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I riflessi del dissent sul sistema complessivamente inteso: uno sguardo d

sguardo di insieme

Alla luce di quanto detto sino ad ora, appare chiaro come le ripercussioni di un’eventuale introduzione dell’opinione dissenziente, investirebbero tutti i settori dell’ordinamento e i soggetti in esso operanti. Non pare altrettanto chiaro se di tali ripercussioni prevarranno le potenzialità di segno positivo ovvero quelle di segno negativo. Si pensi all’ambito dell’attività normativa che, da un lato, riceverebbe indicazioni utili per un eventuale riesame della disciplina positiva, nella prospettiva che le decisioni del Giudice costituzionale abbiano un seguito anche

parlamentare; incorrendo, dall’altro lato, nel rischio di

strumentalizzazioni dell’attività della Corte, per la possibile ripresa e continuazione, ad opera di quest’ultima, dei temi del dibattito politico. Allo stesso modo, con riguardo alle parti processuali e ai giudici, in particolare quelli a quibus, il dissent offrirebbe loro nuove prospettazioni delle questioni affrontate, fornendo una guida per la soluzione delle successive controversie; ma, al tempo stesso, la mancanza di stabili punti

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di riferimento nella giurisprudenza costituzionale, potrebbe tradursi nella maggiore incertezza e nella continua riproposizione di aspetti identici o similari. Analogamente, l’opinione pubblica potrebbe trarne il vantaggio di una migliore conoscenza dei principi costituzionali e una maggiore attenzione verso l’attività del Giudice costituzionale, attraverso un canale istituzionale che dia voce a determinate esigenze della società civile, o di parti minoritarie di essa; con il rischio, però, che ciò si traduca in una perdita di autorità, di legittimazione o di consenso dell’organo.

È dunque evidente che il modo in cui l’istituto del dissenso inciderà all’esterno della Corte, dipenderà largamente dal comportamento che in concreto adotteranno gli organi chiamati a rapportarsi con l’attività e le funzioni del Giudice costituzionale. Mettendo allora da parte una più dettagliata ricerca, probabilmente un po’ astratta, dei riflessi che il

dissent avrebbe sul sistema, conviene, a questo punto, domandarsi se

sussistano ancora le ragioni ordinamentali che hanno finora consigliato di soprassedere alla positivizzazione dell’istituto. Senza tornare sulle vicende più risalenti, si possono sinteticamente individuare due ordini di ragioni che, negli ultimi vent’anni, hanno determinato le sorti dell’opinione dissenziente nel nostro ordinamento. Con riguardo alla proposta contenuta nel più ampio contesto della l. cost. n. 1/1997, a prevalere sono state le perplessità circa l’aumento del carico di lavoro, il maggiore tasso di politicità delle funzioni, l’affievolimento della collegialità in vista della previsione delle sezioni, la differente legittimazione dell’organo derivante dalla nuova composizione e dai nuovi meccanismi di designazione dei giudici. Tali circostanze, insieme alle inevitabili difficoltà che la Corte avrebbe incontrato sul cammino della propria ricollocazione nel sistema, hanno portato all’arresto del processo di riforma costituzionale e alla convinzione che il dissent, in quel contesto, avrebbe indebolito il ruolo e l’autorità della Corte costituzionale. In definitiva, i dubbi sull’opportunità di introdurre l’istituto

