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Tipologia della violazione e adeguatezza del rimedio

3. I rimedi risarcitor

Passando ora all’esame delle alternative che si prospettano al singolo consumatore leso da una pratica commerciale scorretta, è forse il rimedio risarcitorio quello più adatto a tutelarlo e di più ampia applicazione, in quanto più facilmente si adatta alle circostanze concrete, proteggendo comunque la sfera giuridica del consumatore416.

Ciò appare confermato anche dall’introduzione delle azioni collettive finalizzate al risarcimento dei mass torts, specificamente esercitabili anche in tale settore417.

Sembra, infatti, verosimile che il consumatore leso da una pratica commerciale scorretta nella maggior parte dei casi abbia interesse ad agire per ottenere ristoro del danno eventualmente subito, piuttosto che a porre nel nulla il contratto stipulato azionando i rimedi invalidanti.

Innanzitutto laddove le pratiche commerciali scorrette siano state poste in essere nello svolgimento delle trattative e nella formazione del contratto ovvero nell’ambito dell’esecuzione di un contratto o più in generale nell’ambito di un rapporto obbligatorio intercorrente fra consumatore ed un professionista, è possibile ipotizzare in capo al professionista anche una responsabilità ex artt. 1337 o 1375 c.c., dal momento che nella maggior parte dei casi l’uso di una pratica commerciale scorretta da parte del professionista implicherà anche un comportamento contrario a buona fede418.

416 In questo senso ex multis, MIRONE A., Pubblicità e invalidità del contratto: la tutela

individuale contro le pratiche commerciali sleali, in AIDA 2008, p. 309 ss.; TENELLA

SILLANI C., Pratiche commerciali sleali e tutela del consumatore, in Obbligazioni e

contratti, 10/2009, 775 ss.; AUTERI P., Introduzione: un nuovo diritto della concorrenza sleale? In I decreti legislativi sulle pratiche commerciali scorrette, a cura di A. Genovese,

Cedam, Padova, 2008, p. 1 ss.; CIATTI A., op. cit., p. 383 ss., anche se l’Autore, pur configurando la responsabilità per pratiche commerciali scorrette come “responsabilità per fatto illecito”, conclude poi per la prescrizione decennale, “considerata la natura contrattuale della responsabilità”, probabilmente per l’idea che la responsabilità da illecito possa cumularsi in qualche modo con la responsabilità contrattuale, e nono stante la giurisprudenza sia costante nel ricondurre la responsabilità precontrattuale nell’ambito più generale delle forme di responsabilità extracontrattuale.

417 TENELLA SILLANI C., op. cit., p. 780.

418 GUERINONI E., Pratiche commerciali scorrette. Fattispecie e rimedi, Giuffrè, 2010, p.

Appare, infatti, evidente che una condotta “scorretta” ai sensi e ai fini degli artt. 20 c. cons., non può non riverberare i propri effetti anche sulla valutazione della sua conformità ai canoni di correttezza e buona fede a norma degli artt. 1175, 1337 e 1375 c.c..

Come osservato dalla dottrina419, sarebbe, infatti, irragionevole postulare un’assoluta e completa autonomia ed impermeabilità dei due sistemi normativi escludendo a priori qualsiasi possibile reciproca interferenza fra di essi.

Naturalmente non sempre la qualificazione di una pratica commerciale quale “scorretta” ai sensi dell’art. 20 ss. c. cons. comporterà la contrarietà a buona fede ai sensi degli artt. 1175, 1337 e 1375 c.c. del relativo comportamento.

Al riguardo è necessario distinguere tra due categorie di condotte, e cioè quelle riconducibili alle liste nere di cui agli artt. 23 e 26 e quelle risultanti scorrette in applicazione degli artt. 20-22 e 24-25 c.c.420.

Infatti, con riferimento alle prime si può ritenere che la scorrettezza, data l’esistenza di una sua predeterminata valutazione legislativa in senso negativo, integri anche la contrarietà a buona fede.

