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La tutela del consumatore singolarmente considerato fra rimedi contrattuali e rimedi risarcitor

Tipologia della violazione e adeguatezza del rimedio

2. La tutela del consumatore singolarmente considerato fra rimedi contrattuali e rimedi risarcitor

Le precedenti considerazioni consentono di porsi la domanda su quali siano gli strumenti a tutela del singolo consumatore.

Sotto tale profilo nella disciplina delle pratiche commerciali sleali si ravvisano segni di discontinuità rispetto alla linea di politica sinora espressa dal diritto comunitario in materia di rapporti tra professionisti e consumatori, quella linea, cioè, che può genericamente essere ricondotta alla centralità della categoria del “rimedio”383.

Infatti, con riferimento alla disciplina che ci interessa, come abbiamo visto nel corso della trattazione, il legislatore comunitario ha stranamente demandato, ai legislatori nazionali l’individuazione dei rimedi privatistici contro le pratiche commerciali scorrette, limitandosi a fissare il principio per il quale tali rimedi devono risultare effettivi, proporzionati e dissuasivi.

Tale dato, poi, colpisce in modo particolare in quanto la direttiva 2005/29/CE intendeva perseguire il fine della armonizzazione completa, realizzato attraverso un’analitica individuazione dei requisiti delle pratiche ingannevoli e aggressive, nonché di una black list che individua in modo tassativo le pratiche considerate in ogni caso vietate, e la previsione di una norma di chiusura che fissa i presupposti in presenza dei quali una pratica, pur non essendo specificamente ingannevole o aggressiva né ricompresa nella lista nera, va comunque ritenuta scorretta e dunque vietata.

La disciplina delle pratiche commerciali sleali determina, perciò, un ritorno alla prospettiva della fattispecie, anche se qui la categoria di riferimento non è rappresentata dal diritto soggettivo ma dal divieto nella forma dell’obbligo di contenuto per lo più negativo, cui non sembra corrispondere un diritto di credito del consumatore384.

Tale scelta del legislatore comunitario comporta una contraddizione tra il perseguito intento di armonizzazione completa, volto a ridurre i margini di

383 PIRAINO F., Diligenza, buona fede e ragionevolezza nelle pratiche commerciali scorrette.

Ipotesi sulla ragionevolezza nel diritto privato, in Europa e diritto privato, 4/2010, p. 1117 ss.

incertezza e di discrezionalità nell’individuazione del fenomeno e nell’applicazione della relativa normativa, e la totale indeterminatezza dei rimedi385.

E su questo profilo il nostro legislatore non si è espresso, determinando un rinvio tacito al sistema.

Riteniamo che una soluzione unitaria del problema non sia rinvenibile e che, piuttosto, sia necessario verificare caso per caso quale sia il rimedio utilizzabile386.

A tale conclusione induce, innanzitutto, lo stesso silenzio tenuto dal legislatore sul punto e il suo affidare il delicato compito di individuare i rimedi a tutela del singolo consumatore concretamente leso da una pratica commerciale scorretta fa pensare che non esista un unico rimedio, ma che ve ne siano diversi da adattare alle circostanze del caso.

Infatti, come abbiamo già visto, fra gli altri legislatori nazionali alcuni hanno preso posizione su questo problema imponendo un rimedio unico per la violazione del divieto di porre in essere pratiche commerciali sleali.

Dunque, questo non dire del nostro legislatore sembra essere motivato dalla consapevolezza che nel nostro ordinamento non è possibile esprimersi in termini di rimedio unico data la grande varietà e diversità delle fattispecie realizzabili.

Del resto, come già visto con riferimento sia alla direttiva che al corrispondente articolo del codice del consumo, molto ampio è l’ambito di applicazione della normativa in esame anche sotto il profilo della latitudine temporale.

A tale riguardo, l’art. 19 c. cons., come previsto dell’art. 3 della direttiva, ammette che la pratica commerciale possa essere realizzata prima, durante o dopo un’operazione commerciale relativa a un prodotto.

