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Riflessioni su un'antropologia della modernità di Georges Balandier

Gli antropologi non sono di necessità degli sprezzatori della storia e dei disertori dell’« attuale ». I più creativi, infatti, stanno cercando di stabilire dei nessi tra la loro disciplina e il loro pensiero sulla « vita moderna ». Da questa articolazione prende infatti il titolo un’opera passata inosservata di uno dei padri fondatori dell’antropologia americana, Franz Boas. In Anthro­

pology and Modem Life l’impostazione di lavoro e le implicazioni pratiche

vengono così formulate: « Mi auguro di poter dimostrare che una limpida com­ prensione dei princìpi dall’antropologia chiarisce i processi sociali del nostro tempo, e può indicarci — a patto che noi siamo pronti ad ascoltarne gli inse­ gnamenti — quel che si deve fare e quel che si deve evitare ».*

Oggi, un’antropologa notissima quale Margaret Mead prosegue nel suo indi­ rizzo scientifico di doppia lettura: dell’« attuale » attraverso la scoperta del « tradizionale », e viceversa. Il suo ultimo libro tratta infatti del divario tra le generazioni, e indica il configurarsi di una cultura inedita (chiamata « pre­ figurativa ») nella quale i giovani occupano una posizione centrale perché detengono « il nuovo sapere fondato sull’esperienza ».2

Il passaggio da una antropologia a-temporale o retrospettiva ad una antro­ pologia del presente e del futuro si è dunque compiuto.3

La stessa antropologia applicata, disciplina rimasta a lungo marginale o spuria, si trova oggi ad essere sottoposta ad impulsi che seguono lo stesso orien­ tamento e non può più rappresentare l’alibi rispettabile delle politiche di riserva indigena o di colonizzazione « razionale ». Roger Bastide, infatti, le ha conferito nuova dignità e l’ha riportata all’attualità, considerandola « come scienza teorica della pratica », in grado di studiare la pratica sociale in se stessa e la manipolazione delle « cose sociali » e delle « culture ». Così definita, l’antropologia applicata prende in considerazione i progetti d’azione (alla stregua delle altre istituzioni sociali) e le conseguenze di queste iniziative di trasfor­ mazione, e cerca di scoprire le « leggi » della transizione sociale.4 Essa, in questo modo, viene a sfociare in una concezione della società che, in certa

Articolo pubblicato in Cahiers Internationaux de Sociologie, voi. LI, 1971, con il titolo « Réflexions sur une anthropologie de la modemité», e qui tradotto con l’auto­ rizzazione dell’autore e delle Presses Universitaires de France.

misura, si può definire come generativa, così che l’opera dei pianificatori, degli innovatori, delle avanguardie si riferisce alla sua giurisdizione scientifica.

D’altra parte, se si considerano e si studiano empiricamente i problemi posti dai tentativi di modernizzazione delle società non ancora sviluppate, si giunge a delle « revisioni » dello stesso genere, mediante le quali vengono a porsi con la massima precisione, e in njodo pratico, le questioni relative alla coesi­ stenza di formazioni sociali di età differente, al passaggio da un sistema strut­ turale ad un altro; e mediante le quali ci troviamo di fronte a configurazioni che senza interruzioni sono continuamente in via di farsi e di definirsi. La loro problematica presente chiarisce quella delle società più « avanzate », e vice­ versa. In un caso, le società esprimono una rivendicazione di modernità diffi­ cile da soddisfare, nell’altro, esse subiscono un eccesso di modernità difficile da controllare. Questa constatazione obbliga a considerare entrambi i casi congiuntamente, ed a raggiungere, attraverso il confronto, una conoscenza della realtà sociale più esatta e meno influenzata dal socio-centrismo. E’ cosi più facile cogliere una « parentela » che si riferisca al modo di esistenza della società, alle condizioni e limitazioni che la società affronta per costruirsi, man­ tenersi, reagire agli assalti imposti dall’esterno (gli ambienti circostanti) e dal corso del tempo.I. * 3 * *

Un tale procedimento contribuisce a porre le basi per un progetto d’elabo­ razione di una antropologia (nel senso pieno del termine) della modernità.

