Da questo entusiasmo per l’architettura d’oltreoceano prese avvio una sua prolungata meditazione su quello che avrebbe dovuto essere il linguaggio dei tempi nuovi: un’architettura aderente alle nuove esigenze, al passo con le nuove scoperte ingegneristiche e tecnologiche.
Una volta tornato in patria Berlam scrisse in proposito diversi saggi ed articoli e tenne conferenze cercando di divulgare la conoscenza di queste nuove tipologie architettoniche, di suscitare curiosità e interesse, ma anche delle riflessioni, negli intellettuali e negli artisti (locali ed italiani) su queste tematiche allora abbastanza inesplorate, soprattutto in quel di Trieste.
Un ruolo fondamentale in questa “missione” divulgativa di Berlam è rivestito dalla conferenza tenuta al Circolo Artistico nell’aprile del 1921 intitolata I Grattacielo Americani, in cui egli esponeva in modo dettagliato ai suoi uditori le peculiarità tecniche, costruttive, formali ed utilitarie degli skyscrapers, allo scopo non solo di poterne trarre vantaggio nelle costruzioni locali, ma anche per far germogliare a Trieste (e in Italia) un diverso modo di concepire l’architettura, più coerente con la nuova epoca:
Impregiudicata la maggiore o minore opportunità di costruire in Europa questi edifici torri-formi, il mio gusto personale, che non tenterò di imporre ad alcuno, me li fa apparire l’espressione più sincera e completa dell’ar- chitettura contemporanea: saranno essi che daranno ai posteri la vera idea della nostra potenzialità tecnica e dico francamente che a me sembrano molto belli, della stessa bellezza che può avere un piroscafo transatlantico od una corazzata dreadnought. Noi, architetti, non possiamo appagarci di ripetere sempre le forme e le pro- porzioni che ci furono tramandate dai grandi artisti dei secoli scorsi, né possiamo sentirci molto lusingati che ci siano proposte a modello per le ville da erigersi ora, le costruzioni tradizionali dei montanari delle Alpi o dei contadini dell’Italia Meridionale.58
Ed ecco che nelle sue parole si manifestava il desiderio di liberarsi dai vecchi stilemi legati alla tradizione, i quali potevano essere stati appropriati e coerenti con l’edilizia dei secoli passati, ma che ormai con le strutture e le tecniche dell’edilizia moderna non lo erano più, e risultavano così essere delle vuote e sterili ripetizioni che dequalificavano l’arte stessa della progettazione e costruzione. Berlam all’opposto auspicava un’arte al passo con i progressi tecnici ed ingegneristici, un’arte che fosse in grado di rinnovarsi prontamente e di conformarsi sempre di più e sempre meglio alle nuove scoperte:
Mentre tutti gli altri rami della tecnica progrediscono con ritmo febbrile, in modo che le navi invecchiano già sullo scalo prima di essere varate; mentre non è più possibile scrivere dei libri completi di nessuna specialità
d’ingegneria perché l’opera editoriale è più lenta che la marcia trionfale della tecnica, a noi non può piacere di rimanere fermi all’ancora. Non desidero generalizzare certe mie sensazioni personali, ma debbo riconoscere che mi sembra di respirare una boccata d’aria fresca quando vedo la mia arte slanciarsi nell’arena degli ardimen- ti costruttivi ed approfittare di tutto ciò che gl’ingegneri metallurgici, meccanici e navali hanno saputo creare. Per fare dell’architettura dei nostri tempi non si tratta di cercare una nuova ornamentazione e di appiccicare su una facciata d’organismo vecchio dei fregi elucubrati da una fantasia malata. Ciò non è serio e io lo definisco una vera mascherata. Si tratta invece di trovare nuovi organismi basati sulle nuove possibilità costruttive ed ispirati ai bisogni di una vita d’affari tanto differente da quella dei nostri antenati.59
