instrumenta sit, ut dolia vasa ancones calices trullae, quae circa cenam solent traici, item urnae aereae et congiaria sextaria et similia: cauponae autem, cum negotiationis nomen sit, etiam institores.
In questo frammento, Paolo riporta il pensiero del giurista Nerazio, il quale sostiene che, qualora si venissero a legare le cose strumentali di un’azienda alberghiera, si dovrebbero legare anche, con esse, gli institori; dopo questa premessa iniziale, Paolo evidenzia come sia da verificarsi, dunque, se non vi sia differenza tra le cose strumentali (instrumentum) dell’edificio adibito ad albergo e quelle dell’azienda alberghiera stessa: nel primo caso, instrumentum saranno solamente gli attrezzi (instrumenta) connessi al locale109, come le botti, gli utensili
da cucina, i vasi, i bicchieri e i mestoli che solitamente si portano sulla tavola, ed allo stesso modo le brocche di rame, i congiari, i sestari e simili; mentre si ricomprenderanno nell’instrumentum dell’albergo, quando questi assuma la denominazione di impresa (negotiationis
109Sul novero di questi strumenti cfr. anche P. S. 3.6.1: Instrumento cauponio legato ea debentur, quae cauponis usui parata sunt, velut vasa, in quibus vinum defunditur: escarai quoque et pocularia vasa debentur. Sane ministri earum rerum legato non cedunt.
48
nomen110), anche gli institori111.
Da questo illuminante passo possiamo cogliere non soltanto il discrimine tra l’edificio adibito ad ospitare la negotiatio e la negotiatio stessa, intelligentemente messo in luce dal giurista, ma anche uno degli aspetti
peculiari e fondamentali dell’esperienza imprenditoriale romana: la possibilità di affidare la gestione dell’attività negoziale a propri schiavi
in qualità di preposti112. Si può ricavare quindi, dal testo, una fotografia precisa di come fosse allestita e preparata alla ricezione alberghiera una locanda dell’epoca113. Si comprende appieno, come del resto è perfettamente plausibile in base a quanto più volte si è già illustrato circa le specifiche necessità dei viaggi e dei viatores antichi, che un aspetto
110Per la spiegazione del significato e della funzione della locuzione negotiationis nomen, la quale compare una sola volta nelle fonti giuridiche a noi pervenute (ovvero nel sopra citato passo paolino contenuto in D.33.7.13 pr.), e per la sua corrispondenza ed assimilazione alle nostre locuzioni “tipologia d’impresa” ed “attività commerciale”, si vedano: M. A. Ligios, Nomen negotiationis, cit., p. 1-20; P. Cerami, Introduzione allo studio del diritto commerciale romano, in P. Cerami- A. Petrucci, Diritto Commerciale Romano, cit., p. 36 e ss. e 51 e ss.; F. Serrao, L’impresa in Roma antica. Problemi e discussioni, in Studi per Luigi De Sarlo, Milano, 1989, poi in Impresa e responsabilità a Roma nell’età commerciale, Ospedaletto (Pisa), 1989, e, infine, in Atti del seminario sulla problematica contrattuale in diritto romano. Milano, 7-9 aprile 1987 (da cui si cita), II, Milano, 1990, p. 25 e ss. e 39.
111Il passo in questione è stato oggetto di riflessione e di studio da parte di
numerosi studiosi; si vedano, in particolare: P. Cerami, Introduzione, cit., p. 54 e ss.; ID., Tabernae librariae, cit., p. 18; ID., Tabernae deversoriae, cit., p. 453-454; A. Di Porto, Il diritto commerciale romano, cit., pag. 441 e ss.; M. A. Ligios, Nomen negotiationis, cit., p. 2-3; ID., “Taberna”, cit., p. 40 e ss. e 79 e ss.
112Sul punto si rimanda a M. A. Ligios, Nomen negotiationis, cit., p. 2-3 e 10.