Con riferimento invece alla seconda categoria di condotte, e cioè di quelle ipotesi in cui l’attitudine della pratica a falsare il comportamento economico del consumatore, come richiesto dall’art. 20, c.2, c. cons., e l’idoneità della pratica a pregiudicare la capacità del consumatore di scegliere in modo consapevole ed informato, o a limitarne la libertà di scelta e di comportamento, così da indurlo ad assumere decisioni di natura commerciale che non avrebbe altrimenti preso, come richiesto dagli artt. 21, 22 e 24 c. cons., sono caratteristiche che vanno accertate facendo riferimento al parametro astratto e generalizzante del consumatore medio. Tale parametro, infatti, non sembra utilizzabile quando si tratti di stabilire se il comportamento tenuto da un professionista nei confronti di un singolo, concreto consumatore, che lo abbia eventualmente convenuto in giudizio con un’azione risarcitoria,

419 DE CRISTOFARO G., Le pratiche commerciali scorrette nei rapporti fra professionisti e

consumatori, in Nuove leggi civili commentate, 5/2008, p. 1115-1116.

420 DE CRISTOFARO G., Le pratiche commerciali scorrette nei rapporti fra professionisti e

lamentando la violazione degli artt. 1175, 1337 e 1375 c.c., sia stato conforme a correttezza e buona fede421.

A tale riguardo, va inoltre ricordato che la Cassazione ha esteso la responsabilità precontrattuale a ipotesi diverse da quelle della ingiustificata rottura delle trattative, per cui la relativa disciplina risulterebbe applicabile anche alle ipotesi in cui, come nella specie, sia intervenuta la conclusione di un valido contratto fra le parti422.

Sotto altro profilo, va evidenziata l’esistenza di una stretta connessione fra la disciplina attuativa della direttiva comunitaria sulle pratiche commerciali sleali e gli artt. 2 e 39 c. cons.423, nonché, più a monte che i principi di “buona fede, correttezza e lealtà” di cui all’art. 2, c. 2, lett. c-bis, c. cons. sono gli stessi cui fa riferimento l’art. 39 c. cons.424.

La connessione tra la normativa in esame e il principio di correttezza nell’attività commerciale di cui all’art. 39 emerge già dalla lettura della Relazione illustrativa del d. lgs. 206 del 2005 secondo la quale l’art. 39 c.

421 DE CRISTOFARO G., Le pratiche commerciali scorrette nei rapporti fra professionisti e

consumatori, cit., p. 1116. Tuttavia, va rilevato come anche fra queste pratiche quella

dell’ostacolo non contrattuale di cui all’art. 25 c. cons. integra senz’altro un comportamento contrario a buona fede integrando una forma di esercizio abusivo del diritto. Sulla pratica dell’ostacolo non contrattuale e sua contrarietà a buona fede si veda DI NELLA L., op. cit., p. 314.

422 Cassazione n. 19024/2005 secondo la quale “La violazione dell’obbligo di comportarsi

secondo buona fede nello svolgimento delle trattative e nella formazione del contratto, stabilito dall’art. 1337 c.c., assume rilievo non soltanto nel caso di rottura ingiustificata delle trattative, ovvero qualora sia stato stipulato un contratto invalido o inefficace, ma anche, quale dolo incidente (art. 1440 c.c.), se il contratto concluso sia valido e tuttavia risulti pregiudizievole per la parte rimasta vittima del comportamento scorretto; in siffatta ipotesi, il risarcimento del danno deve essere commisurato al ‘minor vantaggio’, ovvero al ‘maggior aggravio economico’ prodotto dal comportamento tenuto in violazione dell’obbligo di buona fede, salvo che sia dimostrata l’esistenza di ulteriori danni che risultino collegati a detto comportamento da un rapporto rigorosamente consequenziale e diretto”.

423 In tal senso si esprimono sia DE CRISTOFARO G., Il “cantiere aperto”codice del

consumo: modificazioni e innovazioni apportate dal d. lgs. 23 ottobre 2007, n. 221, in Studium iuris 3/2008, p. 265 ss., sia ROSSI CARLEO L., La libertà di scelta del consumatore finale di fronte alle pratiche commerciali, op.cit., p. 61 ss.

