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Centro sociale A.19 n.106-108. La modernizzazione

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Academic year: 2021

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106-108

“ Centro Sociale”

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Centro Sociale

P erio d ico b im e s tra le d el C en tro d i E d ucazione P ro fe ssio n a le p e r A s s is te n ti S o ciali (CEPAS) - U n iv e rs ità d i R om a

C om itato scientifico

A. Ardigò, Istituto di Sociologìa, Università di Bologna - G. Balandier, Sorbonne, Ecole Pratique des Hautes Etudes, Paris - R. Bauer, Società Umanitaria, Milano - L. Benevolo, Facoltà di Architettura, Università di Venezia - M. Berry, International Federation of Settlements, New York - F. Botts, FAO, Roma - G. Calogero, Istituto di Filosofia, Università di Roma - M. Calogero Comandini, CEPAS, Roma - V. Casaro, Ministero Pubblica Istruzione, Roma - G. Cigliano, Istituto Sviluppo Edilizia Sociale. Roma - E. Clunies-Ross, Institute of Education, University of London - H. Desroche, Sorbonne, Ecole Pratique des Hautes Etudes, Paris - /. Dumazedier, Centre National de la Recherche Scientifique, Paris - A. Dunham, School of Social Work (Emeritus), University of Michigan - M. Fichera, Fondazione « A. Olivetti », Roma - E. Hytten, Div. Social Affairs, UN, Geneva - F. Lombardi, Istituto dì Filosofia, Università di Roma - E. Lopes Cardozo, State University of Utrecht - A. Meister, Sorbonne, Ecole Pratique des Hautes Etudes, Paris - L. Miniclier, International Cooperation Administration, Washington - G. Molino, Amministrazione Attività Assistenziali Italiane e Internazionali, Roma - G. Motta, Fondazione « A. Olivetti », Ivrea - R. Nisbet, Dept, of Sociology, University of California - C. Pellizzi, Istituto di Sociologia, Università di Firenze - E. Pusic, Faculty of Law, University of Zagreb - L. Quaroni, Facoltà di Architettura, Università di Roma - Ai. G. Ross, University of Toronto - M. Rossi-Doria, Osservatorio di Economia Agraria, Università di Napoli - U. Serafini, Presidenza Consiglio Comuni d’Europa, Roma - M. Smith, London Council of Social Service - /. Spencer, Dept, of Social Work, University of Edinburgh - A. Todisco, Fondazione « A. Olivetti », Ivrea - A. Visalberghi, Istituto di Filosofia, Università di Roma - P. Volponi, Fondazione « A. Olivetti », Ivrea - E. de Vries, Institute of Social Studies (Emeritus), The Hague - A. Zucconi, CEPAS, Roma.

C om itato d i re d a z io n e

Adele Antonangeli Marino — Elisa Calzavara — Teresa Ciolfi Ossicini — Egisto Fatarella — Velelia Massaccesi — Giuliana Milana Lisa — Laura Sasso Calogero.

Dirett. responsabile: Anna Maria Levi - Segret. di redazione: Ernesta Rogers Vaeea Direz. redaz. amministraz. piazza Cavalieri di Malta, 2 - 00153 Roma - tei. 573.455

Prezzi dal 1973:

Abbonamento a 6 numeri annuì L. 4.800 — estero L. 6.500 — un numero L. 900; arretrati il doppio — spedizione in abbonamento postale gruppo IV - c. c. postale n. 1/20100. —

Prezzo di questo fascicolo L. 2.400.

Una volta all’anno Centro Sociale pubblica un volume in edizione internazionale dedicato a pro­ blemi di sviluppo socio-economico dal titolo International Review of Community Development.

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i

Centro Sociale

scienze sociali - servizio sociale - educazione degli adulti sviluppo di comunità

anno XIX, n. 106 -108, dicembre 1972

Sommario

L a m o dernizzazione

a cura di Ellen B. Hill

O. Fals Borda 3 Prefazione

E. B. Hill 5 Introduzione: la modernizzazione al bivio

I. Impostazioni teoriche Il punto di vista classico

S. N. Eisenstadt 15 Situazioni di crisi dello sviluppo e situazioni di crescita sostenuta

E. Shils 49 Lo sviluppo politico degli stati nuovi. La volontà di essere moderni

Contributi dell'antropologia e dell'economia G. Balandier 79 Riflessioni su un’antropologia della modernità

D. M. Ray 93 Ruolo dell’ideologia nello sviluppo economico

Critiche di metodo e dal punto di vista culturale

J. R. Gusfield 107 Tradizione e modernità: un’antitesi malposta nello studio del cambiamento

G. B. Stephenson 125 Tutti moderni ? Critiche e suggerimenti per la misurazione del modernismo

H. N. Gardezi

e G. S. Basran 141 Analisi critica delle prospettive teoriche occidentali sul cam­biamento culturale

II. Studi applicati

A. Inkeles 153 Influenze modernizzanti: cause e conseguenze del cambia­ mento individuale in sei paesi in via di sviluppo

W. H. Form 173 L’adattamento degli operai urbani e rurali alla disciplina industriale e alla vita di città.

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193 R eoensioni

C. Tullio-Altan, Manuale di antropologia culturale. Storia

e metodo (A. Signorelli D’Ayala); M. Barbagli (a cura di), Scuola, potere, ideologia (S. Meghnagi); C. Lacey, Hightown Grommar: The School as a Social System (E. Rogers Vacca);

L. Benadussi e V. Chimenz Di Giacomo, Scuola e parteci­

pazione di base. Il servizio sociale in campo scolastico nella prospettiva dell’unità locale dei servizi (S. Meghnagi);

G. Bonazzi, A. Bagnasco, S. Casillo, Industria e potere. L’or­

ganizzazione della marginalità in una provincia meridionale

(M. Marchioni).

2 1 1 Segnalazioni

A cura di E. Calzavara, T. Ciolfi Ossicini, S. Meghnagi, E. Rogers Vacca.

239 Doenmenti

Tesi discusse al CEPAS dal novembre 1971 al dicembre 1972,

a cura di T. Ciolfi Ossicini e E. Rogers Vacca.

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Prefazione

di Orlando Fais Borda

Gli studiosi di scienze sociali del Terzo Mondo, raggiunta una maggior consa­ pevolezza delle proprie potenzialità, e delle possibilità di sviluppo delle società cui appartengono, si trovano oggi ad essere in una posizione sempre più critica nei confronti delle teorie sociali in voga, e in particolare di quelle sorte negli ambienti intellettuali delle nazioni avanzate. Di queste teorie, quella che in questi ultimi dieci anni è stata più ampiamente criticata, è la teoria della « mo­ dernizzazione ». La giustificata ribellione contro la concezione di una scienza

« libera da valori », e il riconoscimento di elementi ideologici nel lavoro scien­

tifico, ha distrutto i vecchi miti dell’obiettività e della neutralità, coinvolgendo nel suo moto anche la teoria della modernizzazione. Come è ora evidente, ciò che è stato inteso come moderno può essere il risultato di un’idea preconcetta di imitazione di chi detiene il potere. Idea che ha gravi conseguenze sul piano economico, sul piano della dominazione politica, e che sul piano intellettuale e tecnico può condurre ad una forma di sottomissione e sterilità da parte degli sfruttati e dominati.

Si tratta di gravi perplessità che sono emerse in tutta la loro urgenza nel corso del V II Congresso Mondiale di Sociologia tenuto a Varna, in Bulgaria, nel settembre del 1970. Nel Gruppo di Lavoro n. 6, concentrato sulla « Moder­ nizzazione e diffusione delle innovazioni », vennero studiate e criticate varie comunicazioni dal punto di vista dei valori, considerati nella loro relatività. Il concetto centrale, così come era presentato, implicava che le società sotto- sviluppate si sarebbero evolute verso l’imitazione dei modelli di vita e delle tecniche delle nazioni dominanti. Una distorsione che, naturalmente, non per­ metteva l’esame di altre dimensioni pertinenti del mutamento sociale, come ad esempio l’instaurarsi di politiche colonialiste, di zone di influenza e di mercati monopolizzati nei paesi dipendenti, argomenti che sono di estrema importanza ai fini dell’auto-determinazione e dell’autonomia di enormi aree del mondo.