I. Problem i di « intestazione »

Dalle bibliografie che registrano l’inventario delle pubblicazioni più recenti nel campo delle scienze sociali, vediamo che buona parte di esse sono dedicate ai temi della «modernizzazione» e, più raramente, della «m odernità».6 L’ab­ bondanza degli studi, però, non contribuisce per il momento a un chiarimento dei dibattiti in proposito, se non altro a causa della frequente confusione nell’uso dei due termini. In alcuni casi, la differenza tra le due nozioni consiste in uno stato (o insieme di caratteristiche) e nei mezzi (o processi) che permet­ tono di giungere a quest’ultimo. Il termine modernità è in questo caso utilizzato « per descrivere le caratteristiche comuni ai paesi più avanzati in fatto di sviluppo tecnologico, politico, economico e sociale »; mentre il termine moder­ nizzazione vale a « descrivere i processi mediante i quali esse (caratteristiche) vengono ad essere acquisite »? In tal modo, nella misura in cui si postula una sola forma di modernità, a determinate società viene attribuito il mono­ polio dell’innovazione, del cambiamento cumulativo e autogenerato, ed infine dell’iniziativa storica. Questo punto di vista è sostenuto da Eisenstadt senza ambiguità: « Storicamente, la modernizzazione è il processo di cambiamento in direzione di quei tipi di sistemi sociali, economici e politici che si sono

sviluppati nell’Europa occidentale e nell’America del Nord a partire dal XVII secolo fino al XIX, e in seguito si sono sparsi in altri paesi ».8 La moder­ nità è vista come l’insieme dei tentativi (e delle « aspirazioni » ad essi sottese) che mirano alla realizzazione di questi modelli « occidentali »; e anche — con meno spirito di parte — come la possibilità di elaborare delle strutture istitu­ zionali capaci di assorbire cambiamenti numerosi, cumulati, durevoli. Questa impostazione porta a considerare dall’unico punto di vista della ripetizione le società inegualmente o diversamente sviluppate. Le società predominanti si presentano come modello universale della modernità, come esempio che deve essere riprodotto senza fine, il che le autorizza a pretendere di essere conti­ nuamente « avanzate ».

Netti e Robertson, nel loro tentativo di considerare la modernizzazione in riferimento ai sistemi internazionali (introducendo quindi degli elementi di confronto), giungono ad una posizione più critica.9 Essi constatano che le nozioni di modernità e di modernizzazione soffrono di « tre deficienze princi­ pali»: sono confuse e imprecise, comportano delle implicazioni ideologiche, incitano a postulare uno « stato finale » definito in un unico modo (la ver­ sione « occidentale »). Essi precisano che i due termini sono relativi, che per lo studio di ogni singolo caso richiedono di essere posti in relazione con altre società, che riconducono agli effetti dei rapporti e delle competizioni tra società diverse, cioè a quell’ordine di fenomeni che ho indicato con la formula « dina­ mica dall’esterno». La quale ultima diventa in questo modo uno dei principali agenti provocatori di modernità.

Gli antropologi, per il fatto che di necessità focalizzano le loro ricerche sulla ricognizione ed elucidazione delle differenze in materia di formazioni sociali e di ordinamenti culturali, portano un utile contributo alla soluzione di questi problemi di titolo e di definizione. Per Stewart il termine moderniz­ zazione è « neutro » : non indica necessariamente uno stato di cose superiore; ha una connotazione « evoluzionaria » nel senso che « le strutture e i modelli fondamentali sono qualitativamente alterati » (il carattere di cambiamento

qualitativo è quindi sottolineato); ma ancora vale ad « indicare le trasforma­

zioni socio-culturali risultanti dai fattori e processi peculiari del mondo indu­ striale contemporaneo ».10 E tutto questo come se i fenomeni ai quali si rife­ risce non avessero dei precedenti! Per altri antropologi il dibattito — in ma­ niera teoricamente più pertinente — rimanda alla dialettica della continuità (chiamata in causa sotto il titolo di tradizione) e della discontinuità. La moder­ nità e la tradizione, in tale contesto, non risultano più come radicalmente contraddittorie. L. e S. Rudolph rifiutano 1’« equazione » troppo facile in base alla quale « il moderno » è uguale a 1’« occidentale », e che si limita a fornire ogni assicurazione circa il « carattere irripetibile delle realizzazioni occiden­ tali » (thè uniqueness of thè Western achievement). Questi autori affrontano la questione della modernità partendo dalle configurazioni latenti presenti in

ogni società, da ciò che essi chiamano « potenzialità alternative » esistenti in ogni sistema sociale; in determinate « condizioni storiche, tali alternative pos­ sono diventare la fonte di identità, di strutture e norme nuove o trasformate ».“ La modernità viene in questo caso associata al potenziale, alle eventualità pos­ sibili, alle scelte che la società deve costantemente effettuare per farsi e per