424 DE CRISTOFARO G., Il “cantiere aperto”codice del consumo: modificazioni e

innovazioni apportate dal d. lgs. 23 ottobre 2007, n. 221, op. cit., p. 265 ss.; GIUGGIOLI

P.F., MARTINELLO P., PUTTI P.M., SACCOMANI A., VIGNOLO V., Le vendite di beni e

servizi, in I diritti dei consumatori, a cura di G. Alpa, Torino, 2009, tomo II, p. 406 ss., in Trattato di diritto privato dell’Unione Europea, diretto da G. Ajani e G. Benacchio, p. 427,

ove con riferimento alla nozione di “diligenza professionale” contenuta nella definizione di pratica commerciale scorretta di cui all’art. 20 c. cons., si sottolinea che “…tale valutazione, ai sensi e per gli effetti di legge, si fonda sui parametri dei cc.dd. “principi generali di correttezza e di buona fede”, che, in una prospettiva sistematica, sembrano coincidere con quelli enunciati dall’art. 39 C. Cons.”

cons. “introduce regole generali nelle attività commerciali, conformi ai principi generali di diritto comunitario in tema di pratiche commerciali sleali”, nonché da quanto affermato nella Relazione illustrativa del d. lgs. n. 221 del 2007, secondo cui la lett. c-bis del comma 2 dell’art. 2 c. cons. contiene “una disposizione di richiamo ai principi di correttezza, lealtà e buona fede, conformemente con quanto previsto dalla Direttiva 2005/29/CE in materia di pratiche commerciali sleali recepita con il decreto n. 146 del 2007”.

Di conseguenza, innanzitutto, può concludersi che la locuzione “pratiche commerciali” di cui alla lett. c-bis dell’art. 2, c. 2, c. cons., debba essere intesa nell’accezione di cui all’art. 18, lett. d, c. cons., così come la locuzione “attività commerciali” di cui all’art. 39 c. cons., nonostante vi si parli letteralmente di “attività” anziché di “pratiche”.

In secondo luogo, si può concludere che la “scorrettezza” della pratica commerciale, nel senso e ai fini di cui agli artt. 20 ss. c. cons., sia espressione della non rispondenza di tale pratica ai “principi di buona fede, correttezza e lealtà” di cui agli artt. 2, c. 2, e 39 c. cons.425.

Perciò, laddove il professionista abbia violato il divieto di porre in essere pratiche commerciali scorrette si renderebbe responsabile della violazione di un diritto “fondamentale”, ex art. 2, lett. c-bis, c. cons., e “irrinunciabile”, ex art. 143, c.1, c. cons., dei consumatori426.

Tale conclusione, sembra consentire di sostenere che i consumatori uti

singuli siano legittimati a pretendere il risarcimento dei danni che dimostrino

di aver sofferto per effetto di pratiche commerciali scorrette poste in essere nei

425 Il comma 2 dell’art. 2, c. cons., riconosce che “Ai consumatori e agli utenti sono

riconosciuti come fondamentali i diritti: (…) c-bis) all’esercizio delle pratiche commerciali secondo i principi di buona fede, correttezza e lealtà”, mentre l’art. 39 c. cons. dispone che “Le attività commerciali sono improntate al rispetto dei principi di buona fede, di correttezza e di lealtà, valutati anche alla stregua delle esigenze di protezione delle categorie d consumatori.”

426 Con riferimento alla circostanza che il diritto all’autodeterminazione del consumatore e

all’esercizio delle pratiche commerciali secondo principi di buona fede, correttezza e lealtà siano diritti fondamentali del consumatore si veda Cass. S.U. 15/1/2009 n. 794, in Guida al

diritto n. 8/2009, ove si legge che “…occorre procedere ad un’attenta selezione dei danni

risarcibili, che tenga conto della gravità dell’offesa prodotta. Quanto al diritto all’autodeterminazione, esso può essere tratto dal Codice del consumo che, all’art. 2, riconosce come fondamentali i diritti del consumatore ad un’adeguata informazione e ad una corretta pubblicità, nonché all’esercizio delle pratiche commerciali secondo principi di buona fede, correttezza e lealtà.”

loro confronti e a far valere tale pretesa sia nell’ambito di giudizi individuali promossi con azioni risarcitorie ex art. 1337 o 2043 c.c., sia nell’ambito di eventuali giudizi collettivi instaurati con le azioni collettive risarcitorie di cui all’art. 140- bis c. cons.427.