Il nostro problema è stato illustrato, nel corso del Congresso, da studi sul­ l'industrializzazione in quanto processo di modernizzazione in vari paesi, e da altri di argomenti relativi come la burocrazia, l’integrazione, l’adattamento. Queste interessanti monografie, caratterizzate da sottigliezza metodologica e dall’esigenza di trasformare la sociologia in una scienza prognostica, hanno indubbiamente dato luogo a discussioni animate. Tuttavia — e questo è tipico —

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il problema dei fini, sia in sociologia che nelle società studiate è stato del tutto evitato. La sensazione era che le mete della modernizzazione e gli atteggia­ menti che le sostengono, il significato dei processi sociali e le cause di conflitto nella modernizzazione non venissero adeguatamente discussi.

Una situazione del genere indicava chiaramente il bisogno di rimettere a fuoco il concetto stesso, in quanto poteva in effetti condurre ad una tautologia nelle scienze sociali. Era anche ormai chiaro che il concetto, così come usato, tendeva a difendere la causa di trasformazioni evolutive, mentre sono invece necessarie misure più radicali nella società.

Da parte del Gruppo fu quindi avanzata la raccomandazione che il concetto di modernizzazione venisse abbandonato come strumento euristico, per ritor­ nare al concetto più classico di « processo del mutamento sociale ». Per questo fine, si disse, questo rinnovato concetto di processo del mutamento sociale dovrebbe più chiaramente comprendere insieme la prospettiva diacronica e quella sincronica, specificando la natura e le caratteristiche del processo stesso. Questo concetto potrebbe quindi coprire tutta la gamma di cambiamenti che va da « sviluppo » a « rivolta », sia nel presente che nel passato, e in varie regioni interdipendenti del mondo.

Nell’appoggiare questa iniziativa, la Associazione Internazionale di Socio­ logia autorizzò, nel 1971 l’istituzione di un nuovo Comitato di Ricerca sui

« Processi innovativi nel cambiamento sociale », che da poco ha eletto il suo

direttivo ed ha iniziato l’elaborazione di un piano di lavoro. Sociologi di diverse provenienze partecipano a questo sforzo per comprendere meglio le conseguenze dei processi di cambiamento sociale odierni, senza le distorsioni implicite nella dicotomia tradizionale-moderno.

Uno sviluppo importante di questa iniziativa è dato dal presente volume monografico di Centro Sociale, che raccoglie vari articoli sull’argomento. Si spera che in tal modo sia possibile porre in una certa prospettiva gli elementi fondamentali della modernizzazione, e che da parte sua il Comitato prosegua nella sua impresa di stimolare nuove ricerche sui processi innovativi nel muta­ mento sociale. L ’importanza di questo lavoro è evidente, poiché una nuova messa a punto del concetto di modernizzazione potrà condurre a nuovi punti di vista sui problemi sociali e politici che affliggono le società in via di sviluppo. Potrà anche stimolare un esame di coscienza da parte delle nazioni più avan­ zate, mentre tentano di concretare certe politiche di portata mondiale. Il lavoro del Comitato, ed il presente volume, hanno quindi un loro chiaro ruolo da svolgere presso gli scienziati sociali e in tutte le società.

Bogotà, giugno 1972.

Or la n d o Fa l s Borda

Presidente del Comitato di Ricerca

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Introduzione: la modernizzazione al bivio

di Ellen B. Hill

Non più di una generazione fa non vi erano scienziati né persone colte che ponessero in dubbio l’idea di Progresso, applicazione della teoria dell’evoluzione alle cose umane che a sua volta rifletteva un’impostazione « scientifica » della storia, tipica del XIX secolo, e nata in quel secolo stesso.

Il divertito distacco con cui noi guardiamo a questa interpretazione meccani- cistica delle leggi scientifiche — e che è diventato oggi quasi la pietra di para­ gone della raffinatezza intellettuale — non è in realtà così divertente come sembrerebbe a prima vista. Siamo infatti portati a dimenticare che nel frattempo la razionalità ci ha sopraffatto con le sue limitazioni strutturali, mentre retro­ spettivamente quella cieca fiducia in una interpretazione teleologica del mondo diventava un’immagine romantica.

E’ vero che credere nel Progresso significa credere che i cambiamenti avvenuti nel passato siano stati tutti per il meglio, e ogni cambiamento sia di necessità un miglioramento. Anche se è chiaro che, purtroppo, le cose non stanno così, non si può contestare né a fil di logica né in pratica che un numero sempre crescente di individui desidera sempre di più che le cose cambino, e ciò perché ormai generalmente si ritiene che il cambiamento non sia dovuto a forze ano­ nime, ma che si produca piuttosto in ragione delle aspirazioni di coloro che desiderano cambiare. Almeno nel mondo occidentale — che oggi significa una condizione di consapevolezza più che una condizione determinata da una situa­ zione geografica — si ritiene attualmente che sia possibile dare una direzione al cambiamento, se non addirittura indurlo secondo un piano prestabilito.

Anche ammettendo la possibilità di un cambiamento indotto o guidato, resta però sempre aperta la questione principale, e cioè da chi venga decisa la direzione del cambiamento stesso: questione che è particolarmente rilevante in una società di massa e tecnologica, nella quale, come spesso si è ripetuto, esiste il rischio che cosiddetti « tecnici sociali » finiscano col prendere in mano le redini della situazione e col rappresentare gli interessi di un settore soltanto della società, anziché operare a beneficio della società nel suo com­ plesso. Inoltre, a parte le perplessità che derivano da questa eventualità nei confronti della libertà dell’individuo e dei diritti dei vari gruppi, la stessa tecnologia e lo stesso sviluppo sono stati attaccati da critiche, particolarmente

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da parte degli ecologi, alcuni dei quali giungono perfino ad auspicare un com­ pleto arresto della ricerca scientifica.

Questi problemi, e molti altri connessi alla crescita e allo sviluppo, sono ben noti: in particolare una idea è divenuta particolarmente controversa, e cioè quella di Modernizzazione — vale a dire del cambiamento sociale verso un modo di vita occidentale —, la quale, almeno all’inizio della Prima Decade dello Sviluppo delle Nazioni Unite nel 1960, era stata praticamente assunta quale articolo di fede, unico mezzo per raggiungere la giustizia sociale su scala mondiale. Di tale controversia, divenuta un vero e proprio conflitto ideologico, non si devono sottovalutare le possibili conseguenze. Ci è dunque sembrato che definire da capo e chiarire la portata di questo termine può essere utile, nella prospettiva dei mutamenti specifici cui vanno incontro in un modo o nell altro tutte le aree in via di sviluppo, con o senza assistenza, e indipendente­ mente dai diversi tipi di meccanismi — anch’essi altrettanto controversi — che possono operare in maniera predominante nell’uno o nell’altro caso specifico.