385 In tal senso PIRAINO F., op. cit., p. 1120 ss.

386 Nello stesso senso CIATTI A., Gli strumenti di tutela individuale e collettiva, in Pratiche

commerciali scorrette e codice del consumo, a cura di G. De Cristofaro, Giappichelli, Torino,

2008, p. 423; DI NELLA L., op. cit., p. 366, il quale con specifico riferimento alle pratiche commerciali aggressive afferma che “Per le pratiche aggressive non appare corretto concentrare il discorso su una sola tipologia di sanzione. Al contrario, sembra potersi affermare che i rimedi civilistici per tali condotte vanno individuati a seconda della fase in cui esse sono state poste in essere e del tipo di incidenza che hanno avuto sulla stessa.”

Fra le pratiche commerciali scorrette realizzate in vista della conclusione del contratto rientrano i comportamenti successivi ad un primo contatto fra le due parti a prescindere dalla circostanza che ne sia conseguito un accordo tra di esse. Così, l’art. 20 nel definire la scorrettezza della pratica si limita a richiedere la mera idoneità a falsare in modo apprezzabile il comportamento economico del consumatore, per cui può dirsi che tra i presupposti della pratica commerciale vietata non rientra l’effettiva conclusione di un contratto fra il professionista scorretto ed il consumatore.

Ma la nozione di pratica commerciale scorretta comprende anche le operazioni anteriori all’instaurarsi di un contatto fra le parti, purché suscettibili di indurre il consumatore ad assumere una decisione commerciale che non avrebbe altrimenti preso, e indipendentemente dal fatto che in concreto la prenderà. Ciò si evince proprio dall’art. 18 c. cons. che nel fornire la definizione di pratica commerciale alla lettera d) fa espresso riferimento alla “pubblicità e la commercializzazione del prodotto”.

Con riferimento agli atti e alle omissioni riguardanti la fase successiva alla conclusione dell’accordo, vengono in rilievo l’esecuzione del contratto e le tutele postcontrattuali, come ad esempio i diritti di reclamo e di assistenza post-vendita.

In tale contesto si inseriscono innanzitutto le pratiche volte ad influenzare slealmente la scelta del consumatore di esercitare o meno un diritto, ad esempio il diritto di recesso, o di far valere una tutela, come ad esempio la sostituzione o la riparazione del bene acquistato. Tale ultima ipotesi è prevista, in generale, dall’art. 21 lett. g), c. cons., in cui nel definire il carattere ingannevole della pratica, si fa riferimento alla sua idoneità ad indurre in errore il consumatore in ordine ai suoi diritti, “incluso il diritto di sostituzione o di rimborso ai sensi dell’art. 130 del presente codice”.

Ed ancora l’art. 23, lett. h) c. cons., prevede un’ipotesi di tal tipo laddove cita fra le pratiche commerciali considerate in ogni caso ingannevoli l’impegno del professionista “a fornire l’assistenza post-vendita a consumatori con cui egli ha comunicato, prima dell’operazione commerciale, in una lingua

diversa da quella ufficiale dello Stato membro in cui il professionista stesso è stabilito, per poi offrire concretamente il servizio soltanto in un’altra lingua”.

Infine, anche l’art. 25 c.1, lett. d), nel prevedere gli elementi da considerare ai fini della valutazione di aggressività di una pratica, fa riferimento all’imposizione di un qualsiasi ostacolo non contrattuale, oneroso o sproporzionato, all’esercizio di diritti contrattuali, compresi quello di risoluzione del contratto, di cambiare il prodotto o di rivolgersi ad un altro professionista.

Dunque, si considerano pratiche commerciali scorrette anche quelle pratiche che essendo antecedenti o contestuali ad un’operazione commerciale relativa ad un prodotto, rispettivamente prescindendo o presupponendo un contatto fra professionista e consumatore, sono finalizzate a far acquistare il bene o il servizio, indipendentemente dal fatto che ciò avvenga concretamente.

