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In un’era sempre più coinvolta dal fenomeno migratorio e contrassegnata dalla mobilità di persone, conoscenze e quindi culture distinte, la comunità internazionale si trova sempre più spesso a doversi confrontare con identità culturali talvolta con caratteri di forte estraneità da quelli solitamente riconosciuti; affinché possa essere tutelata l’identità del singolo, senza però che i diritti e le libertà altrui nonché i principi affermati da sistemi democratici consolidati vengano violati, è necessario formulare dei codici il più possibile condivisibili che possano regolare efficacemente la nuova realtà culturale, la nuova società plurale. Nello specifico della presente analisi, la presenza sempre più consistente di migranti musulmani in paesi in cui l’islam era finora professato da pochi esponenti, pone inevitabilmente degli interrogativi a cui la comunità internazionale e quella europea deve necessariamente trovare risposta. Si è già descritta la pluralità della comunità musulmana che caratterizza l’Italia, ma è importante notare come questa frammentarietà di esperienze contraddistingua l’intera migrazione musulmana in Europa e nel mondo: la composizione della

283 Ibid; Approfondimenti in L. Musselli, Libertà religiosa ed islam nell’ordinamento italiano, in Il Diritto Ecclesiastico, 1995, numero 1, pp. 466-468

73 stessa è distinta, sia da un punto di vista di origine nazionale che di appartenenza religiosa, ma anche la provenienza da zone rurali o urbane può determinare differenze considerabili, la consistenza della comunità è un altro fattore rilevante, più numerosa è la componente islamica, più forte sarà la sua voce, e certamente la permanenza dell’insediamento nel territorio nazionale definisce i rapporti con lo Stato284. La peculiarità islamica, come si è precedentemente evidenziato, è il non essere una semplice identità religiosa, e, al fine di sviluppare un dialogo con l’islam, è utile saper riconoscere anche il carattere culturale che questa religione veicola. In relazione al diritto alla libertà religiosa, la diversità islamica pone interrogativi singolari poiché l’islam prescrive al credente comportamenti non solo in campo religioso, ma in tutti gli ambiti della vita. L’identità islamica rivendica allora con decisione la salvaguardia della propria diversità culturale, proprio in virtù del fatto che l’essere musulmano non implica soltanto elementi religiosi, ma principi identitari socio-culturali. La mancata tutela della propria libertà religiosa, per il musulmano, va inevitabilmente a limitare non solo il fattore religioso, ma la sua stessa identità culturale.

Nel 2001, come si è già ricordato, all’indomani degli atti terroristici dell’11 settembre, è stata adottata la Dichiarazione universale dell’UNESCO sulla diversità culturale, documento che viene ripreso nella Convenzione sulla protezione e la promozione della diversità delle espressioni culturali del 2005, la quale, riaffermando i principi della Dichiarazione, intende difendere le culture e la loro espressione, specialmente quando esse siano minoritarie in una società e quindi più facilmente soggette a discriminazioni, pur nel rispetto dei diritti umani fondamentali. Evidentemente il discorso sull’universalità del diritto si applica anche in questo caso, dove non è chiaro e non è possibile definire quale sia il limite tra i due concetti di diversità o identità culturale e di diritto umano, dove non si è ancora trovato un criterio secondo il quale un diritto può essere dichiarato fondamentale e invalicabile, prevalendo quindi sulla diversità culturale e quando quest’ultima invece debba essere limitata a favore della norma internazionale285; a questo proposito, l’articolo 4 della Dichiarazione sottolinea come l’invocazione della diversità culturale non possa in alcun modo minacciare i diritti e le libertà fondamentali. Il concetto di diversità ed identità culturale si sta pian piano delineando e specificando, tuttavia non c’è ancora concordanza su un comune sentire.

La comunità musulmana, così diversa ed eterogenea, si insinua nel dibattito, sottoponendo comportamenti sociali e religiosi manifestanti un’identità culturale sicuramente diversa, talvolta rientranti in maniera chiara nella tutela della diversità culturale e dei diritti umani, talaltra

284 M. Nordio, Ambienti musulmani europei ed italiani, in Zilio Grandi (a cura di), Il dialogo delle leggi. Ordinamento giuridico italiano e tradizione giuridica islamica, pp. 113-130