Il termine Modemizzatore riflette le dinamiche del cambiamento sociale, così come un tempo le idee di Evoluzione e Progresso, salvo che l’accento è ora posto sullo Sviluppo: cioè, implicitamente, sullo sviluppo economico e tecno­ logico, poiché queste sono considerate le basi di una società moderna. La crescita economica, infatti, era sembrata — se non la sola aspirazione — la prima e necessaria condizione delle caratteristiche modernizzanti, così come era stata la prima ad essere analizzata e misurata nel confronto tra i risultati raggiunti da società diverse. Nello stadio di concettualizzazione successivo, era apparso evidente che comportamento economico e comportamento non econo­ mico sono strettamente interconnessi, e si era scoperto anche che lo sviluppo economico richiede l’esistenza di certi valori sociali condivisi, allo stesso modo con cui, già nella tradizione classica delle scienze sociali, era accettato che il comportamento sociale è influenzato dalle condizioni economiche e tecnolo­ giche. Daniel Lerner, nel suo autorevole saggio sugli aspetti sociali della moder­ nizzazione, poteva cosi formulare un elenco di cinque criteri di modernità, sui quali si troverebbero d’accordo anche altri studiosi, e cioè: crescita econo­ mica auto-sostenuta, possibilità di mobilità sociale e psicologica, partecipa­ zione pubblica nella decisione di scelte politiche, norme culturali razionali, cambiamento della personalità individuale in direzione dcW achievement.1

Anche se in realtà gli esperti non sono affatto d’accordo su quali siano le componenti necessarie della modernizzazione, alcune sono così ovvie da non esser ormai più poste in discussione. Gli indici economici, in quanto sono più facilmente misurabili, raramente vengono criticati; gli indici sociali sono meno convincenti, e anche molto più difficili da valutare nel loro effetto cumulativo. Ormai da anni si sono costruiti ed usati indicatori sociali, ma la loro validità

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è da considerarsi ancora in realtà incerta, anche se sono indubbiamente utili se non per fare previsioni sullo sviluppo, quanto meno per spiegarlo.

Fissati in ogni modo dei criteri, sorge il problema di come metterli in atto. Una pianificazione razionale delle linee direttive, così come era stata all’inizio elaborata nelle nazioni sviluppate, è stata adottata senza grandi interrogativi dalle nazioni in via di sviluppo, alla stregua di un metodo di cambiamento. In pratica, l’applicazione del metodo si è dimostrata infinitamente più diffi­ cile di quanto non si fosse immaginato. Intanto, quando ancora ci si aspettava che la pianificazione economica potesse di per sé condurre ad un aumento del tenore di vita, le difficoltà politiche e tecniche vennero enormemente sotto- valutate. Si pensava che le stesse strutture economiche che avevano richiesto secoli per svilupparsi nel mondo occidentale potessero essere realizzate nelle nazioni in via di sviluppo in tempi brevissimi, mentre nello stesso tempo, a loro volta, le nazioni sviluppate non si erano certo arrestate nella loro crescita. D’altra parte, direttive pratiche per promuovere lo sviluppo derivante dalla esperienza non ne esistono, perché si tratta di una situazione senza precedenti. Di più, si è dovuto riconoscere che quand’anche si fossero identificate le com­ ponenti essenziali dei processi di modernizzazione, così come hanno avuto luogo in passato o hanno luogo al momento presente, ciò non significherebbe che si saprebbe come produrle, o come trasferirle da una società all’altra: un assunto ottimistico che era stato peraltro alla base dei programmi di sviluppo, quando erano stati per la prima volta presi in considerazione a livello sia nazionale che internazionale.

Malgrado queste limitazioni, esiste comunque un modello dominante che è qualcosa di più di una semplice elaborazione teorica.2 Anche se il mutamento sociale, con vario ritmo, si è sempre prodotto, e di società del tutto statiche non ne sono mai esistite, oggi il cambiamento segue dei modelli occidentali, anche se in maniera non uniforme, poiché dipende ed è influenzato da tradi­ zioni locali e variazioni politiche ed economiche nelle varie aree del mondo. Le tradizioni, infatti, possono in alcuni casi ostacolare il flusso del cambia­ mento ed anche render più difficile la necessaria valutazione oggettiva dei bisogni e della loro soddisfazione. Così, ad esempio, si è potuto dimostrare come è tanto più facile che un dato cambiamento si produca, quanto minore è lo scontro dei vari aspetti del cambiamento voluto con il sistema di valori tradizionale, e quanto minore è la connessione con implicazioni emotive. Non c’è dunque da sorprendersi se la velocità del cambiamento è così variabile, a seconda delle società e a seconda dell’aspetto del cambiamento stesso, indi­ pendentemente da quanto intensamente lo si desideri.

Non basta che — grazie soprattutto ai mass media — un più alto livello del tenore di vita sia ormai la mèta delle aspirazioni di tutte le popolazioni e che da parte delle nazioni sviluppate siano oggi in atto programmi di assi­ stenza tecnica e finanziaria, più o meno ben studiati: le nazioni in via di

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sviluppo devono anche arrivare ad essere in grado di utilizzare investimenti di capitale ed esperti. Finora i teorici della modernizzazione possono soltanto parlare del bisogno di trasformazione delle società tradizionali, ma — come abbiamo detto — non sono in grado di indicare le componenti necessarie a questa trasformazione e il modo di usarle per raggiungere una trasforma­ zione psicologica graduale nello stesso tempo che si « importano » sistemi economici e tecnici, e di conseguenza sistemi di valori sociali.

In questo senso, uno degli aspetti deludenti della modernizzazione è per i teorici non solo il fatto che il cambiamento necessario è molto lento nelle popolazioni interessate, ma anche che esso ha portato con sé problemi che prima non esistevano e che, per quanto diversi, possono essere difficili da risolvere non meno dei problemi originali.

Anzitutto c’è lo choc dell’incontro con uno stile di vita moderno, accompa­ gnato dalla incapacità di acquisirlo, che si aggiunge ai problemi di una società disfunzionale, in cui il cambiamento rapido distrugge la precedente integra­ zione. Fra gli autori che si sono occupati di questo settore, Gino Germani ha particolarmente studiato le caratteristiche pertinenti ad una società integrata. Per integrazione si intende una corrispondenza su tre livelli, e cioè a livello

normativo (le norme istituzionalizzate e legittime, i valori, status, ruoli che

regolano le azioni sociali), a livello psicosociale (interiorizzazione di tali norme, valori, ecc., in termini di motivazioni, atteggiamenti, aspirazioni e struttura del carattere) e a livello ambientale (cioè tutto il contesto esterno in cui le azioni sociali hanno luogo). Quando questi livelli non si corrispondono più, l’individuo si rifugia in una sorta di passività, oppure, se si ha una reazione attiva, questa assume forme spesso drastiche o anche rivoluzionarie.3

Lo psichiatra nigeriano Lambo, che da molto tempo osserva gli effetti colla­ terali della detribalizzazione e migrazione rurale-urbana in Africa Centrale, nota come questo sia un caso tipico in cui l’aumento delle esigenze non corri­ sponde di per sé ad assicurare all’individuo la capacità di cambiare in modo che queste esigenze stesse possano essere soddisfatte con l’aumento della produzione. Di più la pianificazione, condizione necessaria alla modernizza­ zione, oltre che dalle conoscenze tecniche dipende in pratica dalla distribu­ zione del potere, vale a dire da una partecipazione politica in generale non ottenibile, per ragioni soprattutto legate a cultura ed educazione, da parte di chi si trova ai gradini più bassi della scala sociale.4

La partecipazione è anche elemento decisivo ai fini di un funzionamento soddisfacente, a lungo termine, delle istituzioni, una volta che siano state create dai pianificatori. Ma non soltanto individui e gruppi devono avere la possibilità di partecipare, essi devono anche desiderare di farlo; un desiderio che, d’altra parte, non può sostenersi a lungo se le persone non sentono di poter avere una influenza sugli eventi. Già nel 1950 Speier aveva indicato il ruolo funzionale della pubblica opinione, che era in grado di portare avanti

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le richieste di interesse pubblico, e, se in possesso di informazioni sufficienti, avrebbe potuto regolare queste richieste stesse alla luce della situazione obbiet­ tiva.5 Secondo Lerner l’empatia, cioè la capacità di vedere se stessi nei panni di un altro, è necessaria premessa alla partecipazione affinché questa, e quindi l’opinione pubblica, possano operare. E’ la pubblica richiesta — Lerner ritiene — a far muovere la ruota dello sviluppo, più che non gli aiuti dal­ l’esterno, i quali, nella attuale situazione di distribuzione delle risorse nel mondo sono certamente uno dei meccanismi di base, ma di per sé del tutto insufficienti.