Le pratiche commerciali posteriori, invece, concernono le scelte del consumatore successive alla conclusione del contratto, purché direttamente collegate o conseguenti all’operazione commerciale già effettuata.

Si tratta, quindi, di una disciplina di carattere trasversale che introduce una serie di indicazioni di carattere generale che possono trovare applicazione con riferimento all’intero atto di consumo nel suo aspetto dinamico387, essendo riferita alle diverse fasi del fenomeno che vanno dalla fase del primo contatto commerciale, qual è ad esempio quella della pubblicità, alla fase della comunicazione commerciale, cioè quell’insieme di comportamenti, di sollecitazioni, di contatti, che pur non rientrando propriamente nella pubblicità strettamente intesa, fanno comunque parte di una strategia di marketing rivolta al consumatore.

L’attenzione del legislatore è tutta concentrata sulla pratica commerciale perché è in questa fase che si determina essenzialmente la scelta del consumatore e, quindi, è con riferimento ad essa che la nuova disciplina

387 Cfr. BARTOLOMUCCI P., Le pratiche commerciali scorrette ed il principio di

trasparenza nei rapporti tra professionisti e consumatori, in Contratto e impresa, 2007,

p.1428, il quale evidenzia che “il legislatore comunitario prende in considerazione l’atto di consumo in tutta la sua dinamicità e non solo nel suo momento essenziale costituito dal contratto. Una pratica infatti è sleale sia che essa induca effettivamente il consumatore a compiere una determinata scelta commerciale, sia che essa semplicemente sia idonea a farlo.”

impone l’applicazione di un criterio di valutazione sostanziale dell’operato del professionista388.

In altre parole, sin dal momento della sollecitazione commerciale si impone l’applicazione di determinate regole di condotta corrette.

E in ciò può ravvisarsi una novità rispetto agli obblighi informativi come tradizionalmente concepiti che, invece, normalmente si inseriscono in una fase immediatamente successiva rispetto alla pratica commerciale generalmente intesa.

Dalla fase extracontrattuale, si passa poi a quella negoziale, che può comprendere anche una trattativa precontrattuale, per arrivare alla fase dell’esecuzione del contratto.

Ci si deve ora interrogare sull’effettiva portata innovativa di questa normativa che accanto ad un divieto generale di pratiche commerciali scorrette ha introdotto una serie di obblighi informativi389, alcuni a contenuto specifico e uno di carattere generale avente ad oggetto tutte le “informazioni rilevanti di cui il consumatore medio ha bisogno”, nei diversi contesti, “per prendere una decisione consapevole di natura commerciale che non avrebbe altrimenti preso” (art. 22, c. 1, c. cons.), nonché una lunga lista di condotte integranti le due principali tipologie di pratiche commerciali scorrette, quelle ingannevoli e quelle aggressive inserite agli artt. 23 e 26 c. cons..

Si è già evidenziato come la disciplina in esame si inserisca nel contesto di una legislazione di fonte comunitaria caratterizzata da una sempre maggiore attenzione nei confronti della regolamentazione della fase di formazione del contratto390.

Tale attenzione si traduce in particolare, come abbiamo detto, nella prescrizione di sempre più incisivi e pervasivi oneri, ad esempio di forma, ed

388 BARTOLOMUCCI P., op. cit., p.1424.

389 Anche con la normativa in esame, dunque, si moltiplicano i vincoli di contenuto, ossia

quelli riconducibili ai “limiti della libertà di “determinare il contenuto del contratto”, evocati dall’art. 1322, c. 1, c.c.