In queste sue affermazioni si sente un’eco neanche troppo vaga di alcune riflessioni espresse da Antonio Sant’Elia nel suo Manifesto dell’Architettura Futurista:
Il problema dell’architettura futurista non è un problema di rimaneggiamento lineare. Non si tratta di trovare nuove sagome, nuove marginature di finestre e di porte, di sostituire colonne, pilastri, mensole con cariatidi, mosconi, rane; non si tratta di lasciare la facciata a mattone nudo, o di intonacarla, o di rivestirla in pietra, né di determinarne differenze formali tra l’edificio nuovo e quello vecchio; ma di creare di sana pianta la casa futurista, di costruirla con ogni risorsa della scienza e della tecnica, appagando signorilmente ogni esigenza del nostro cos- tume e del nostro spirito, calpestando quanto è grottesco, pesante e antitetico con noi [...] determinando nuove forme, nuove linee, una nuova armonia di profili e di volumi, un’architettura che abbia la sua ragione d’essere solo nelle condizioni speciali della vita moderna, e la sua rispondenza come valore estetico nella nostra sensibilità. [...] La formidabile antitesi tra il mondo moderno e quello antico è determinata da tutto quello che prima non c’era. Nella nostra vita sono entrati elementi di cui gli antichi non hanno neppure sospettata la possibilità; si sono determinate contingenze materiali e si sono rilevati atteggiamenti dello spirito che si ripercuotono in mille effetti; primo fra tutti la formazione di un nuovo ideale di bellezza ancora oscuro ed embrionale, ma di cui già sente il fascino anche la folla.60
La critica all’accademismo percepito come anacronistico, al “balordo miscuglio dei più vari elementi di stile” che mascheravano “lo scheletro della casa moderna”, alla profanazione con “carnevalesche incrostazioni decorative” della “bellezza nuova del cemento e del ferro”61, ed ancora, la percezione
che un rivolgimento importante si era verificato nelle condizioni di vita dell’uomo grazie al perfezionamento dei mezzi meccanici e all’uso razionale e scientifico dei materiali – un mutamento che avrebbe richiesto un linguaggio diverso, più rispondente alle nuove strutture generate dalle nuove esigenze: questa urgenza di rinnovamento, ma anche di semplificazione che traspariva dal Manifesto di Sant’Elia, emergeva chiaramente anche dalle parole di Berlam. Si può pressoché certamente affermare, data la consonanza d’intenti tra i due architetti, che Berlam avesse assorbito parte della “lezione” futurista dagli scritti santeliani, ma che fosse venuto a contatto con il Movimento Futurista anche in occasione delle visite di Marinetti a Trieste, prima ancora della nascita del Movimento stesso, nelle quali erano state organizzare due serate a tema futurista con gran successo di pubblico62.
59 Ibidem, pp. 4 – 5.
60 A. Sant’Elia, “L’Architettura Futurista. Manifesto” in Antologia dell’architettura moderna. Testi, manifesti, utopie., a cura di M. De Benedetti, A. Pracchi Zanichelli, Bologna, 1988, pp. 237 – 238.
61 Ibidem.
62 E’ noto che Marinetti venne a Trieste nel marzo del 1908 per una serata di letture tenutasi alla Filarmonica e nel feb- braio 1910, in occasione di una serata futurista al Politeama Rossetti, organizzata da lui, Palazzeschi ed Aldo Mazza.
Ad ogni modo, bisogna sempre tenere presente che, nonostante queste affinità tra il pensiero di Berlam e quello di Sant’Elia, vi erano delle sostanziali differenze negli esiti progettuali dei due architetti, in primis a livello di linguaggio: Sant’Elia infatti era decisamente più libero e più disinvolto rispetto a Berlam, ma è anche vero che i suoi progetti – le stazioni, le centrali, i grattacieli - avevano tutti un carattere utopico ed immaginifico senza una commissione diretta, diversamente da quelli di Berlam che invece dovevano rispondere a ben precise committenze.