Certamente, infatti, come già osservato nel capitolo che precede, non si può sostenere che di per sé sola la natura “scorretta” di una pratica commerciale sia sufficiente per riconoscere in capo ai consumatori un’azione

ex art. 2043 c.c., essendo invece necessario che sussista in concreto un

pregiudizio causalmente riconducibile a tale pratica.

Il problema, quindi, come già segnalato, è quello di riconoscere un interesse giuridicamente rilevante facente capo ai consumatori uti singuli all’esercizio delle pratiche commerciali secondo principi di buona fede, correttezza e lealtà, la cui lesione integrerebbe un danno ingiusto ai fini dell’art. 2043 c.c., in ogni lesione di siffatto interesse428.

A tal fine, a ben vedere, non è neanche necessario addentrarsi nelle problematiche connesse alla disputa tra fautori del principio di atipicità dell’illecito e fautori del principio di tipicità, essendo evidente che nella disciplina delle pratiche commerciali scorrette è palesemente ravvisabile una posizione giuridicamente protetta di tipo primario in capo ai consumatori, destinatari della condotta illecita.

427 DE CRISTOFARO G., Il “cantiere aperto”codice del consumo: modificazioni e

innovazioni apportate dal d. lgs. 23 ottobre 2007, n. 221, op. cit., p. 268; nello stesso senso

FEBBRAJO T., L’informazione ingannevole nei contratti del consumatore, Napoli, 2006, p. 196, il quale afferma che “L’espresso riconoscimento di un diritto (peraltro arricchito dalla qualificazione di “fondamentale”) ad un’adeguata informazione, fa sì che da ogni comportamento del professionista con esso contrastante derivi, quantomeno, l’obbligo di risarcire il danno subito dal consumatore”.

428 In proposito si veda DE CRISTOFARO G., Le pratiche commerciali scorrette nei rapporti

fra professionisti e consumatori, op. cit., p. 1113-1114, il quale evidenzia che pur trattandosi

di una ricostruzione ardita essa sembra trovare qualche appiglio, seppure indiretto, nel codice del consumo e precisamente nell’art. 27 ter, c. 2, c. cons. laddove si esclude che il ricorso proposto agli organismi di autodisciplina competenti a controllare il rispetto dei codici di condotta possa alcun modo “pregiudicare il diritto del consumatore (…) di adire l’Autorità garante ai sensi dell’art. 27 o il giudice competente”. Tale riferimento al giudice competente sembrerebbe presupporre che sussista per i singoli consumatori lesi da una pratica commerciale scorretta la possibilità di rivolgersi non solo all’Autorità garante della concorrenza e del mercato ma anche all’autorità giudiziaria ordinaria. Non è precisata la natura dei rimedi suscettibili di essere esperiti davanti a quest’ultima, ma è intuitivo pensare che si tratti di rimedi risarcitori.

Infatti la posizione di interesse dei consumatori, come sopra visto, rientra fra gli scopi ed è anzi l’obiettivo primario di tutela della normativa in esame.

A sostegno di questa tesi va ricordato che la normativa in esame presenta molte analogie con il diritto antitrust.

Anche le intese restrittive della concorrenza, infatti, comportano la violazione di una norma di condotta corredata da sanzioni amministrative pecuniarie, come disposto dagli artt. 2 e 15 della legge 287/1990, e anche in questo caso tra le finalità della legislazione antitrust vi è il benessere del consumatore429.

A tale riguardo la giurisprudenza430 ha osservato che la funzione illecita dell’intesa antitrust, rispetto all’interesse del consumatore, sta nel lederne il “diritto di scelta effettiva fra prodotti in concorrenza”. Ciò in quanto la tutela del consumatore attiene anche, e in primo luogo, alla possibilità di quest’ultimo di compiere scelte libere e consapevoli.