definirsi. ,

Gli antropologi e gli storici — in altre parole, gli specialisti delle differenze espresse nello spazio e/o nel tempo — vengono sempre più frequentemente chiamati alla riscossa dagli interpreti più modernisti della società considerate maggiormente « avanzate ». Mac Luhan ha passato in rassegna, spesso in chiave sensazionale, le conseguenze del nostro ingresso nell’era elettronica (o « tecne- tronica », secondo la sua espressione). Il globo è diventato un gigantesco « villaggio », l’avvenimento e l’informazione ricevuta istantaneamente domi­ nano le coscienze, i media provocano un ritorno all’« orale », mentre il libro e la razionalità che esso comporta cadono nell’obsolescenza; l’apprendi­ mento delle nuove conoscenze diventa un impegno permanente, ecc., ecc. I re­ cinti e le separazioni (i « muri ») cadono in pezzi in ogni campo. Gli uomini contemporanei penetrano — senza esservi preparati — nell’inedito, nel non­ ripetitivo: sono « degli idioti nei riguardi della nuova situazione », traditi dalle loro parole, dai loro pensieri, che « si riportano all’esistente anteriore, non al presente ».12 Ne consegue l’impegno ineluttabile di procedere a nuove esplorazioni. E a questo compito gli antropologi sono invitati a partecipare, in quanto tecnici che studiano le culture sconosciute o mal conosciute, le totalità culturali e quei sistemi di pensiero nei quali 1’« oralità » (associata a una visione globale) non ha ancora ceduto il passo ai procedimenti analitici. Come è dimo­ strato dalla loro partecipazione alle « verbi-voco-visual explorations »,13 alcuni di essi hanno risposto all’appello.

Queste considerazioni ci avvicinano ad una interpretazione della modernità che, pur essendo provvisoria, è più soddisfacente. Ci portano infatti a diffe­ renziarla da quei cambiamenti cumulati, irreversibili, che in qualche modo assicurano la realizzazione e la crescita dei sistemi sociali e culturali, la cui interpretazione spesso viene effettuata per analogia con le tappe (o fasi) di crescenza manifeste negli organismi.14 La modernità non si presenta più come un « tirocinio » inevitabile, e se ne afferra il concetto piuttosto considerandolo sotto l’aspetto di « un tentativo in direzione di... », di un processo qualitativo di cambiamento, d’una scelta tra delle alternative o dei « possibili », gli uni e le altre trovandosi ad essere fattori interni ed esterni allo stesso tempo. Attraverso la modernità così intesa, vien posto l’accento sia sul ruolo della libertà e del « volontarismo sociale », sia sulla necessità di una concezione « generativa » delle formazioni sociali. Qualsiasi interrogativo sulla moder­ nità — e non nell’unico caso delle società cosidette avanzate — ci porta a met­

tere in discussione ciò che appare autenticamente nuovo, ciò che è la causa per cui le società producono il loro medesimo spaesamento.

Quest’ultimo termine basterebbe da solo a giustificare il ricorso all’antropo­ logia, nella misura in cui tale disciplina è stata rozzamente definita in base al fatto di avere trasformato in pratica scientifica le modalità del decentramento, la conoscenza di ciò che è culturalmente distante. Le mutazioni attualmente operanti in tutte le società fanno sì che queste ultime, al momento in cui deten­ gono i mezzi di esser meglio informate le une delle altre e di conoscersi meglio, secernono nel loro proprio seno l’elemento esotico (o « spaesante »). Abbiamo già notato come la nostra antropologia informi sia la conoscenza attuale che la prospettiva da noi elaborata a proposito delle nostre società.15 L’osservazione, generalizzandosi, si banalizza; è ciò che Mac Luhan esprime attraverso una formula: « Nel nostro nuovo mondo elettrico ci muoviamo con lo stesso imba­ razzo con cui l’indigeno si impegna nella nostra cultura libresca e meccanica ».16 Nel suo studio sulla grande transizione, sulla « rivoluzione tecnetronica », Brzezinski arriva a una conclusione analoga: « E’ come se la vita perdesse parte della sua coerenza... Tutto sembra più passeggero ed effimero: la realtà esterna appare più fluida che solida, l’uomo più sintetico che autentico ».17 E molto giustamente Margaret Mead paragona l’impegno verso questa nostra epoca alle imprese dei pionieri di un tempo: « Oggi, chiunque sia nato e si sia formato prima della seconda guerra mondiale somiglia ad un immigrante nel tempo — così come i suoi antenati lo furono nello spazio — alle prese con condizioni sconosciute di esistenza in una età nuova ».18