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si riferivano a quella nuova configurazione che della Corte sarebbe risultata dal contingente processo di riforma costituzionale. L’esito negativo che ha caratterizzato le successive proposte di introduzione del dissenso dei giudici costituzionali, è stato invece determinato dal più generale contesto di incertezza e frammentazione politica, in cui il nostro Paese versa da ormai un ventennio. Se possono considerarsi ormai superati problemi legati all’affermazione del ruolo e dell’autorità della Corte costituzionale, all’arretrato nel lavoro e all’esistenza di un impedimento nel principio di indipendenza dei giudici, quello che oggi diventa determinante è il rapporto tra la Corte costituzionale e il sistema politico. La pubblicità delle opinioni dissenzienti costituirebbe un fattore di aggravamento delle tensioni tra le diverse forze politiche. Una tesi siffatta muove da un duplice presupposto: per un verso, che in un sistema di pluripartitismo polarizzato, le opinioni dissenzienti agiscano come un amplificatore delle fratture ideologiche nella sfera pubblica e, per l’altro, che in un sistema bipolare imperfetto, esse siano idonee a svelare la natura profondamente politica di alcune questioni, alimentando gli scontri tra la corte costituzionale e la maggioranza di governo. Ma è un presupposto fondato? Occorre tenere presente che la costituzione italiana ammette uno spettro molto ampio di partiti nel teatro della lotta politica, dal momento che il “metodo democratico” di cui all’art. 49 Cost. è stato interpretato nel senso di escludere limiti di natura ideologico - programmatica alle associazioni partitiche, al fine di potenziare la dialettica pluralistica e la legittimazione dell’ampio arco di forze politiche che hanno sorretto il patto costituente. La costituzione conferisce quindi a tutti i partiti il diritto di sviluppare una propria visione della comunità politica e una propria interpretazione della costituzione. È vero che, in un ambiente politico fortemente conflittuale, la finzione dell’unanimità delle decisioni, viene ad assolvere lo specifico fine di proteggere la Corte dalla temuta delegittimazione che potrebbe risultare

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dalla convergenza tra spaccatura interna e polemiche esterne. Ma, alla luce di tutte le considerazioni fatte sinora, della già richiamata prassi del dissenso interno al collegio, della non poco frequente “fuga” di notizie circa le discrepanze interne, dell’importanza del ruolo che la Corte costituzionale riveste, viene da chiedersi se una Corte in grado di rendere pubblico il conflitto al suo interno e di convivere con opinioni diverse, non possa offrire un’immagine di sé più corrispondente all’alto ruolo istituzionale che occupa; e se, quindi, non sia opportuno riconsiderare, oggi, la possibilità di introdurre l’istituto dell’opinione dissenziente, la cui virtù principale resta quella di dar voce a punti di vista e interpretazioni alternative rispetto a quelle dominanti, istituzionalizzando il conflitto, promuovendo il discorso pubblico sulla costituzione e contribuendo così indirettamente alla legittimazione delle corti costituzionali e delle stesse costituzioni.

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CONCLUSIONI

Nel chiudere questo studio, in primo luogo può essere brevemente riassunto l’aspetto comparativo, sottolineando come il ricorso alle opinioni dissenzienti negli ordinamenti a tradizione di civil law è stato differente, nelle forme, nello stile, e negli effetti rispetto a quello degli ordinamenti anglosassoni: più sobrio, meno frequente, e meno legato a cambiamenti costituzionali epocali. Ma si sono osservate anche tendenze comuni, come lo stimolo all’evoluzione giurisprudenziale e legislativa, l’uso dell’argomento comparativo, il dialogo con la dottrina, il significato nello spazio pubblico. L’individuazione di una direzione condivisa, alimentata soprattutto dall’affermazione, nel corso degli anni novanta, della giustizia costituzionale, non intende tuttavia mettere in secondo piano le differenze storiche, ideologiche, istituzionali e culturali che caratterizzano i singoli ordinamenti, rendendo necessario e inevitabile un adattamento dell’istituto giuridico alle diverse esperienze giuridiche e costituzionali. Le opinioni dissenzienti appaiono infatti come una delle plurime manifestazioni del giuridico, di cui incarnano la dimensione sociale e dialettica. Un dato certamente accomuna il dissenso nelle differenti esperienze di giustizia costituzionale, permettendo di individuare le ragioni forse più profonde della sua presenza e il suo significato ultimo: la circostanza che l’opinione manifestata da uno dei componenti il collegio sia inclusa nel medesimo testo e allo stesso livello della pronuncia frutto della volontà maggioritaria diversamente orientata, sembra descrivere quell’intima dialetticità che costituisce il connotato del modo di procedere del Giudice costituzionale, e insieme la natura compromissoria delle Carte fondamentali delle moderne società pluraliste, che affidano al dinamismo della giurisprudenza costituzionale e al suo sviluppo, la loro concreta capacità di rappresentare una risposta duratura alle sempre mutevoli esigenze sociali.