Una volta che i processi di partecipazione e dunque di modernizzazione abbiano avuto inizio, per poter essere efficaci debbono poter diventare auto­ sostenuti, e di conseguenza mutamenti cognitivi ed emotivi debbono permeare la società in via di modernizzazione. In effetti, vi sono numerosi esempi di società in cui tale cambiamento ha avuto luogo soltanto per ciò che riguarda le elites; élites che, a volte per motivi idealistici, a volte perché impegnate nella corsa verso il potere e l’arricchimento personale — generalmente com­ binati —, non sono state in grado di trasformare le proprie società anche quando avevano ricevuto notevoli aiuti.6 Un fenomeno riscontrabile partico­ larmente nel caso dei paesi africani, che, nel travaglio seguito all’indipendenza, hanno maturato aspirazioni estremamente alte, cui non corrisponde una base genuina da parte della popolazione nel suo complesso.

Anche oggi si nota una certa tendenza a evitare questo aspetto del problema, come è chiaro in una recente pubblicazione dell’UNESCO, Science for Deve­

lopment, che sembra partire da assunti di questo tipo: il comportamento sociale

moderno sceglie obiettivi e crea tecnologie basate sulla razionalità e sull’effi­ cienza; e dà per scontato che « i governi agiranno in modo tale che l’inno­ vazione tecnologica fondata su un comportamento sociale così universale sia assicurata, salvo che per rare sacche dell’umanità, cioè i paesi che appunto per questa ragione osiamo definire arretrati ».7

Stavenhagen, basandosi sulle sue esperienze nei paesi latino-americani, vede tale posizione scientifica in una luce meno fiduciosa.8 Oltre alle difficoltà pra­ tiche che abbiamo già citato, egli aggiunge il fatto che la critica radicale mette in dubbio una concezione « libera da valori » di buona parte della attuale attività scientifica in campo sociale: già fin dai tempi di Mannheim era stato del resto affermato che in ogni impresa umana l’ideologia non è separabile dalla prassi. Di più, i risultati delle ricerche scientifiche spesso non vengono neppure comunicati a coloro che ne avrebbero maggiore necessità. Per quanto riguarda quest’ultima osservazione, non bisogna però dimenticare che la comu­ nicazione non dipende soltanto dalla buona volontà di chi comunica: lo scien­ ziato sociale, nel nostro caso, deve anche trovare dall’altro lato orecchie pronte ad ascoltarlo, le quali, nelle situazioni sociali descritte, spesso mancano.

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attribuirsi le difficoltà osservate nel trasferimento delle idee, fra cui anche quelle dello sviluppo occidentale; così ad es. Gourou ritiene che una scienza pura e applicata adatta alle società tropicali debba ancora emergere.9 Da questo punto di vista, non si può più parlare di una scienza sociale universale, e non c’è ragione di presupporre che tutti i popoli debbano necessariamente passare attraverso stadi, il più « avanzato » dei quali sarebbe rappresentato dal mondo occidentale, secondo quanto da parte di quest’ultimo si sostiene.

Parallelamente i paesi in via di sviluppo, sostengono che l’etichetta di « sotto- sviluppo » ha avuto inizio con la colonizzazione, la quale ha gradualmente distrutto il loro storico stile di vita.

In una direzione non diversa procede M. I. Pereira de Queiroz quando affer­ ma: « ... ogni società, ad ogni momento della propria storia, definisce in termini differenti quello che in essa potrebbe chiamarsi ” tradizionale ” o ” moderno ”. Di conseguenza, ogni gerarchia universale di valori, di solito connessa a tali concetti nelle ricerche sul sottosviluppo, perde la sua ragione d’essere ».10

Abbiamo fin qui cercato di accennare agli estremi del dibattito sulla moder­ nizzazione, almeno negli aspetti principali pur rendendoci pienamente conto di essere ben lontani dall’aver coperto il dilemma teorico, e tanto meno le sue conseguenze pratiche. Forse, abbiamo però messo in luce le ragioni per cui questo concetto sociologico centrale è stato discusso da parte di un buon numero di scienziati sociali, riunitisi in un gruppo di lavoro, come è detto nella Prefazione, proprio per dibattere la questione. Il lettore troverà in questo volume, scelto come esempio di studi applicati, uno degli studi discussi durante l’incontro di tale gruppo, cioè quello diretto da W. H. Form.

La nostra tesi è comunque che sostituendo il termine di modernizzazione con un termine più neutro come quello di « processi del cambiamento sociale », non si possa risolvere il problema né a livello teorico, né a livello pratico. Ovviamente, se è molto importante aver riconosciuto la relatività dei termini e aver definito in termini critici l’imitazione dei modelli di vita occidentali prodottasi all’inizio, ciò non significa ancora che siano stati trovati procedi­ menti alternativi per assistere le nazioni non industrializzate nel loro vero problema di alzare il proprio tenore di vita utilizzando il proprio sistema di valori, oppure che siano già state inventate nuove tecniche che conducono alla eliminazione o riduzione del problema, tecniche che possono soltanto venire dopo un’accurata analisi. La presente antologia si propone forse qualcosa di più che non un semplice tentativo di ridefinire un termine insoddisfacente, ed è piuttosto diretta ad una rassegna almeno parziale di quanto si è fatto finora nella ricerca di formulazioni alternative, nella speranza di dare l’avvìo ad altri lavori in questo settore. Questa è stata comunque l’idea che ci ha guidati nella scelta dei saggi che compongono il volume. L’accento è caduto

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piuttosto sugli scritti teorici, poiché gli studi applicati non riflettono ancora le preoccupazioni e i dubbi che abbiamo finora espresso.

L’antologia presenta nella prima parte quelli che si potrebbero chiamare i punti di vista classici sulla modernizzazione, uno dei quali sottolinea gli aspetti economici, l’altro quelli politici. Eisenstadt naturalmente vede lo sviluppo eco­ nomico con gli occhi di un sociologo, quando discute delle condizioni di crisi dello sviluppo e delle condizioni di crescita sostenuta; e si potrebbe sostenere che le osservazioni di Shils sullo sviluppo politico dei nuovi stati sono forse più un trattato di psicologia sociale che non di scienza politica. Non vi è dubbio che sta diventando sempre più difficile assegnare una posizione specifica ad ognuna delle diverse discipline. Ci è sembrato egualmente utile mostrare il punto di vista particolare dell’antropologia e dell’economia, poiché evidente­ mente la collocazione scientifica dell’osservatore condiziona in buona parte la sua prospettiva. Mentre il nostro volume era ancora in preparazione, PUNESCO prendeva un’iniziativa simile, raccogliendo il punto di vista delle scienze politiche, della sociologia, dell’antropologia, della psicologia sociale, della psichiatria, della demografia e della geografia economica, sui problemi dello « sviluppo », termine usato ai fini pratici in tale contesto come sinonimo di modernizzazione.11 Balandier, che nella pubblicazione sopra citata trattava l’approccio sociologico,12 nel nostro volume, invece, rappresenta quello del- 1 antropologia. Si tratta di un articolo di particolare interesse, in quanto vi si affronta in maniera diretta un commento e una interpretazione di fenomeni nuovi nel nostro mondo contemporaneo: la loro « modernità » è quindi vista dall’autore non in relazione a definizioni o costrutti teorici di ciò che è moder­ nizzazione, ma come segno e indice di nuovi fermenti, la cui direzione e il cui frutto sono ancora difficilmente prevedibili o inseribili in uno schema più generale. Da parte sua, Ray, benché discuta dello sviluppo in termini pura­ mente economici, nota che l’efficacia di una nuova ideologia — a suo parere uno dei più importanti agenti del cambiamento — non deriva tanto dal suo contenuto filosofico quanto dal modo con cui essa viene utilizzata da parte di un’élite modernizzante.