Dunque anche il diritto della concorrenza tutela la libertà di scelta del consumatore431, analogamente a quanto fa la disciplina in materia di pratiche commerciali scorrette.

Con riferimento all’azione di danno derivante da un illecito antitrust, in estrema sintesi, la dottrina e la giurisprudenza si sono a lungo poste il problema della plurioffensività dell’illecito antitrust sotto il duplice profilo della validità ed efficacia dei contratti stipulati “a valle” della condotta anticoncorrenziale e della legittimazione ad agire da parte di soggetti diversi dalle imprese, e, quindi, da parte del consumatore leso dalla condotta medesima.

429 LIBERTINI M., Ancora sui rimedi civili conseguenti ad illeciti antitrust (II), in Danno e

responsabilità 3/2005, 237 ss.

430 Cassazione civile, sez. un., 4 febbraio 2005, n. 2207, in Corriere giuridico 8/2005, p. 1093

ss., con nota di Libertini M..

431 LIBERTINI M., Le azioni civili del consumatore contro gli illeciti antitrust, in Corriere

giuridico 8/2005, p. 1096; DI MAJO A., Libertà contrattuale e dintorni, in Riv .crit. dir. priv.,

1995, p. 11, il quale con riferimento alla normativa antitrust afferma che “Essa, per definizione, attraverso la tutela della concorrenza, dovrebbe tendere a garantire la libertà di scelta del consumatore. Codesta libertà, e con essa quella contrattuale, è messa in crisi ove accordi o intese abbiano per oggetto od effetto la restrizione della concorrenza. (…) Ribadire allora che la normativa antitrust ha anche una valenza ‘liberale’ ed emancipatoria nei riguardi delle scelte dei consumatori può non essere inutile.”

La sentenza delle Sezioni unite di Cassazione n. 2207/2005 ha riconosciuto la legittimazione ad agire ex art. 33 della legge 287/1990 al consumatore finale che abbia subito un danno a causa dell’esplicarsi di una condotta vietata ai sensi dell’art. 2 della suddetta legge e ribaltando l’orientamento imposto dalla precedente sentenza della Cassazione del 2002 ha rimosso un ostacolo al pieno dispiegarsi del c.d. private enforcement del diritto antitrust.

La sentenza delle Sezioni Unite, in particolare, ha chiarito che la legge n. 287/1990 non è legge degli imprenditori soltanto “ma è legge dei soggetti del mercato” intendendosi per tale “chiunque abbia interesse, processualmente rilevante, alla conservazione del suo carattere competitivo al punto da poter allegare uno specifico pregiudizio conseguente alla rottura o alla diminuzione di tale rapporto.

La Corte ha legittimato, dunque, il consumatore ad esperire il rimedio risarcitorio innanzi alla Corte d’appello competente e tale rimedio, come era già stato chiarito da autorevole dottrina, configura un’ipotesi di responsabilità aquiliana.

In relazione a tale sistema la stessa Cassazione ha espressamente riconosciuto che “fra i titolari interessi giuridicamente rilevanti sono anche i consumatori finali, in quanto titolari di un “diritto di scelta effettiva fra prodotti concorrenti”432.

Questa conclusione è supportata da dati testuali, come l’art. 4 della l. 287/1990, che espressamente attribuisce rilevanza al beneficio del consumatore, tra i criteri di valutazione della liceità delle intese.

Da qui la conclusione per cui l’illecito antitrust integra, almeno potenzialmente, il danno ingiusto ex art. 2043 c.c.; perciò, secondo la Suprema Corte, “colui che subisce un danno per una contrattazione che non ammette alternative per l’effetto di una collusione a monte, ancorché non sia partecipe di un rapporto di concorrenza con gli autori della collusione, ha a propria disposizione l’azione di cui all’art. 33 della legge l. 287 del 1990”.