74 suscitando maggiori difficoltà. In relazione alla libertà religiosa, alcune manifestazioni del credo necessitano speciali valutazioni e normative: è qui il caso della macellazione secondo il rito islamico, che prevede la recisione della gola dell’animale invocando il nome di Allah, una prescrizione religiosa che meritava un attento studio e che è stata regolata in maniera abbastanza uniforme in molti Stati europei286. Per quanto riguarda invece altre manifestazioni e pratiche religiose, quali il porto di simboli religiosi, vi è una spaccatura nella giurisdizione tra chi accetta il simbolo, tra chi lo tollera e chi lo vieta e manca un’uniforme linea di condotta da parte della comunità internazionale ed europea. La manifestazione stessa delle convinzioni risponde a esigenze spesso variegate, poiché le esperienze dei musulmani immigrati sono di natura molto diversa. Si può assistere ad un rafforzamento del senso di appartenenza e quindi del sentimento religioso, talvolta espresso con il rafforzamento di alcuni caratteri peculiari della cultura d’origine, o che diventano tali proprio nel paese ospite: è il caso del velo islamico che, grazie alla sua incontestabile visibilità, si fa portatore di un valore religioso forte, tale da superare quello che assume spesso nel paese d’origine287. Visto come un bisogno di identificazione ed espressione, per i più tradizionalisti, tale simbolo diventa addirittura un mezzo di autodeterminazione e propaganda288. Tuttavia, buona parte della popolazione musulmana immigrata vive la manifestazione delle proprie convinzioni e della propria cultura in maniera più intima e meno dimostrativa e contemporaneamente va «ad assumere modelli sociali tendenti all’integrazione289», dallo studio, al lavoro, alle abitudini della vita quotidiana. La gestione delle specificità musulmane deve essere allora condotta con estrema prudenza, evitando di regolare situazioni che potrebbero ledere principi costituzionali, ma assicurandosi di non violare o ridurre la libertà religiosa di nessuno.

286 La macellazione rituale è permessa secondo la legge in Austria, Belgio, Germania, Grecia, Olanda, Portogallo, Spagna, Svezia, Regno Unito. In Italia esisteva già un’esperienza in questa materia relativa alla macellazione secondo le disposizioni ebraiche; essa è regolata dal decreto ministeriale 11 giugno 1980, che come in altri Stati prevede che l’animale sia prima stordito. Approfondimenti in L. De Gregorio, Synoptic tables, in R. Aluffi Beck-Peccoz, G. Zincone, The Legal Treatment of Islamic Minorities in Europe, Lovanio, Peeters, 2004, pp. 312-313. Esiste inoltre una direttiva europea relativa alla protezione degli animali durante la macellazione o l'abbattimento; Direttiva 93/119/CE, 22 dicembre 1993, consultabile nella G. U. L 340, 31 dicembre 1993

287 R. Guolo, Islam e scuola pubblica: orientamenti di genitori di religione islamica in Piemonte, in Ricerche di Pedagogia e Didattica, 2009, numero 4, fascicolo 2, pp. 12-13

288 L. Musselli, Le manifestazioni di credo religioso nella realtà multiculturale italiana, in Diritto Pubblico Comparato ed Europeo, 2005, numero 1, p. 211

75 2. Il velo islamico all’esame della Corte europea dei Diritti dell’Uomo

La Corte europea dei Diritti dell’Uomo si è pronunciata su alcuni casi riguardanti la libertà religiosa, con particolare riferimento all’articolo 9 della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, nel «territorio politico-giuridico europeo290». Una sentenza che ha suscitato forte interesse e molti dibattiti, è quella relativa al caso Leyla Şahin contro la Turchia291. La richiedente, Leyla Şahin, è una studentessa dell’Università di Istanbul dove vi si iscrive il 26 agosto del 1997 per terminare i suoi studi in medicina precedentemente iniziati nell’Università di Bursa. Proveniente da una famiglia praticante la religione islamica, Leyla Şahin indossa quotidianamente il velo islamico, seguendo i precetti della propria religione. Il 23 febbraio 1998 il rettore dell’università emana una circolare292 che vieta il porto del velo alle donne e della barba agli uomini al fine si essere ammessi ai corsi ed alle attività scolastiche. Alla richiedente, la quale continua ad indossare il velo, viene negata la possibilità di iscriversi agli esami, conformemente a quanto decretato nella circolare, e, successivamente, non le è permesso accedere ai corsi universitari. Leyla Şahin decide allora di presentare un ricorso contro la circolare in quanto, seconda lei, essa viola i principi contenuti negli articoli 8, 9 e 14 della C.E.D.U. e il numero 2 del primo Protocollo addizionale. Prima il tribunale amministrativo di Istanbul, poi la Corte suprema amministrativa rigettano il ricorso in virtù della facoltà dell’amministrazione universitaria di fissare delle norme in materia di abbigliamento per il mantenimento dell’ordine pubblico. Seguono allora delle sanzioni disciplinari, che colpiscono lei ed altri studenti, e il 13 aprile 1999 Leyla Şahin viene espulsa dall’università per la durata di un semestre. Con l’introduzione della legge 4584 del 28 giugno 2000 che prevede l’amnistia delle sanzioni disciplinari contro gli studenti, la Corte suprema amministrativa rifiuta di esaminare il ricorso in virtù della cessata materia del contendere. Nel frattempo la studentessa si trasferisce all’Università di Vienna per concludere i suoi studi.