Ai punti di vista classici, e a quelli legati a determinate discipline sulla modernizzazione, seguono due tipi di critiche. La prima è dovuta a Gusfield (che nel 1968 aveva curato un numero speciale del Journal of Social Issues inti­ tolato « Tradition and Modernity: Conflict and Congruence »). Egli sostiene che non è corretto usare il concetto come definizione operativa, in quanto nega che tradizione e modernità possono considerarsi come antitetiche (come di solito avviene), dato che a seconda delle circostanze la tradizione può sia ostacolare che appoggiare e sostenere il mutamento. L’articolo di Stephenson distingue fra modernismo e modernizzazione: il primo è un dato stato di credenze e valori, il secondo indica il processo di cambiamento mediante il

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quale essi si conquistano. Egli suggerisce una scala di misura che non deve essere imposta alla popolazione studiata, ma che deve permettere a questa di esprimere le proprie opinioni in merito a tali processi. Se questo tipo di misure rende impossibile una comparazione trans-culturale fra stadi diversi di cambia mento, ha peraltro il vantaggio di definire la modernizzazione entro il quadro di riferimento di una data cultura, diminuendo così la tendenza a imporre standard occidentali nella misurazione:13 un risultato che forse non rientrava nelle intenzioni di fondo del lavoro di Stephenson. In contrasto, una critica quanto mai aperta della prospettiva occidentale è il tema fondamentale del­ l’ultimo degli studi della sezione a carattere teorico. Gardezi e Basran sono due sociologi indiani, docenti in una università canadese, ed hanno dunque il vantaggio di vedere i due lati della medaglia. Ciò che più chiaramente li preoccupa è il contenuto prevalentemente emotivo e valutativo di molta teoria sociologica sul cambiamento sociale, da essi attribuito al predominare degli orientamenti della scienza sociale americana, i quali tendono a vedere il funzionamento di un dato sistema sociale in termini conservatori, e dunque a considerarne gli effetti come « normali », anche quando potrebbero essere considerati come lesivi della qualità della vita umana. Questi atteggiamenti tendono a favorire la separazione del ruolo dello scienziato sociale da quello del politico, trascurando ogni alternativa al modello occidentale, mentre sia le mete che le vie per raggiungerle in realtà raramente si sono dimostrate le stesse per le nuove e per le antiche società.

L’ultima sezione del volume è costituita da due studi applicati, che affron­ tano il concetto di modernizzazione in ricerche sul campo. Nel primo, Inkeles cerca di analizzare le cause e le conseguenze del cambiamento individuale, confrontando i dati ricavati da rilevazioni operate in sei nazioni in via di sviluppo. Il secondo studio, una ricerca trans-culturale diretta da Form, ha un ambito più ristretto e considera l’adattamento di persone in situazioni in cui il cambiamento è già avvenuto mediante le migrazioni dalla campagna alla città e le condizioni del lavoro industriale. Inkeles ha osservato che, in misura impressionante, l’uomo moderno è definibile empiricamente mediante gli stessi valori e atteggiamenti in tutte le società in cui ha potuto operare dei con­ fronti — per caratteristiche quali la partecipazione ad organizzazioni, i costumi elettorali, l’abitudine a discutere di politica in famiglia, la maggiore informa­ zione in diversi campi di conoscenze —, concludendo inoltre che la disorga­ nizzazione personale non deve necessariamente essere attribuita ad un cambia­ mento rapido nella società, ma può avere anche altre cause, e che l’influenza delle microstrutture determina il comportamento in modo più fondamentale che non la cultura più vasta. Lo studio di Form ha preso in esame, in quattro paesi diversi e osservando lavoratori impegnati nello stesso tipo di industria ma a diversi livelli di industrializzazione, alcune teorie sull’adattamento, e in

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particolare quella che sostiene come inevitabile l’esistenza di tensioni interne per individui che siano di recente passati dal lavoro agricolo a quello indu­ striale. Egli conclude che i lavoratori più a lungo inurbati sono più facilmente soddisfatti della loro vita e ritiene che i suoi risultati siano di conferma alla tesi di Inkeles.

In conclusione, vogliamo aggiungere che la crisi di un concetto chiave della sociologia — della quale abbiamo qui trattato — implica qualcosa di più che non il mettere in discussione l’approccio ad un argomento, o la critica alle tecniche di ricerca normalmente usate in quest’area di studio, o anche ai loro obiettivi finali. A questo punto, come del resto si verifica nella maggior parte dei congressi scientifici, non è più soltanto la possibilità sul piano tecnico o la direzione etica delle scienze, e in particolare delle scienze sociali, che ven­ gono messi in discussione, ma è l’aspetto centrale di ogni impresa scientifica che non può ormai più sfuggire agli attacchi. Hutcheon, nel suo saggio « Socio­ logy and the Objectivity Problem » riassume il punto focale del dibattito con­ centrandosi su tre aspetti: il ritrarsi nella soggettività, l’interazione fra il ricer­ catore e l’oggetto del suo studio, l’effetto della ricerca e delle conoscenze acqui­ site sui rapporti sociali che sono stati studiati.14 Anche per ciò che riguarda lo studio scientifico della modernizzazione, tutti e tre questi aspetti sono chiara­ mente individuabili: il ritrarsi nella soggettività sembra essere uno dei rischi di taluni studiosi di scienze sociali del Terzo Mondo; l’interazione fra il ricer­ catore e il suo oggetto di studio ha una notevole influenza sui rapporti fra gli studiosi di scienze sociali e i pianificatori sociali, mentre l’effetto delle cono­ scenze acquisite altera, in ultima analisi, l’equilbrio nelle strutture sociali analizzate.

Una soluzione semplice a questi problemi non esiste, ma rimane tuttavia l’obbligo di riconoscerne l’esistenza, il quale ripropone all’ordine del giorno la revisione continua degli assunti di partenza. Dovrebbe quindi essere di stimolo il fatto di gettare uno sguardo su un acceso dibattito, in un settore delle scienze sociali interessato a quella prospettiva che verrà alla fine a deter­ minare il risultato di uno dei più urgenti problemi del nostro tempo: capire i cambiamenti dei quali siamo testimoni ad un costo che è tremendo per tutti; formulare i più importanti obiettivi del cambiamento; trovare soluzione alla minaccia di un continuo aumento del divario di tenore di vita e di tecnologie tra vecchie nazioni e Terzo Mondo, così come fra certe zone e classi sociali entro la maggior parte dei paesi più sviluppati della terra.15

El l e n B. Hi l l CEPAS, Università di Roma

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Note

1 Daniel Lerner, “ Modernization. I. Social Aspects ”, in International Encyclopedia

of Social Sciences, New York, 1970, voi. I, pp. 386-395.

2 Jean G. Badioleau nel suo articolo « Les modèles de développement », in Revue de Sociologie, voi. XII, n. 2, aprile-giugno 1971, pp. 228-251, ha cercato di presentare

i modelli che affrontano lo sviluppo e la modernizzazione in maniera sistematica, considerando criticamente i loro aspetti formali piuttosto che il loro contenuto. Mal­ grado che la sua rassegna sia tutt’altro che completa, chi voglia occuparsi di teorie dello sviluppo troverà in quest’articolo una valida sintesi.

3 Gino Ger m a n i, “ Mass Society, Social Class and the Emergence of Fascism” in I. L. Horow itz, (a cura di), Masses in Latin America, Oxford University Press New York, 1970, pp. 577-600.

4 T. Adeoye Lambo, “ The African Mind in Contemporary Conflict », in Interna­

tional Social Work, voi. XIV, n. 4, 1971, pp. 42-53.

5 Hans Sp e ie r, Social Order and Risks of War: Papers in Political Sociology,

Stewart, New York, 1952, pp. 323-338, sullo sviluppo storico dell’opinione pubblica. 6 Così come è stato discusso specificamente da Moshe Lissa k, “ Some Theoretical Implications of the Multidimensional Concept of Modernization ”, in International

Journal of Comparative Sociology, voi. XI, n. 3, sett. 1970, pp. 195-207.