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Dallo studio comparativo è emerso che sono poche le realtà che continuano a prevedere l’osservanza del più assoluto riserbo sulla deliberazione assunta in camera di consiglio. Tra queste si colloca l’ordinamento italiano, dove la sentenza del Giudice costituzionale si presenta come espressione unitaria della volontà dell’organo collegiale. L’eventualità di dotare i membri della Corte Costituzionale della facoltà di manifestare opinioni dissenzienti, è stata presa in considerazione a più riprese dal 1948, divenendo l’argomento oggetto di un vivo interesse da parte della dottrina e della stessa Corte, non solo per quanto concerne l’an, vale a dire l’opportunità o meno di una concreta positivizzazione dell’istituto, ma anche e soprattutto sul quomodo, cioè sullo strumento normativo più adatto a tale scopo. Il dibattito, in Italia, si è dipanato nel corso di più di cinquant’anni e ha risentito di volta in volta del clima culturale, delle teorie interpretative prevalenti, del rapporto della Corte con l’opinione pubblica e con le forze politiche. Le concrete proposte volte all’introduzione dell’istituto, sono giunte tutte al medesimo esito negativo, per ragioni legate, in un primo momento, all’estraneità dell’istituto alla tradizione giuridica italiana e al pregiudizio che esso avrebbe comportato per l’indipendenza dei giudici di una Corte costituzionale appena entrata in funzione e dunque ancora priva di una forte legittimazione. In un secondo momento, l’apprezzamento presso l’opinione pubblica del ruolo e dei poteri della Consulta e l’affermazione, da parte della stessa Corte, del principio secondo il quale <<nel nostro ordinamento costituzionale non esiste un nesso imprescindibile tra indipendenza del giudice e segretezza delle deliberazioni>>, portarono ad una netta prevalenza delle voci favorevoli all’introduzione dell’opinione dissenziente. E, tuttavia, il tempo non aveva completamente rimosso le preoccupazioni di una possibile strumentalizzazione dei giudici costituzionali, dei quali si temeva la manovrabilità da parte delle forze politiche. Preoccupazioni che sono aumentate nel corso degli anni, tanto

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da condizionare sia il giudizio sull’introduzione dell’opinione dissenziente nella riforma costituzionale del 1997, sia la riflessione dottrinale del decennio successivo. Il contesto politico e sociale estremamente fragile e frammentato degli ultimi anni, ha rafforzato ulteriormente l’idea secondo cui è preferibile la manifestazione unanime delle decisioni, nella prospettiva di proteggere la Corte dalla temuta delegittimazione che potrebbe risultare dalla convergenza tra spaccatura interna e polemiche esterne.

Restano tuttavia aperti, ad avviso di chi scrive, alcuni interrogativi: innanzitutto, se una Corte costituzionale capace di rendere pubblico il conflitto al suo interno e di convivere con opinioni diverse, anche al cospetto di una maggioranza politica diffidente nei suoi confronti, non possa in questo modo offrire un’immagine di sé più corrispondente all’alto ruolo istituzionale che occupa; in secondo luogo se, abbracciando l’idea della costituzione come <<organismo vivente>>, non sia da considerare positivo uno strumento, quale il dissent, in grado di attenuare il pericolo di cristallizzazioni della giurisprudenza costituzionale; infine se non sia il caso di tenere in considerazione quelle esperienze straniere in cui l’opinione dissenziente ha intensificato la deliberazione pubblica su determinati temi, anche divisivi, dando voce a punti di vista ed interpretazioni alternative rispetto a quelle dominanti e promuovendo l’idea di una cittadinanza attiva, impegnata e cooperativa.

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