290 Cit. L. Zagato, Il volto conteso: velo islamico e diritto internazionale dei diritti umani, in Diritto immigrazione e cittadinanza, 2007, numero 2, p. 64; con questa definizione si intende includere anche lo stato turco

291 Corte EDU, 29 giugno 2004, Ric. n. 44774/98, Leila Şahin c. Turchia, consultabile al sito http://hudoc.echr.coe.int/sites/fra/pages/search.aspx?i=001-66422, visitato il 05/04/2013

292 Ibid, dal testo della sentenza, circolare del 23 febbraio 1998 : «En vertu de la Constitution, de la loi, des règlements, et conformément à la jurisprudence du Conseil d’Etat, de la Commission européenne des droits de l’homme et aux décisions adoptées par les comités administratifs des universités, les étudiantes ayant la « tête couverte » (portant le foulard islamique) et les étudiants portant la barbe (y compris les étudiants étrangers) ne doivent pas être acceptés aux cours, stages et travaux pratiques. En conséquence, le nom et le numéro des étudiantes revêtues du foulard islamique ou des étudiants barbus ne doivent pas être portés sur les listes de recensement des étudiants. Toutefois, si des étudiants dont le nom et le numéro ne figurent pas sur ces listes insistent pour assister aux travaux pratiques et entrer dans les salles de cours, il faut les avertir de la situation et, s’ils ne veulent pas sortir, il faut relever leurs noms et numéros et les informer qu’ils ne peuvent assister aux cours. S’ils persistent à ne pas vouloir sortir de la salle de cours, l’enseignant dresse un procès-verbal constatant la situation et son impossibilité de faire cours et il porte aussi d’urgence la situation à la connaissance des autorités de l’université pour sanction.»

76 La Corte EDU è chiamata a pronunciarsi sul caso quando la situazione è già stata risolta, ciononostante essa deve valutare se sussista un’interferenza da parte dell’Università di Istanbul nel diritto alla libertà religiosa, che, come si è detto, comprende anche il diritto di manifestazione del credo, se l’interferenza stessa sia legittima e se i provvedimenti presi dal rettore siano realmente necessari al fine di proteggere i valori democratici dello Stato turco. La Corte si pronuncia sull’eventuale ingerenza affermando che i provvedimenti presi costituiscono in effetti un’interferenza con l’articolo 9 della C.E.D.U., in particolare con il secondo comma293 . Ciononostante, secondo il giudizio della Corte, la legge turca prevede che qualora vi sia il pericolo di violare l’ordine pubblico ed i diritti e le altrui libertà, sia possibile porre delle limitazioni al diritto alla libertà religiosa e quindi non sussista il motivo della controversia294. Inoltre l’articolo 9, pur difendendo la manifestazione della religione in diverse forme, «ne protège toutefois pas n’importe quel acte motivé ou inspiré par une religion ou conviction295» e quindi, in una società multiculturale può rendersi necessario porre dei limiti in grado di conciliare la libertà religiosa del singolo con i principi democratici, particolarmente quelli di uguaglianza e di laicità. Infine la Corte si pronuncia sull’eventuale violazione dell’articolo 2 del Protocollo numero 1 sul diritto all’istruzione296 il cui diritto, così come quello alla libertà religiosa, non è assoluto, ma subordinato al rispetto dei diritti e delle libertà altrui, quindi, nel caso si ritenga necessario, è possibile fissare delle misure disciplinari; si deduce allora che il diritto all’istruzione di Leyla Şahin non sia stato compromesso297 e che non sussista violazione alcuna298.