390 Cfr. D’AMICO G., La responsabilità precontrattuale, in Rimedi 2, Trattato del contratto a

cura di Roppo V., p. 988 ss., nonché ID., Regole di validità e regole di comportamento nella formazione del contratto, in Rivista di diritto civile, 1/2002, p. 38-39, ove l’Autore osserva che

“La fase della formazione è – tra le diverse fasi che scandiscono la vicenda contrattuale - quella che forse maggiormente risulta investita dai nuovi modi di organizzazione degli scambi che si affermano nelle società industriali (o post – industriali) avanzate, sollecitando non solo l’attenzione del legislatore ma anche quella dell’interprete”.

obblighi di comportamento, soprattutto obblighi di informazione, che permettano di assicurare una maggiore trasparenza del regolamento contrattuale e di limitare possibili “abusi” che in presenza di una situazione di asimmetria tra le parti un contraente possa porre in essere nei confronti dell’altro.

Come è stato osservato in dottrina si tratta di normative che possono certamente considerarsi espressione del principio generale della buona fede in

contraendo, già presente nel sistema in forza della norma dell’art. 1337 c.c.391. Dunque è opportuno chiedersi se parte di questi comportamenti che sono stati “tipizzati” dal legislatore comunitario, e conseguentemente dal nostro, come pratiche commerciali scorrette fossero già “sanzionabili” sulla base di altre norme presenti nel nostro ordinamento.

In proposito viene immediatamente alla mente il principio di buona fede richiamato nel nostro ordinamento in diverse norme ed in particolare le previsioni dell’art. 1337 c.c. che impone l’obbligo di comportarsi secondo buona fede nello svolgimento delle trattative, dell’art. 1375 c.c. che impone l’obbligo di eseguire il contratto secondo buona fede nonché dell’art. 1175 c.c. che impone al debitore ed al creditore di comportarsi secondo le regole della correttezza.

A queste norme devono poi aggiungersi gli artt. 1358 e 1366 c.c. che alludono alla buona fede con riferimento rispettivamente all’ipotesi di pendenza della condizione ed all’interpretazione del negozio nonché l’art. 2598 n.3 che si riferisce alla scorrettezza dell’atto di concorrenza.

In queste norme, secondo l’opinione oggi prevalente in dottrina, la buona fede assume il significato di correttezza o buona fede in senso oggettivo, ponendosi quale regola di condotta alla quale devono attenersi le parti del contratto come più in generale i soggetti di qualsiasi rapporto obbligatorio392, con ciò distinguendosi nettamente dalla buona fede in senso soggettivo, intesa

391 D’AMICO G., La responsabilità precontrattuale, op. cit., p. 989.

392 Così BIANCA C.M., Diritto civile, 3, Il contratto, Giuffrè, Milano, 2000, p. 500, ROPPO

V., Il contratto, Milano 2001, in Trattato di diritto privato, a cura di G. Iudica e P. Zatti, p. 493, BIGLIAZZI GERI L., voce Buona fede nel diritto civile, in Digesto delle discipline

privatistiche- sez. civ., Torino, 1988, p. 169, DI MAJO A., Delle obbligazioni in generale, in Commentario del Codice Civile Scialoja-Branca, a cura di F. Galgano, p. 290 ss.

quale fatto psicologico, ossia la positiva convinzione di comportarsi jure dipendente da semplice ignoranza del vero o da una erronea rappresentazione della realtà393.

La dottrina oggi prevalente, infatti, rifiuta le proposte di differenziazioni delle nozioni di buona fede e correttezza avanzate talora in dottrina, ritenendo che le due nozioni coincidano, seppur espresse con termini diversi394.

Non convince la tesi che tende a distinguere la buona fede dalla correttezza sulla base della considerazione che la prima presiederebbe all’attuazione di rapporti obbligatori nascenti da contratto, mentre la seconda a quella dei rapporti non aventi origine contrattuale, dunque sulla base di un diverso presunto ambito di incidenza, in quanto priva di rilevanza pratica395.