Vi sono altre ragioni supplementari da tenere in considerazione. Gli antro- pologi hanno potuto affermare che, anche se le società (e le culture) oggetto delle loro osservazioni hanno ciascuna una personalità, tutte ricadono nella monotonia (la banalizzazione) quando si degrada il loro ordine tradizionale. In sostanza, ci sarebbe un solo tipo di morte culturale: espressione che ha avuto presa sugli animi nostalgici orientati verso il passato. Pare più legittimo dire che nei periodi decisivi — quelli nel corso dei quali i problemi permanenti di costruzione e di definizione delle società si pongono con precisione acuta, senza possibilità di eluderli — le società si trovano di fronte a sfide della stessa natura. E queste ultime sono tali, per numero e per intensità, che le società sono propriamente impegnate in una sorta di « nuovi inizi » : esse affrontano determinate difficoltà comparabili, producendo determinate risposte che si somigliano. In questo senso, una antropologia e una sociologia che si vogliano decisamente attuali, non hanno altra possibilità che la coalizione dei loro tentativi. Nella misura in cui la prima disciplina è stata meglio preparata a interpretare il significato delle culture, a porre in evidenza ciò che si rife­ risce alla qualità nell’orientamento dei rapporti sociali, essa è non soltanto necessaria, ma anche prioritaria.

Vi è anche un’altra ragione, di portata più limitata, in quanto riguarda le sole società cosidette avanzate. Il riferimento antropologico e il ricorso ai modelli propri delle società considerate più « autentiche » (una qualità oggetto di reverenza da parte degli antropologi integralisti o di stretta osservanza), diventano uno dei mezzi della critica sociale; qualche volta fino al punto estremo in cui si trovano a dover produrre una specie di colpevolezza collet­ tiva « bianca ». In precedenza, e in altra sede, abbiamo già segnalato questo tipo di contestazione.19 Nel caso delle società ricche, il ricorso alla contro­

modernità si diffonde in quanto modo di protesta non rivoluzionario (nel

senso classico di questo aggettivo). Esso si manifesta attraverso la risorgenza, più o meno artificiale e più o meno precaria, di forme « arcaiche » dell’esi­ stenza sociale. Tutte le manifestazioni che contribuiscono a far emergere delle « culture alternative » e/o delle « contro-culture », in maggiore o minore grado mostrano questo processo. Vengono esaltati valori utopistici e immaginari, e le rivendicazioni di tipo esistenziale sopraffanno quelle che eravamo abituati a chiamare razionali. Una situazione vista da Roszak come « la matrice nella quale un futuro alternativo, ma ancora fragile, sta prendendo forma », facendo ricorso a numerose « fonti esotiche a.20

Lo studio dei fenomeni designati con il termine di modernità, non risulta semplicemente da una moda, ma risponde ad una necessità immediata. Tutte le società attuali — e per la prima volta tutte nello stesso tempo — devono risolvere i problemi che nascono da queste mutazioni; la sfida è dunque pratica, ed ha l’aspetto di una prova globale o totale, che a volte può provo­ care risposte «totalitarie». Le scienze sociali devono considerare questo pro­ blema dell’irruzione dell’inedito, delle alternative radicalmente nuove, delle discontinuità: la sfida è dunque teorica. Nella misura in cui l’antropologia vuol dare di sé un’immagine globale, differenziata da procedimenti più anali­ tici, essa può contribuire ad una migliore definizione e ad una conoscenza in profondità della modernità stessa. II.