La Corte di Strasburgo sostiene che nel caso le misure adottate, le quali restringono la libertà dell’individuo, siano state poste per difendere le libertà e i diritti di tutti secondo i principi democratici, esse possono essere considerate lecite. Ma ciò che viene spontaneo chiedersi è fino a che punto il porto del velo potesse mettere in pericolo gli altrui diritti. A questo proposito, lo stato turco ha giustificato la sua decisione sostenendo che il velo può essere percepito da altre donne musulmane che non portano tale indumento come simbolo di proselitismo e di coercizione nei confronti di una pratica religiosa islamica. A tale riguardo, è importante sottolineare la particolarità della storia turca in materia di libertà religiosa: l’islam è stato per lungo tempo religione di Stato in

293 Ibid, Titolo II - Sur la violation alléguée de l’article 9 de la Convention, punto A - Sur l’existence d’une ingérence, par. 71

294 Ibid, Titolo II - Sur la violation alléguée de l’article 9 de la Convention, punto B - « Prévue par la loi », par. 81 e punto C – But légitime, par. 84

295 Ibid, Titolo II, par. 66

296 V. supra, alla nota numero 225 nel par. La libertà religiosa nella Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, cap. “La libertà religiosa”, p. 60

297 Ric. n. 44774/98, Leila Şahin c. Turchia, Titolo III – Sur la violation alléguée des articles 8 et 10, de l’article 14 combiné avec l’article 9 de la convention, et de l’article 2 du protocole no 1

77 Turchia ed è con la rivoluzione kemalista che nel 1937 vengono proclamati nuovi principi fondanti della Costituzione turca tra cui troviamo quello della laicità dello Stato. Il valore della laicità è proclamato in più occasioni nel testo costituzionale, raccomandando in particolare il divieto di una qualsiasi «interferenza del sentire religioso negli affari di stato e in politica299». Inoltre, per lungo tempo è stato richiesto da parte dello Stato ai cittadini turchi di vestire con abiti religiosi e solo con la proclamazione della Repubblica turca viene abolito questo obbligo300. Tutt’oggi la Turchia rimane uno Stato a maggioranza musulmana, di qui la particolare attenzione nei confronti della manifestazione pubblica della libertà religiosa causata dal timore di una rivalsa islamica che reinstauri uno stato teocratico301.

In questo contesto, si può fare riferimento ad altri casi sollevati contro la Turchia in materia di simboli religiosi, richiamati peraltro nella sentenza Şahin contro Turchia.

Si accenna alla sentenza nei confronti della studentessa Senay Karaduman302 la quale, terminati i suoi studi universitari all’Università di Ankara al corso di farmacia, richiede un certificato provvisorio sostitutivo del diploma di laurea per il quale è necessario fornire una fototessera; la studentessa consegna all’amministrazione una foto in cui compare velata (solo in capo). Il 28 luglio 1988 le viene rifiutata la consegna del diploma a causa del velo presente nella fototessera, poiché non conforme al regolamento dell’istituto. Il 19 settembre Senay Karaduman presenta ricorso per l’annullamento della decisione dell’università, ricorso che è rigettato dal tribunale amministrativo di Ankara con la motivazione che l’università richiedeva una tenuta consona all’ambiente universitario, conforme alle norme dell’istituto stesso303, sentenza confermata dalla Corte suprema amministrativa. La questione giunge alla Commissione europea dei diritti dell’uomo304 e la richiedente denuncia una violazione degli articoli 9 e 14 della C.E.D.U.. Con argomentazioni

299 Cit. preambolo della Costituzione turca, in D. Tega, La laicità turca alla prova di Strasburgo, in Diritto Pubblico Comparato ed Europeo, 2005, numero 1, p. 290

300 L. Zagato, Il volto conteso: velo islamico e diritto internazionale dei diritti umani, p. 70

301 Si pensi ad esempio alle continue tensioni in materia di associazione politica o le recentissime proteste del 2013 302 Comm. EDU, 3 maggio 1993, Ric. n. 16278/90, Karaduman c. Turchia, consultabile al sito http://hudoc.echr.coe. int/sites/fra/pages/search.aspx?i=001-25262, visitato il 05/04/2013

303 Ibid, cit.: «…l'article 29 du règlement de l'université d'Ankara sur l'enseignement portant sur la préparation des diplômes, prévoyait qu'une photo d'identité prise conformément aux "règles de tenues" de l'université soit apposée sur le diplôme. Le tribunal observa, d'autre part, que la circulaire émise le 30 décembre 1982 par le haut conseil de l'enseignement supérieur à propos des tenues vestimentaires des étudiants de l'université, prévoyait que les étudiants devaient porter des vêtements propres, simples, bien repassés, qu'ils ne devaient rien porter sur la tête et qu'ils devaient être bien coiffés.»