432 Cassazione civile, sez. un., 4 febbraio 2005, n. 2207, in Corriere giuridico 8/2005, p. 1093

Pertanto, se la responsabilità da illecito è stata già correttamente richiamata in relazione a sistemi, come il diritto antitrust, nei quali la posizione dei consumatori è tutelata in via mediata, sarebbe contraddittorio non riconoscerla quando tale posizione è tutelata in modo più diretto433.

Sembra ragionevole concludere che i danni al consumatore causati da una condotta “scorretta” del professionista ai sensi della normativa in esame ricadano nell’ambito della responsabilità da illecito, essendo non solo gli effetti tipici della condotta vietata, ma proprio fra i rischi che la normativa vuole evitare.

Inoltre, a sostegno della possibile natura extracontrattuale della responsabilità da pratiche commerciali scorrette va addotta anche la circostanza che il legislatore ha disposto sanzioni amministrative a carico dei professionisti “scorretti”, con ciò spingendo sia il comportamento commissivo che quello omissivo, nell’ambito del “dovere” e non dell’obbligo, a testimonianza della volontà di oltrepassare la soglia della tutela individuale.

Infatti, parte della dottrina434 occupandosi della questione dei rapporti tra omissione e illecito civile ha affermato che per capire quando la fattispecie costituita dal “non fare ciò che si è tenuti a fare” comporta responsabilità aquiliana e quando responsabilità contrattuale bisogna guardare al profilo del dovere violato.

Nel caso di responsabilità aquiliana si tratta soltanto di un “dovere”, mentre in quella contrattuale la violazione concerne un “obbligo”.

Tale dottrina porta come esempio di “mero dovere”, la cui violazione dà origine a responsabilità aquiliana proprio l’ipotesi in cui la fattispecie sia accompagnata da una sanzione penale o amministrativa, in quanto ciò manifesta l’intento di andare oltre l’ambito della tutela individuale.

Va però ricordato che altra dottrina435 si è invece espressa in senso contrario, ritenendo che la sanzione prevista dalla legge non cambia la natura della responsabilità.

433 MIRONE A., op. cit., p. 332.

434 CASTRONOVO C., La nuova responsabilità civile, Milano, Giuffrè, 2006, p. 320. 435 GIGLIOTTI F., Illeciti da informazione e responsabilità omissiva, in Rivista di diritto

Naturalmente, aderendo a questa ricostruzione il consumatore sarebbe gravato dall’onere di provare, oltre alla natura scorretta della pratica commerciale posta in essere nei suoi confronti dal convenuto, la colpevolezza di quest’ultimo, i pregiudizi in concreto sofferti e soprattutto l’esistenza di un nesso di causalità fra tali pregiudizi e la pratica commerciale scorretta436.

In tal caso, perciò, l’onere della prova sarà disciplinato secondo le regole generali e quindi, ai sensi dell’art. 2697 c.c., graverà sul consumatore dimostrare i fatti costitutivi dell’illecito, non potendosi applicare nel giudizio ordinario la diversa regola operante per il procedimento davanti al Garante ai sensi dell’art. 27, c. 5, c. cons., secondo cui è il professionista a dover provare con allegazioni fattuali, che egli non poteva ragionevolmente prevedere l’impatto negativo della pratica da lui posta in essere sui consumatori437.

Ci si deve chiedere se, al fine di dimostrare la sussistenza della responsabilità extracontrattuale in capo al professionista, si possa dare rilievo ad un eventuale provvedimento anteriore dell’Autorità antitrust, analogamente a quanto accade nell’ambito del risarcimento dei danni conseguenti a comportamenti anticoncorrenziali vietati ai sensi della l. 287/1990 a tutela della concorrenza e del mercato.

Infatti, nel settore dell’antitrust le decisioni dell’Autorità garante sono spesso usate dalla giurisprudenza, anche di legittimità, come mezzo per alleggerire l’onere probatorio del consumatore, anche per favorire, sia pure indirettamente, il ricorso al private enforcement come strumento di tutela del mercato438.

L’ipotesi del collegamento tra giudizio civile e giudizio amministrativo, peraltro, trova un fondamento testuale, sia pure generico, nel c. 6 dell’art. 140