113M. Beard, Prima del fuoco, cit., p. 267-277; F. Guidi, Vacanze romane, cit.,
p. 54-55 e 83-84; C. Pavolini, Ostia, Bari, 2006, p. 195-196 e 203-206; ID., La vita quotidiana a Ostia, cit., p. 227-237.
49
centrale della ricezione era la prestazione del servizio di ristorazione e che, come ha chiarito il testo 95 del Satyricon di Petronio, i piani superiori delle locande presentavano spesso ricoveri per la notte dotati di povero mobilio. Il passo coerentemente menziona dolia (vasi di grandi dimensioni utilizzati per la maggiore al fine di stoccare le derrate, che all’occorrenza potevano fungere da pentole o da contenitori per svariati tipi di pietanze114), utensili da cucina e strumenti per la mescita dei vini, vettovaglie in genere, ed anche urnae aereae115, che potrebbero far
114Per dare un’idea della variegata utilizzazione e funzione dei dolia: Varr., De re rust., 3.15: Hae saginantur in doliis, quae etiam in villis habent multi, quae figuli faciunt multo aliter atque alia, quod in lateribus eorum semitas faciunt et cavum, ubi cibum constituant. In hoc dolium addunt glandem aut nuces iuglandes aut castaneam. Quibus in tenebris cum operculum impositum est in doleis, fiunt pingues. Il Reatino, che sta parlando dei ghiri, ricorda come questi animali vengano ingrassati in vasi che molte persone sono solite tenere anche all’interno della villa; i vasai danno a questi contenitori una forma molto differente dagli altri vasi, con scanalature lungo i lati interni ed un incavo per riporvi i viveri. In questo vaso (dolium) possono esser riposte ghiande, noci o castagne, ed apponendovi sopra un apposito coperchio, è possibile farvi ingrassare i ghiri al buio. I dolia venivano, fra le altre cose, impiegati per la conservazione di olio e vino, come si evince da Ulp. 32 ad ed. D.19.2.19.2: .. ut cetera vasa olearia dominum praestare oporteret, sicuti dolia vinaria, quae ad presentem usum colonum picare oportebit... I numerosissimi dolia interrati, rivenuti nella villa rustica, del I secolo d.C., riscoperta in località Villa Regina e sita a Boscoreale (Napoli), sono un esempio calzante del grande e multiforme utilizzo di questi recipienti.
115Molti dei termini utilizzati nel passo paolino sono, in realtà, polivalenti: vasum,
che al plurale indica qualsiasi strumento da lavoro e perfino le insegne ed i segni distintivi (anche se tipicamente nel contesto militare); ancones, che indica, oltre alle brocche, le mensole, i piani di appoggio in legno e le pertiche; urnae aereae, che nell’esegesi di cui sopra ho tradotto, rifacendomi all’accezione maggiormente utilizzata, brocche di rame: la parola urnae può, però, essere tradotta anche con scrigni, mentre aereae si può tradurre con bronzei, motivo per il quale, nell’ipotesi in cui si tenga in considerazione la traduzione “scrigni
50
pensare ad una sorta di servizio di custodia degli effetti personali della clientela. Ovviamente, però, il centro dell’attività economica di ogni albergatore era l’offrire ospitalità ed il godimento di una stanza. Un brano di Gaio sarà chiarificatore sul punto:
Gai. 5 ad ed. prov. D.4.9.5 pr.: Nauta et caupo et stabularius mercedem accipiunt non pro custodia, sed nauta ut traiciat vectores, caupo ut viatores manere in caupona patiatur, stabularius ut permittat iumenta apud eum stabulari.
Nel breve frammento, il giurista esplica che sia l’armatore che l’albergatore, come pure il titolare di una stazione di cambio per cavalli, percepiscano denaro non per la custodia, bensì l’armatore perché trasporti i passeggeri, l’albergatore perché lasci che i viandanti pernottino nel proprio albergo, ed il titolare di una stazione di cambio perché permetta ai cavalli di trovare ricovero nella sua stalla. Si può, dunque, asserire, a buon diritto, che nella caupona i viaggiatori (viandantes) potessero, sicuramente, al tempo stesso rifocillarsi, consumando cibi e bevande, e trovare alloggio (manere in caupona)116, e,
di bronzo”, si potrebbe, a mio modestissimo parere, pensare ad un servizio di custodia specialmente deputato a ricevere, dietro forse ulteriore compenso, determinati beni di lusso di cui potevano disporre i clienti più facoltosi, preoccupati dai frequenti furti che si verificavano in dette strutture.