7 Science for Development. An Essay on the Origin and Organization of National

Science Policies, UNESCO, Parigi, 1971, pp. 216-218. Si può invece trovare un

approccio più realistico nelle pubblicazioni della Social Development Division delle Nazioni Unite; vedi ad es. la International Social Development Review, n. 3, 1971, “ Unified Social Development and Planning; Some New Horizons”, una raccolta dì studi che passa in rassegna i risultati degli sforzi della Divisione e cerca di trarre conclusioni generali. Il contributo più originale è forse quello di Hans W. Singer, “ A New Approach to the Problems of the Dual Society in Developing Countries”, in cui vengono esposti i risultati negativi della concentrazione esclusiva della ricerca nei paesi sviluppati, sia per ciò che riguarda i problemi scelti che i metodi adottati.

8 R . Stavenhagen, “ Decolonizing Applied Social Sciences”, in Human Organi­

zation, voi. 30, inverno 1971, pp. 333-344.

9 Pierre Go u r o u, « Géographie tropicale et problèmes de sous-développement », in Informations sur les Sciences Sociales, Conseil International des Sciences Sociales’ agosto 1969, pp. 9-18.

10 M. I. Pereirade Qu e ir o z, « La sociologie du développement et la pensée de Geor­ ges Gurwitch », in Cahiers Internationaux de Sociologie, voi. LI, luglio-die. 1971, p. 235. 11 Cfr. « Etudes de développement », in Revue Internationale des Sciences Sociales voi. XXIV, 1972, n. 1.

12 Georges Balandier, « La sociologie », in ibid., pp. 75-85.

13 Nell’articolo di Allan Schneiberg, “ Measuring Modernism: Theoretical Empi­ rical Explorations ”, in American Journal of Sociology, voi. 76, n. 3, nov. 1970, pp. 399-425, mediante il confronto di sei indici di modernismo si conclude che esiste una sufficiente unità fra di essi, per poter considerare il modernismo come concetto unitario, malgrado le loro considerevoli differenze in circostanze diverse. In effetti il grado di variazione dipenderà dalla specificità del caso studiato.

14 Pat Du f f y Hutcheon, “ Sociology and the Objectivity Problem”, in Sociology

and Social Research, voi. 54, n. 2, genn. 1970, pp. 153-171.

15 Per una discussione di questa situazione che negli ultimi anni ha colto di sor­ presa le nazioni sviluppate, vedi “ Evolution of the United Nations Approach to Planning for Unified Socio-Economic Development: An Introduction ”, in International

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Situazioni di crisi dello sviluppo e situazioni

di crescita sostenuta

di S. li. Eisenstadt

I. Analisi comparativa

L ’ubiquità della protesta nelle società moderne

Le analisi operate sui vari studi di casi tipici di società moderne e in corso di modernizzazione, hanno dimostrato che i modelli d’interazione tra alcuni degli aspetti fondamentali della modernizzazione stessa — i diversi livelli di diffe­ renziazione della struttura sociale, i diversi punti di partenza sul piano storico del processo di modernizzazione, gli orientamenti di fondo delle principali élites che ne sono protagoniste, ed il ritmo diversificato che essa assume nelle grandi sfere istituzionali della società — valgono a spiegare almeno in parte i modelli strutturali specifici ai diversi regimi di modernizzazione, il loro orien­ tamento di fondo rispetto al mutamento, come pure la diversa capacità di questi regimi di assorbire il mutamento stesso. Ciò malgrado non vi sia, in linea di principio, nulla di preordinato nello sviluppo e nell’istituzionalizzazione di un modello o regime del tipo indicato.

Alcuni problemi essenziali sono posti dai più ampi processi generali di modernizzazione, e la costellazione specifica di questi problemi può esser larga­ mente diversa a seconda dei differenti stadi o situazioni del processo. Ma la soluzione che tende a prodursi nei singoli casi non è predeterminata. In qua­ lunque fase o situazione del processo, la risposta ai problemi creati dai processi di mobilitazione e differenziazione sociale può assumere diverse forme tra loro distinte.

Il modo in cui questi diversi ordinamenti o soluzioni istituzionali vengono a cristallizzarsi e determinato dalla interazione tra le più ampie caratteristiche strutturali delle grandi sfere istituzionali, da una parte, e d’altra parte dallo svilupparsi di élites o di imprenditori-innovatori in alcune di queste sfere istitu­

ii presente saggio costituisce i capp. VI e VII del volume di S. N. Eisen stad t,

Modernization: Protest and Change (C) 1966. La pubblicazione è stata autorizzata

dall’ed. Prentice-Hall, Inc., Englewood Cliffs, New Jersey. (Titoli originali: “ A Com­ parative Analysis of Situations of Breakdown and of Sustained Growth ” - “ Prelimi­ nary Conclusions: Conditions of Breakdown and of Sustained Growth ”).

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zionali, nei settori isolati della società o anche in altre società con cui questa sia in qualche modo collegata; ma in ogni situazione esistono sempre diverse élites in competizione per il ruolo predominante nella società, e diversi gruppi o strati che competono tra loro nell’esercitare un’influenza sulle élites, e vi è sempre una certa misura di libertà nei confronti della cristallizzazione defini­ tiva dei modelli istituzionali.

Una volta che un modello abbia acquisito le caratteristiche istituzionali, esso sviluppa propri caratteri culturali specifici, tra i quali rientrano anche diversi modelli di dissenso e diversi gradi di capacità della struttura istituzionale mo­ derna emergente di farvi fronte, di assorbire il mutamento continuo, di garan­ tire una crescita sostenuta.

La grande varietà di forme di protesta che tendono a prodursi in tutte le società moderne e in corso di modernizzazione è emersa ripetutamente nel corso dell’analisi dei diversi studi di casi. Ne abbiamo incontrato nelle sacche di resistenza alla modernizzazione in Francia, nei ben più significativi stati di crisi delle strutture moderne in Germania e in Giappone, in varie manifesta­ zioni di dualismo strutturale in America Latina negli anni ’30, oltre che nei diversi casi di arresto del processo nei paesi nuovi.

Quali sono le principali forme strutturali assunte da questa protesta, e quali ne sono i risultati? Nella misura in cui in qualche modo tenda di fatto a cristallizzarsi, manifesta talune caratteristiche comuni nonostante la grande varietà delle manifestazioni concrete. La caratteristica più importante e gene­ ralizzata è lo svilupparsi attorno ad alcuni dei principali motivi della protesta di tendenze miranti a un ordine sociale e culturale più omogeneo e totaliz­ zante, che porta con sé robusti tentativi di de-differenziazione (di ritorno alla omogeneità) e/o il rifiuto di partecipare ai più differenziati sistemi sociali, economici e politici moderni.

Queste cristallizzazioni in forma stabile delle espressioni sociali e culturali della protesta non significano però necessariamente l’insorgere di collassi strut­ turali e organizzativi della struttura istituzionale globale, moderna o moderniz­ zata. Solo quando le manifestazioni estreme della protesta sociale, politica o culturale si combinano strettamente con diverse manifestazioni di collasso o di disorganizzazione strutturale può accadere che entrambe contribuiscano a tale crisi del processo globale, divenendone espressione simbolica. Analogamente, l’intensificazione o lo sbocco in forme protestatarie dei problemi sociali, seb­ bene onnipresenti nei processi di modernizzazione, non ne comportano neces­ sariamente di per sé l’arresto. Soltanto quando si intrecciano con altri aspetti di carattere più propriamente strutturale essi tendono sia a divenire simboli dell’arresto globale del processo sia a contribuirvi concretamente. La misura degli effetti che esercitano sui contesti sociali in cui si verificano, come è ovvio, differisce grandemente da caso a caso.

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Quasi tutte queste situazioni sono caratterizzate dalla persistenza di alcune caratteristiche fondamentali di dualismo strutturale, combinata con una funzio­ nalità relativamente ridotta delle istituzioni centrali. Ma i loro profili specifici possono essere molto diversi.

Un tipo importante di risultato strutturale di una forma di protesta a carat­ tere continuativo è lo sviluppo e/o la sopravvivenza di varie strutture o orga­ nismi istituzionali a basso livello di differenziazione interna, perciò incapaci di mantenere un rapporto interno ed esterno relativamente stabile con un contesto generale più differenziato, o all’interno di esse.