304 La Commissione europea dei diritti dell’uomo costituiva, assieme alla Corte europea dei diritti dell’uomo, un organo di monitoraggio dell’attuazione della C.E.D.U.. Con la conversione della Corte in un organo permanente, la Commissione dall’ottobre 1999 non è più esistente.

78 analoghe a quelle avanzate nel caso Şahin, la Commissione dichiara l’irricevibilità della richiesta. Pressoché identico a questo è il caso di Lamiye Bulut contro la Turchia305.

Un altro caso importante sul velo islamico appare in Svizzera306. In questo caso la richiedente, Lucia Dahlab, è un insegnante di scuola primaria che nel marzo 1991 si converte all’islam, fatto che la porta ad indossare il velo quotidianamente per seguire i precetti della sua nuova religione. L’11 luglio 1996 l’insegnante viene invitata dalla direttrice dell’istituto ad abbandonare questa sua pratica in virtù dell’articolo 6 della legge sull’istruzione pubblica307 e il 26 agosto Lucia Dahlab presenta ricorso alla Corte suprema amministrativa che rigetta lo stesso il 16 ottobre, rigetto riconfermato dal Tribunale federale che motiva la sua sentenza affermando che, sebbene il porto del velo sia una pratica tutelata dal diritto di manifestare liberamente il proprio credo, questo tipo di abbigliamento è un segno religioso evidente che può influenzare le giovani coscienze di alunni delle scuole primarie, non tanto perché l’insegnante faccia azione di proselitismo, quanto piuttosto perché la stessa non si può sottrarre da riferimenti alla propria religione nel caso in cui le vengano poste delle domande dai suoi stessi alunni. Inoltre, in veste di rappresentante dell’istituzione scolastica, le sue spiegazioni risulterebbero come posizioni della scuola stessa308. Infine il tribunale constata che «le port du foulard est difficilement conciliable avec le principe de l’égalité de traitement des sexes309», principio fondante ed inderogabile dello Stato e quindi contrario ai principi democratici quali la laicità, con la conseguente neutralità dello Stato negli affari religiosi, e appunto l’uguaglianza. L’esercizio della libertà religiosa è un diritto sacrosanto dell’individuo in una società che si dichiara democratica, tuttavia esso salvaguarda ugualmente le convinzioni ateistiche, agnostiche e personali e quindi, al fine di preservare il pluralismo, può essere soggetto a delle regolamentazioni310. La Corte di Strasburgo dichiara a maggioranza il ricorso irricevibile.

È importante segnalare che il possibile impatto che il velo potrebbe rappresentare, secondo il parere della Corte, su degli alunni delle scuole primarie, velo indossato dalla loro insegnante, rispetto al

305 Comm. EDU, 3 maggio 1993, Ric. n. 18783/91, Lamiy Bulut c. Turchia, consultabile al sito http://hudoc.echr.coe.int/sites/fra/pages/search.aspx?i=001-25273, visitato il 05/04/2013

306 Corte EDU, 15 febbraio 2001, Ric. n. 42393/98, Dahlab c. Svizzera, consultabile al sito http://hudoc.echr.coe.int/sites/fra/pages/search.aspx?i=001-32006, visitato il 05/04/2013

307 Cit. art. 6 - Respect des convictions politiques et confessionnelles, della L. del cantone di Ginevra del 6 novembre 1940 sull’istruzione pubblica: «L’enseignement public garantit le respect des convictions politiques et confessionnelles des élèves et des parents.», consultabile al sito http://www.ge.ch/, visitato il 05/04/2013

308 Ric. n. 42393/98, Dahlab c. Svizzera, punto A - Les circonstances de l’espèce 309 Ibid, cit.

310 Ibid, cit.: «Elle est, dans sa dimension religieuse, l’un des éléments les plus vitaux contribuant à former l’identité des croyants et leur conception de la vie, mais elle est aussi un bien précieux pour les athées, les agnostiques, les sceptiques ou les indifférents. Il y va du pluralisme – chèrement conquis au cours des siècles – consubstantiel à pareille société. […]dans une société démocratique, où plusieurs religions coexistent au sein d’une même population, il peut se révéler