II. Crisi pratiche e teoriche della modernità

Le crisi del primo tipo — stando alle interpretazioni superficiali >— sono gene­ ralmente associate all’accelerazione dei cambiamenti, dei processi che normal­ mente regolano la vita delle società, per cui si verifica un fenomeno di appiat­ timento nel tempo e la coesistenza di formazioni sociali e culturali d’età diffe­ rente si effettua in modo più rapido, diventando più evidente e problematica. In tali condizioni — le quali provocano una sorta di esasperazione della norma­ lità — la società si dimostra in maggior misura quale essa veramente è nella sua realtà profonda. Non può più essere intesa, infatti, come un insieme (un tutto) unificato, semplicemente definibile mediante un tipo sociologico (nel

senso del « tipo ideale » di Max Weber) o un regime (secondo le qualificazioni dei politicologi e degli economisti); la si vede invece come più eterogenea, pluralista e in movimento. In certo modo, all’acculturazione che regola i rap­ porti stabiliti nello spazio tra società e culture differenti, si aggiunge Yaccultu-

razione nel tempo, risultante dalla coesistenza più rapida dei rapporti sociali

e delle configurazioni culturali di età differente.

In questa situazione, il riferimento con altri gruppi sociali è sentito come ambiguo o privo di significato. E gli attori sociali definiscono con più diffi­ coltà le loro funzioni e il loro ruolo. Sia le reazioni che le opposizioni sono assai diversificate: abbiamo il rifiuto totale del « sistema », espresso sia me­ diante la violenza (alla quale per se stessa si attribuiscono virtù di salvazione), sia mediante il « ritiratismo » (modo di vivere fuori del mondo moderno); abbiamo l’esaltazione della spontaneità in opposizione alle istituzioni « repres­ sive »; abbiamo il conflitto tra generazioni che tendono a trasformarsi in classi politiche; abbiamo il confronto tra i volontaristi sociali, che esprimono una esigenza rivoluzionaria, o radicalmente riformista, e gli strati sociali che formu­ lano soltanto delle rivendicazioni « quantitative », ecc., ecc. I movimenti con­ testatari di oggi attaccano il sistema di produzione dei poteri, dei segni e dei « discorsi » esattamente come attaccano il sistema capitalista di produzione di cose. La contestazione è globale, la creatività viene opposta alla produ­ zione, il significato alla potenza, la qualità alla quantità (vista sotto la sua forma economica o « materialista », come spesso viene precisato). Nel suo studio sull’ideologia dei giovani « radicali » americani, Keniston sottolinea il « disgusto » di fronte alle nozioni di quantità, e il rifiuto dell’uniformità, della banalizzazione; la richiesta del diritto alla qualità si accompagna alla richiesta del diritto alla differenza.21

Il fatto che le attuali crisi della modernità si esprimano, almeno in parte, con questo linguaggio, viene riconosciuto dagli stessi teorici della società « tecnetronica », che non possono eludere il problema della significanza. Così Brzezinski constata che, nella parte più avanzata del mondo, la tensione tra l’uomo « interiore » e l’uomo « esteriore » suscita una crisi acuta dell’« identità filosofica, religiosa e psichica».22 E infatti i lavori che si riferiscono alla « ricerca dell’identità » rappresentano una parte importante della attività degli scienziati sociali americani. Si deve anche ricordare l’attenzione prestata ai

livelli di coscienza che determinano una capacità più o meno adeguata di

afferrare le realtà di oggi, per cui il concetto di livello di coscienza è visto come una « configurazione » che modella, in ogni individuo, la percezione globale della realtà. Charles Reich, nel suo ormai celebre The Greening of

America, propone una interpretazione della « rivoluzione » in atto negli Stati

Uniti centrata sull’individuo e la cultura — e in ultimo luogo sulla politica. Egli si basa sulla definizione di tre livelli di coscienza: (1) il punto di vista « tradizionale », che non ha più alcuna presa sul reale, quale si è venuto

formando nel corso del XIX secolo; (2) la configurazione mentale e i valori associati a una società industriale fortemente organizzata, quali si sono deli­ neati nella prima metà di questo secolo; (3) la percezione globale elaborata dalle nuove generazioni: essa si va appena profilando ed ha ancora l’aspetto di un « codice segreto indecifrabile »P Si tratta di una constatazione (presen­ tata « senza pretesa scientifica ») ctje non si applica soltanto al caso americano. Nei periodi in cui il processo storico subisce — secondo l’espressione di J. Bur- ckardt — « una terribile accelerazione » le modalità di esistenza della società si fanno più chiare, e si moltiplicano gli elementi rivelatori della sua vera natura. Per così dire, la storia si toglie allora la maschera.

L’utilità del procedimento antropologico comincia a precisarsi in relazione a questo primo gruppo di considerazioni. Esso infatti fornisce non solo una possibilità globale di percezione, che restituisce tutta la loro complessità ai rapporti tra infrastrutture e sovrastrutture, tra realtà sociale e forme della