Si possono dare parecchi esempi in questo senso. Uno è la continua disorga­ nizzazione e il dissanguamento di diversi gruppi o strati, specialmente di quelli più tradizionali o inferiori, da parte degli elementi più attivi, e un concomi­ tante abbassamento graduale del loro livello complessivo di funzionamento e di efficienza.1 Ciò è reperibile in molte aree rurali sottoposte alla pressione

dell’immigrazione e al dominio coloniale, oppure in ambienti urbani in cui vengano trasferiti diversi gruppi rurali.

Una seconda manifestazione di disorganizzazione o di collasso strutturale, che può in qualche misura sovrapporsi alla prima, è la conservazione da parte di diversi gruppi rurali, urbani, professionali o altri, di un livello costante- mente basso di attività e di interrelazione, per lo più limitata a rapporti di adattamento con altri gruppi e con il contesto sociale più ampio.2

Una simile chiusura e stagnazione può facilmente provocare lo sviluppo di comunità devianti, vale a dire di comunità non orientate al raggiungimento dei loro obiettivi manifesti (sviluppo economico, sviluppo comunitario o simili), ma alla conservazione dello status e degli interessi costituiti dei loro membri all’interno delle strutture esistenti.3

Il terzo aspetto o genere di disorganizzazione è l’insorgere di una situazione di guerra o conflitto interno in seno a una società. Una situazione che può manifestarsi in forme di protesta relativamente inarticolate, in scoppi di violenza, in situazioni di conflitto non codificato, oppure nel sorgere di diversi generi di movimento collettivi ■— sociali, culturali, nazionali — incapaci di essere riassorbiti nell’ambito di ordinamenti più stabili.4

In quarto luogo, vi è il « congelamento » delle espressioni più estreme della protesta in quanto entità sociali e organizzative distinte, sotto la forma di movi­ menti settari, partiti e simili.

Questi diversi orientamenti e risultati della disorganizzazione possono con­ seguire in parte un carattere istituzionale o comunque stabile in alcuni settori o parti della società, per esempio nell’àmbito di taluni gruppi o strati regionali o occupazionali, quali sacche permanenti di disorganizzazione o comunità devianti.

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Possono però anche manifestarsi nei più ampi ordinamenti istituzionali della società, e particolarmente nella loro struttura politica, provocandone una ristrut­ turazione globale, la quale a sua volta può svilupparsi in talune direzioni distinte.

Una categoria importante di questo tipo di cristallizzazione è il formarsi di un regime regressivo e di relativa stagnazione, cioè di una struttura istituzionale a minor livello di differenziazione, incapace di far fronte ai molteplici problemi e processi di mutamento che sono sorti nella sua situazione precedente o in quella iniziale. In alcuni paesi nuovi, come la Birmania o l’Indonesia,5 dove strutture moderne sono state inizialmente poste in essere in diversi campi istituzionali, e particolarmente in quello politico, la tendenza alla modernizza­ zione è stata lenta, ed anzi questi regimi costituzionali sono falliti, lasciando il campo a modelli autocratici, autoritari e semiautoritari.

Dal nostro punto di vista questi sviluppi non sono tanto diversi da altri già verificatisi nella storia della formazione delle società moderne. Viene in mente, innanzitutto, il caso della modernizzazione iniziale in Cina, così spesso usato come esempio negativo in confronto con la ben più riuscita modernizzazione iniziale del Giappone.6 Così pure la lunga storia di diversi paesi latino-americani può tornare a proposito, in particolare quando — come nel caso dell’Argen­ tina peronista e post-peronista — si è avuto l’arresto o il capovolgimento di una evidente tendenza alla modernizzazione. Infine gli esempi dell’ascesa del militarismo in Giappone,7 e particolarmente del fascismo e del nazismo in Europa negli anni ’20 e ’30,8 vanno ricordati come i casi forse più importanti — perché situati a livelli assai più avanzati di sviluppo — di arresto del processo di modernizzazione, per di più uniti a tentativi di ampia portata rivolti a una demodernizzazione quasi totale.

Un’altra direzione o risultato della protesta è il formarsi e l’istituzionalizzarsi di un nuovo tipo di società moderna, relativamente più flessibile e differen­ ziato. I migliori esempi sono i vari regimi rivoluzionari o semirivoluzionari — la Russia Sovietica, la Turchia, il Messico — o almeno alcune delle élites nazionaliste e anticolonialiste nei paesi nuovi e in quelli dell’America Latina. Altri esempi parziali, o quanto meno tentativi di istituzionalizzazione di nuovi modelli di regimi moderni susseguenti a periodi di disorganizzazione o di blocco del processo, possono essere individuati in taluni paesi latino-americani e in molte nazioni europee.

Nella presente analisi vogliamo concentrare l’attenzione sulle condizioni che facilitano uno sviluppo ininterrotto, in contrapposizione a quelle che possono condurre a situazioni di arresto dello sviluppo o di stagnazione. Questo perché dal nostro punto di vista la modernità e l’aspirazione ad essa implicano una tendenza al mutamento continuo, e pongono il problema della capacità di assorbirlo. Ma questo certamente non significa che la capacità di creare strut­ ture istituzionali in grado di assorbire il mutamento sia data o garantita, né

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tanto meno che essa rappresenti il prodotto consueto, normale, dei processi di modernizzazione. Al contrario è assai probabile che alcuni dei tipi di regimi non tradizionali di stagnazione siano senz’altro più diffusi del tipo integral­ mente capace di assorbire il mutamento continuo; ed è anche possibile che le condizioni utili alla nascita di istituzioni atte a sostenere lo sviluppo non si verifichino frequentemente.

Sono proprio queste condizioni che ci proponiamo ora di studiare, ritornando così al tema centrale della nostra analisi, vale a dire alle condizioni in cui tendono a svilupparsi i diversi casi di arresto e di stagnazione, o per contro, le strutture istituzionali capaci di assicurare una crescita senza interruzioni.

Le c a r a tte r is tic h e d elle situ a z io n i d i c r is i dello sviluppo

Per poter capire più a fondo le condizioni e anche le ripercussioni di tali crisi o arresti è opportuno analizzare più in dettaglio alcune delle loro manifesta­ zioni principali nelle grandi sfere istituzionali, mediante l’analisi di taluni casi specifici.

La caratteristica più generale delle situazioni di arresto nella sfera politica è data, come è stato notato, da un marcato divario tra le esigenze dei diversi gruppi e le risposte, cioè la capacità del potere centrale di farvi fronte.

I livelli di questa domanda politica sono in casi del genere superiori o inferiori (vale a dire più o meno articolati) al livello di aggregazione e di decisione operativa che caratterizza le istituzioni centrali. In questa situazione di solito le esigenze di gran parte dei gruppi sociali oscillano continuamente tra tipi di domande politiche relativamente molto articolate, come è evidente nel formarsi di vari gruppi di interesse e di movimenti collettivi ad alto livello di intensità politica, e tipi più elementari, meno articolati, che si manifestano nelle pressioni dirette esercitate sulla burocrazia mediante le petizioni alle autorità (o ai burocrati) locali e al potere centrale, e attraverso rari casi di manifestazioni di piazza.

La posizione di potere dei vari gruppi che formulano queste esigenze si è notevolmente rafforzata a seguito dei processi di modernizzazione; essi non possono più essere soppressi e ignorati, ma al tempo stesso si sono trovati i modi per integrarli in maniera ordinata. Si sono infatti sviluppate alcune strutture istituzionali di media portata, nel cui ambito fosse possibile regolare questi diversi tipi di domanda politica e tradurli in concrete richieste e in corrispondenti termini operativi.

Le istituzioni formali idonee per questo tipo di aggregazione e di formula­ zione di linee direttive esistevano di solito sotto la forma degli organi esecutivi, amministrativi e legislativi centrali da una parte, e dei vari partiti dall’altra.