Né convince la tesi secondo la quale la buona fede presupporrebbe l’esistenza di uno specifico rapporto mentre la correttezza ne prescinderebbe, per cui la prima sarebbe destinata ad intervenire in sede di interpretazione e di attuazione del rapporto obbligatorio, imponendo un atteggiamento di fattiva cooperazione nell’interesse altrui, mentre la seconda si tradurrebbe in un comportamento di astensione da indebite ingerenze nell’altrui sfera giuridica, la cui più significativa applicazione si avrebbe negli artt. 1337 e 1338, concernenti ipotesi nelle quali non si pone un problema di rapporto ma di generico contatto sociale tra sfere giuridiche contrapposte. Tale opinione sembra essere, infatti, il risultato di una trasposizione, nel nostro ordinamento, di soluzioni adottate nell’ordinamento tedesco, trasposizione che appare indebita se si tiene conto del fatto che, viceversa, nel nostro ordinamento è proprio l’art. 1175, in cui si parla di correttezza, a presupporre, attraverso un

393 BIGLIAZZI GERI L., op. cit., p. 159.

La sostanziale coincidenza della buona fede in senso oggettivo con la correttezza può considerarsi un dato acquisito, essendosi superato anche il riferimento del BETTI E., Teoria

generale delle obbligazioni, I, Milano, 1953, p. 68 ss., al contenuto positivo o negativo del

comportamento. Così BIANCA C.M., Diritto civile, 3, Il contratto, Giuffrè, Milano, 2000, p. 500. Sul punto si vedano, fra gli altri, BENATTI F., La responsabilità precontrattuale, Milano, 1963, p. 47 ss., e SCOGNAMIGLIO R., Dei requisiti del contratto, sub. art. 1337, in

Commentario del codice civile, a cura di Scialoja e Branca, Bologna, 1970, p. 204, nonché

BIGLIAZZI GERI L., voce Buona fede nel diritto civile, in Digesto delle discipline

privatistiche - sez. civ., Torino, 1988, p. 170.

394 DI MAJO A., op. ult. cit., p. 294.

395 In tal senso DI MAJO A., op. ult. cit., p. 293; analogamente BIGLIAZZI GERI L., op. cit.,

esplicito riferimento al creditore ed al debitore, l’esistenza di un rapporto obbligatorio, mentre è l’art. 1337 a far esplicito riferimento alla buona fede396.

Né tantomeno sembra possibile distinguere le due nozioni affermando che la buona fede imporrebbe solo “doveri di carattere positivo” e la correttezza “obblighi di carattere negativo”.

Infatti anche tale interpretazione fornisce basi molto incerte per distinguere la correttezza dalla buona fede in quanto il distinguere obblighi positivi da doveri di contenuto negativo può dipendere davvero dalle singole situazioni in cui quelle nozioni sono destinate ad operare, per cui sia la buona fede che la correttezza potrebbero operare per mezzo dell’imposizione di doveri sia negativi che positivi, non sussistendo preclusioni che possano farsi dipendere dalle diverse esigenze cui rispettivamente la buona fede e la correttezza dovrebbero assolvere.

Ammesso, dunque, che la buona fede e la correttezza esprimono uno stesso concetto, anche se con una terminologia diversa, bisogna capire in cosa esso consista.

In particolare, questione controversa è quella relativa al significato e funzione del principio di correttezza e buona fede, essendo discusso in dottrina se esso sia determinabile a priori oppure no.

Infatti, secondo un primo orientamento, la buona fede svolgerebbe una funzione integrativa a priori, per cui il principio di buona fede avrebbe una portata in un certo senso normativa, quale fonte di obblighi.

Se intesa come criterio di integrazione del contratto, infatti, la buona fede serve a determinare contenuto e modalità delle prestazioni o dei comportamenti contrattualmente dovuti o vietati, obbligando, in estrema sintesi, ciascuna delle parti a comportarsi, nell’ambito del rapporto contrattuale, in modo da non pregiudicare, e anzi da salvaguardare il ragionevole interesse di controparte, quando ciò non comporti a suo carico nessun apprezzabile e ingiusto sacrificio397.

