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Sulla rilevanza della forma “impropria”

Le fattispecie di “abuso”

3. Corruzione in atti giudiziari (art 319 ter c.p.)

3.2. Sulla rilevanza della forma “impropria”

Venendo al primo profilo sopra enunciato, è necessario ribadire che la no- ta qualificante la corruzione in atti giudiziari rispetto alle corruzioni comuni è costituita, appunto, dallo scopo di avvantaggiare o danneggiare una parte del processo.

Ebbene, poiché ogni provvedimento giudiziario, anche quello legittimo, oggettivamente “favorisce o danneggia” comunque una parte del processo, e poiché non sembra ragionevole che una accentuazione così rilevante del cari- co sanzionatorio [quale quella attualmente prevista dall’art. 319 ter, comma 1, c.p. rispetto alle forme comuni di corruzione: reclusione da sei a dodici anni in luogo della reclusione da sei a dieci anni prevista per la corruzione propria e da tre a otto anni prevista per quella impropria antecedente] possa risultare giustificata dalla sola circostanza che un atto giudiziario oggettivamente giu- sto sia stato soggettivamente compiuto allo scopo di recare un vantaggio o un danno a qualcuno, sembra fondato ritenere che, in realtà, il legislatore abbia inteso fare riferimento alle sole ipotesi in cui il fatto sia stato commesso allo scopo di adottare un provvedimento ingiusto riguardo ad una delle parti.

Questa interpretazione trova, d’altronde, una conferma nel rilievo che, nel configurare le circostanze aggravanti consistenti nel verificarsi di determinati danni, l’art. 319 ter, comma 2, c.p. parla specificamente di ingiustizia della fi- nalità di favore o di danno richiesta agli effetti della realizzazione della fatti- specie base.

Ora, se davvero simile ordine di idee è fondato, si pone un ulteriore pro- blema con riferimento alla scelta del legislatore del 1990 di includere – alme- no sul piano formale-astratto – nel novero delle corruzioni richiamate dall’art. 319 ter, comma 1, c.p., oltre alla forma “susseguente” anche la forma “impro- pria” (antecedente) di corruzione, nella quale l’atto che costituisce punto di riferimento del pactum sceleris è, per definizione, un atto conforme ai doveri di ufficio. È, infatti, tutt’altro che agevole ipotizzare che un magistrato possa emettere, con il fine di arrecare ad una parte un vantaggio od un danno, un provvedimento che oggettivamente non presenta alcun profilo di illegittimità e che appare, pertanto, del tutto conforme alla legge, giusto. Né, una volta di più, risulta fondato opporre all’ordine di idee qui seguito mere difficoltà di natura probatoria: le pur plausibili ragioni pratiche, connesse alla problema- tica individuazione della linea di confine – in specie, in tema di atti discrezio- nali – tra “conformità” e “contrarietà” ai doveri di ufficio, non sono suscettive di imporre scelte interpretative. Né, tanto meno, appare sostenibile – peraltro in modo sostanzialmente apodittico, quanto contraddittorio – che la scelta del legislatore, “solo in apparenza irragionevole”, è motivata dall’idea di “voler evitare qualsiasi forma di mercimonio allorché l’atto della pubblica ammini- strazione dovesse riguardare la speciale funzione giudiziaria”: l’oggetto di tu- tela della disposizione – anche in ragione dei più volte ricordati elevati livelli

sanzionatori – non può essere identificato con “l’incontaminatezza da qualsia- si forma di incidenza dettata da finalità di lucro”. È questa, infatti, un’istanza di “super-moralità”, “super-correttezza” del pubblico funzionario-giudice non suscettiva di sostanziare il bene giuridico della previsione delittuosa.

Se si condivide l’idea che l’oggetto del dolo specifico previsto dall’art. 319 ter, comma 1, c.p. debba essere connotato dal profilo della ingiustizia, anche la corruzione “impropria” viene, dunque, a risultare irrilevante nello schema tipico dell’art. 319 ter c.p.

Soltanto su questo terreno è dato, del resto, cogliere quella diversa qualità del fatto e quella diversa significatività dell’oggetto di tutela, le sole atte a giu- stificare la creazione di un titolo autonomo di reato e di così accentuata gravi- tà rispetto ai delitti di corruzione comune. Non risulta, invero, appagante so- stenere – peraltro, in modo esitante ed in parte contraddittorio – che “l’equi- parazione tra corruzione propria e impropria antecedente, pur con qualche forzatura, ha una sua ragionevolezza, perché entrambe condizionano il pro- cesso e sono espressioni di uno stesso disvalore” 152. Lo dimostra il fatto che il

giudice di legittimità, da un lato, è costretto a ripiegare su argomenti di natu- ra logico-probabilistica, che più propriamente afferiscono alla prova; dall’al- tro, sposta erroneamente il discorso dal carattere dell’‘atto’ giurisdizionale – oggetto di compravendita – al “metodo” seguito nell’adozione dell’atto mede- simo, venendo così a tramutare la responsabilità per il fatto in una responsa- bilità per la condotta di vita dell’autore.

Vero è che, come si è cercato di chiarire, lungi dall’offendere il (non) inte- resse della “correttezza” – come pretenderebbe la giurisprudenza – ovvero il bene (improprio per la funzione giudiziaria) dell’“imparzialità” – come assu- me parte della dottrina – il delitto di corruzione in atti giudiziari è posto a tu- tela della “indipendenza” del magistrato, intesa – come detto – quale interesse a che la formazione del provvedimento giudiziario sia sottratta ad ogni in- fluenza, così da non essere turbata; nello specifico, a che la pronuncia non sia adottata per un qualcuno a fronte della promessa o dazione di una retribu- zione. L’indipendenza del giudice è la prima garanzia del giusto esercizio del- la funzione giurisdizionale.

Diversamente, ove si pretendesse di sostenere sul piano interpretativo – in forza del generico rinvio operato dalla disposizione alle previsioni di cui agli artt. 318 e 319 c.p. – un’applicabilità ad ampio spettro della fattispecie incrimi- natrice in esame, non resterebbe che denunciarne l’incostituzionalità per l’evi- dente violazione del principio di legalità in ragione della assoluta indetermina- tezza del precetto (art. 25 Cost.), come di quello di ragionevolezza (art. 3 Cost.) per l’arbitraria parificazione sul piano del trattamento sanzionatorio di fatti del tutto diversi sotto il profilo del “contenuto” e del “peso” dell’offesa.

152 Così Cass. pen., sez. VI, 4.5.2006, Battistella, cit.

Cass. pen., sez. VI, 25.5.2009, Drassich, cit., singolarmente riconosce che la fattispecie incriminatrice in esame “assoggetta alla medesima pena condotte che, nelle rispettive collo- cazioni sistematiche, hanno valore e gravità notevolmente diversi”.

I reati contro la persona nei rapporti istituzionali 834