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Ma era dal punto di vista del loro effettivo funzionamento che queste istitu­ zioni si rivelavano incapaci di adempiere efficacemente a queste funzioni. La direzione dei partiti o movimenti non era in grado di sintetizzare questi diversi interessi e orientamenti politici in modo relativamente ordinato, né di realizzare misure di intervento capaci di far fronte alle diverse esigenze dei principali gruppi, e quindi ai problemi a cui queste esigenze corrispondevano. Perciò la caratteristica più importante del processo politico in situazioni del genere non è la semplice esistenza di numerosi conflitti o di diversi livelli di articolazione della domanda politica, e neppure la mancanza di un pieno coordi­ namento tra questi stessi livelli (una situazione facilmente reperibile anche in regimi tradizionali relativamente stabili). Nelle società che qui si studiano, a causa della spinta alla modernizzazione, i diversi livelli della domanda politica non erano tenuti in compartimenti relativamente segregati, anche se intrecciati, come accadeva in molti regimi pre-moderni, ma al contrario erano inseriti in un contesto relativamente comune di processi politici e decisionali. Al tempo stesso non si crearono all’interno di questo contesto meccanismi e princìpi idonei a sintetizzare la domanda politica o a regolare i conflitti ad essa connessi. In altre parole, i nuovi valori che molti volevano realizzare in queste società richiedevano un livello relativamente alto di coordinamento del comportamento individuale, mentre nessuna struttura politico-organizzativa capace di legarli alle nuove, più articolate esigenze era stata creata; anzi, la struttura prece­ dente era probabilmente ormai crollata.

M o v im en ti d i p ro te s ta

Se esaminiamo la natura e la portata dei movimenti di protesta che si sono prodotti in queste società, si delinea un quadro analogo.

I contenuti dei simboli elaborati o assunti da questi movimenti non diffe­ riscono necessariamente dalla gamma di simboli emersa durante diversi periodi o stadi di modernizzazione in paesi europei, asiatici, africani. Una gamma che va da simboli nazionalisti, anticoloniali, tradizionalisti o di carattere etnico, ad altri di protesta sociale o di privazione economica, fino ai diversi simboli di rinnovamento culturale coniati in termini antioccidentali o di riemergenza religiosa e comunitaria. Questi sono probabilmente (ma non necessariamente) più estremisti nell’intensità della protesta di quelli reperibili in altri movimenti di carattere più pacifico. Ma si danno altre caratteristiche più cruciali di questi movimenti e simboli. Una è la relativa vicinanza, separazione e reciproca inco­ municabilità; un’altra è la loro natura settaria e il loro continuo passare da brevi periodi di attività estremamente intensa a lunghe fasi di stagnazione e di inattività.

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In terzo luogo, spesso si forma all’interno di questi movimenti settari e reciprocamente o stili1— a egual livello di articolazione estremista — una coale­ scenza di diversi valori o orientamenti sociali apparentemente contrastanti, come il tradizionalismo e lo sviluppo economico, oppure la tradizione e la democrazia. Questi diversi orientamenti di solito non vengono organizzati o coordinati in modo da risultare significativi in funzione della situazione con­ tingente, né ai fini di una qualche attività continuativa, come la formulazione e l’attuazione di una linea operativa.

E’ questa una importante indicazione del fatto che questi movimenti non sono predisposti ad essere incorporati o tradotti in contesti più ampi, in partiti o in organismi informali di pubblica opinione, e anche della loro mancanza di adattamento a questi stessi più ampi contesti normativi — a cui spesso corri­ sponde l’incapacità da parte delle istituzioni dominanti di assorbirne i simboli e gli orientamenti nel loro proprio ambito.

Risultato di tutto ciò è che i movimenti di protesta e di opposizione in questi paesi hanno oscillato tra l’apatia e il disinteresse da parte di ampi gruppi e strati nei confronti delle istituzioni centrali da una parte, e fasi di attività estremamente intensa che ponevano alle istituzioni in modo radicale l’esigenza di un cambiamento totale e immediato del regime o della posizione di determinati gruppi al suo interno.

P ro ce ssi d i com unicazione

Una caratteristica dei processi di comunicazione nelle situazioni di arresto dello sviluppo9 è l’esistenza di diversi modelli di comunicazione tra i diversi

strati sociali, più tradizionali e chiusi nei villaggi rurali e più differenziati e raffinati per le élites centrali e i gruppi urbani. In secondo luogo, la struttura delle comunicazioni in queste società è spesso caratterizzata dalla mancanza di elementi di mediazione o intermediari tra diversi livelli di attività comuni­ cativa. Terza caratteristica, si ha una continua oscillazione di ampi gruppi e strati tra l’apatia nei confronti delle comunicazioni con le istituzioni centrali, da un lato, e la predilezione per le manifestazioni di piazza e l’agitazione inconsulta, dall’altro. Quarto, tendono a svilupparsi dei circoli viziosi di iper­ sensibilità nei confronti di diversi mass media, insieme all’incapacità di assor­ bire questi stimoli in modo continuativo e coerente.

Anche in questo caso dunque, come nella sfera politica, la caratteristica più importante non è la pura e semplice esistenza di diversi livelli o tipi di comunicazione, né la relativa debolezza di alcuni elementi intermediari tra questi livelli: una situazione del genere era caratteristica anche di molte società tradizionali. La caratteristica cruciale della struttura delle comunicazioni in questi paesi è invece l’inserimento di tali diversi tipi di comportamento in

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un quadro relativamente comune, la loro esposizione a stimoli simili o uguali, senza che si sviluppino al loro interno dei modelli stabili di ricettività.

La stessa situazione si ritrova ovviamente nella sfera economica più propria­ mente detta. I principali mali o problemi economici di queste società sono dovuti non solo al basso livello di sviluppo delle loro economie, alla carenza di forza-lavoro qualificata o al suo impoverimento a causa di eventi esterni, ma soprattutto alla contraddizione tra la spinta alla modernizzazione e la capacità istituzionale di sostenere la crescita, tra il crollo degli assetti tradi­ zionali e l’impossibilità di trovare sbocchi adeguati nei nuovi assetti moder­ nizzati.

Troviamo dunque una situazione molto simile in tutte le sfere istituzionali, che vede l’accostamento di gruppi diversi, una crescente interdipendenza e consapevolezza reciproca di questi stessi gruppi, ma al tempo stesso il mancato sviluppo di nuove norme e meccanismi di regolamentazione comuni.

Divisioni tra le élites

Questo insufficiente sviluppo di meccanismi di integrazione è apparso evidente in alcuni aspetti dell’evoluzione istituzionale e nel campo della cristallizzazione dei simboli.

Una delle indicazioni più importanti di questa situazione è da individuarsi nella comparsa, in tutte le sfere istituzionali — e in modo particolare in quella politica — di un’acuta dissociazione tra leaders locali e leaders centrali, o, in altri termini, tra quadri e « promotori della coesione » a livello comunitario e dirigenti e amministratori orientati strumentalmente verso compiti definiti.

In molte di queste società si crea una forte dissociazione e scissione tra i vari leaders locali — di paese, regionali o etnici —, di solito più tradizionali, e i leaders più modernizzati del centro, e si sviluppano ben pochi tramiti orga­ nizzativi e istituzionali capaci di mediare tra i primi ed il nuovo potere centrale emergente.

Una situazione analoga si ritrova nei processi di elaborazione dei nuovi sim­ boli centrali della società in rapporto a quelli dei gruppi parziali o settoriali al suo interno. I vari simboli locali, particolaristici ed elementari dei gruppi locali, etnici, di casta o classe non vengono incorporati nel nuovo nucleo cen­ trale della società, né si ha la loro riformulazione ad un nuovo livello di identi­ ficazione comune. Particolarmente importante è qui la possibilità di una scis­ sione all’interno delle stesse istituzioni e simboli centrali, tra la struttura statuale antecedente, basata su simboli tradizionali, e i tentativi di forgiare nuovi simboli di unità nazionale. Questi tendono perciò a divenire punti di divaricazione strutturale e impedimenti allo sviluppo di un nuovo ordinamento civile.10

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