396 Per una critica a tale impostazione si veda BIGLIAZZI GERI L., op. cit., p. 169.

397 ROPPO V., Il contratto, Milano, 2001, in Trattato di diritto privato, a cura di G. Iudica e

P. Zatti, p. 494, e nello stesso senso BIANCA C.M., Diritto civile, 3, Il contratto, Giuffrè, Milano, 2000, p. 501 secondo il quale “la buona fede rileva come fonte primaria d’integrazione del rapporto, prevalente anche sulle determinazioni contrattuali”.

Tuttavia va anche rilevato che, a differenza di altre regole, la buona fede non impone un comportamento a contenuto prestabilito, ma è piuttosto una clausola generale che richiede comportamenti diversi, positivi od omissivi, in relazione alle concrete circostanze di attuazione del rapporto398.

Ciò per altro non comporterebbe, secondo tale dottrina, che essa non si presti ad essere sufficientemente determinata con riferimento a dati effettivi tratti dall’esperienza della vita di relazione. Perciò, sulla base dell’esperienza, confermata anche da alcune decisioni giurisprudenziali, dovrebbe ricondursi la buona fede in senso oggettivo o correttezza all’idea di fondo della solidarietà, più esattamente, con riferimento alle parti contrattuali, all’esigenza della solidarietà contrattuale.

In quanto tale, poi, si specificherebbe in due fondamentali canoni di condotta, imponendo in particolare, nell’ambito della formazione ed interpretazione del contratto, la lealtà del comportamento, e nell’esecuzione del contratto e del rapporto obbligatorio, un obbligo di salvaguardia, consistente nell’agire in modo da preservare gli interessi dell’altra parte a prescindere da specifici obblighi contrattuali e dal dovere extracontrattuale del

neminem laedere399.

Viceversa, secondo un altro orientamento, attribuire al principio di buona fede funzione lato sensu integrativa a priori equivarrebbe a ridurre il complesso gioco delle relazioni intersoggettive ad una serie standardizzata di comportamenti preidentificati dalla giurisprudenza, con la conseguenza di rendere ogni singola vicenda contrattuale, nella quale la disciplina della correttezza dovrebbe intervenire, impermeabile al continuo, non sempre prevedibile mutare delle circostanze400.

Né sarebbe possibile, secondo tale tesi, assegnare funzione integrativa alla buona fede e contemporaneamente affermare che tale funzione non si

398 Così BIANCA C.M., Diritto civile, 3, Il contratto, Giuffrè, Milano, 2000, p. 502. 399 BIANCA C.M., Diritto civile, 3, Il contratto, Giuffrè, Milano, 2000, p. 505.

400 BIGLIAZZI GERI L., Buona fede nel diritto civile, voce in Digesto delle discipline

privatistiche - sez. civ., Torino 1988, p. 171-172; NATOLI U., L’attuazione del rapporto obbligatorio, I, Milano, 1974, in Trattato di diritto civile e commerciale, a cura di Cicu A. e

Messineo F., p. 26 ss. il quale afferma “l’impossibilità di una definizione precisa ed aprioristica del contenuto normativo delle regole della correttezza e della buona fede, ma non esclude che possa cogliersi la rilevanza per così dire tendenziale del criterio, che in queste si esprime”.

tradurrebbe nell’aprioristica ed astratta imposizione di doveri reciproci di comportamento, ma in una serie di doveri destinati ad attualizzarsi nello svolgimento del rapporto in relazione alle esigenze man mano nascenti, o che la determinazione di detti obblighi sarebbe rimessa al giudice e, quindi, conosciuta dalle parti in sede di giudizio, cioè a posteriori. Infatti la tesi contestata o non permette di evitare la necessità di un’astratta e generica previsione di obblighi a priori, sia pure destinati ad essere precisati in