116In tal senso mi sembra opportuno un riferimento al già citato (si veda supra,
§ 2 sub a) De inv. 2.4.14-15, dove Cicerone, parlando di due viaggiatori, scrive di come questi avessero intenzione di fermarsi in una taberna caupona per mangiare e pernottarvi. Inoltre, numerose sono le fonti, giuridiche e letterarie, dalle quali si palesa che la caupona fosse un luogo dove i clienti potevano ristorarsi e dormire contro il pagamento di una mercede; su tutti: Pomp. 6 ad Sab. D.33.7.15 pr. (su cui ampiamente infra § 3); Ulp. 38 ad ed.
51
talvolta, trarre giovamento, sempre dietro il pagamento di una mercede, da piaceri diversi da quelli della tavola117. Se tutto ciò è vero, per fare questo sarebbe stato, comunque, indispensabile predisporre ogni stanza di brande e mobilio, evidentemente cose rientranti nella nozione di instrumentum. Tornando ora all’assunto più importante della trattazione del summenzionato passo paolino, ovverosia l’inclusione dei preposti (institores) alla gestione della pensione tra le cose strumentali (instrumentum) dell’azienda, un altro brano, stavolta del giurista Pomponio, e che mi appresto di seguito a riportare, irrobustisce questa idea:
Pomp. 6 ad Sab. D.33.7.15 pr.: Si ita testamentum scriptum sit: “Quae tabernarum exercendarum instruendarum pistrini cauponae causa facta parataque sunt, do lego”, his verbis Servius respondit et caballos, qui in pristinis essent, et pistores, et in cauponio institores et focariam, mercesque, quae in his tabernis essent, legatas videri.
Nel frammento di cui sopra, Pomponio riferisce un parere di Servio riguardo ad un testamento nel quale il de cuius lasciava, in legato, quelle cose appositamente costruite e destinate per l’esercizio e l’attrezzatura dell’attività commerciale del panificio e dell’albergo; il responso di Servio fu che si considerassero legati anche i cavalli che presenti nei mulini
D.47.5.1.6 (Caupo praestat factum eorum, qui in ea caupona eius cauponae exercendae causa ibi sunt: item eorum qui habitandi causa ibi sunt: viatorum autem factum non praestat); Paul. 22 ad ed. D.4.9.6.3 (supra § 1); T. Kleberg,
Hôtels, restaurants et cabarets, cit., p. 3 e ss.; L. Casson, Travel in the Ancient World, cit., p. 197-218; R. Étienne, La vita quotidiana a Pompei, cit., p. 221; C. Pavolini, La vita quotidiana a Ostia, cit., p. 233 e 236.
52
ed i mugnai, oltreché gli institori e la cuoca della locanda118, come pure le merci che si venissero a trovare in dette attività. Pomponio, riportando le parole di Servio, giunse alla stessa conclusione di Paolo, annoverando nell’instrumentum della taberna caupona non soltanto gli utensili e le merci adibite al fine del suo esercizio, ma anche e soprattutto le persone predisposte per consentire l’effettivo svolgimento della negotiatio (institores et focariam)119. Corrobora questa tesi anche un brano di
Marciano estratto dal settimo libro delle sue Istituzioni:
118Ancora una volta, con riguardo al passo in analisi, M. A. Ligios, “Taberna”,
cit., p. 75-78, sottolinea magistralmente la stretta e indissolubile connessione tra negotiatio e praepositio institoria. La Studiosa mette in luce, con persuasività, come nel frammento pomponiano non si parli di institor in relazione ai mulini, ma soltanto riguardo alla caupona, ad evidenziare il fatto che