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Il clonaggio nel vettore pET28-pme ha portato alla produzione di proteine con una coda di istidine (6His-tag) all’estremità amminica. Il tag consente la purificazione della proteina di interesse mediante cromatografia di affinità con resine al nichel o al cobalto, grazie all’interazione specifica delle istidine con questi ioni. La cromatografia non è stata utilizzata per le due proteine mutanti poiché sono state ottenute praticamente pure dai corpi di inclusione.

Il clonaggio è fatto in modo tale che nel punto di fusione tra proteina e 6His-tag ci sia un sito di clivaggio riconosciuto dall’enzima proteolitico trombina.

Prima di procedere alla digestione del campione, è stato fatto un saggio analitico con diversi rapporti trombina/proteina (unità/µg). Si sono testati i rapporti : 1U/50µg, 1U/100µg, 1U/150µg e 1U/200µg e la reazione è stata condotta sia a 37 °C per 1h sia a 4 °C o/n.

Le condizioni ottimali per il completamento della digestione e la stabilità in soluzione della proteina digerita prevedono che la reazione avvenga a 4 °C o/n con un rapporto di 1U trombina/50µg proteina.

La reazione finale perciò è:

Tris-HCl 0,25 M 228 µl (concentrazione finale 25 mM : in parte deriva dal buffer di dialisi in cui si trova la proteina e in parte è aggiunto) NaCl 0,16 M / / (si ottiene per diluizione del buffer della proteina) Del1 (3 mg/ml) 900 µl

Trombina (1U/µl) 54 µl

H2O 1.818 ml

Totale 3 ml

La reazione è lasciata a 4 °C o/n. Il normale protocollo di digestione prevede l’inattivazione della trombina mediante aggiunta di PMSF 0.5 mM e incubazione a 37°C per 15’; a causa della scarsa stabilità della proteina e, poiché la presenza della trombina non influisce sui saggi successivi, questo passaggio viene tralasciato.

Per verificare l’avvenuta digestione si prelevano 30 µl della reazione prima e dopo

7. SAGGI DI ATTIVITÁ DELLA FOSFOLIPASI

Preparazione del substrato

1. Fosfolipide marcato radioattivamente

- Essiccare in speed-vac il fosfolipide radioattivo (1.8 µl all’attività specifica di 25 * 10-3 µCi/µl);

- aggiungere un po’ d’acqua (due volte il volume del fosfolipide marcato);

- essiccare in speed-vac;

- risospendere in 34 µl di H2O + 0.1% Triton

2. Fosfolipide non marcato

- Preparare una soluzione stock 100 mM toluene;

- essiccare 2 µl di fosfolipide 100 mM in speed-vac;

- aggiungere un po’ d’acqua (es. 10 µl);

- essiccare in speed-vac;

- risospendere in 200 µl di H2O + 0.1% Triton in modo da ottenere una soluzione a concentrazione 1 nmole/µl.

Reazione

Concentrazione finale Fosfolipide radioattivo (25 * 10-3 µCi/µl) 34.0 µl

Fosfolipide non mercato (1 nmole/µl) 6.0 µl 0.04 mM

40.0 µl

Triton 20x (2%) 5.5 µl

NaCl 3M 7.1 µl 140 mM

HEPES 100 mM pH 8.0 30.0 µl 20 mM

CaCl2 1 M 4.5 µl 30 mM

H2O 44.8 µl

Enzima (Del1) 1.1 µg/µl 18.1 µl 0.13 µg/µl

Totale 150 µl

Procedura

- Incubare la reazione a 30 °C per 1h;

- aggiungere 150 µl di agente bloccante, dato da EDTA 0.1 M e NaCl 2 M;

- aggiungere 21 µl di acido formico 88%;

- effettuare due estrazioni successive con 300 µl di etile acetato;

- essiccare completamente gli estratti in speed-vac;

- risospendere in 10 µl di cloroformio:metanolo 8:2 (800 µl di cloroformio e 200 µl di metanolo);

- caricare su lastra per TLC (Silica gel/TLC-cards Fluka) in microaliquote da 1-1.5 µl;

- ripetere la sospensione in cloroformio:metanolo e caricare di nuovo;

- porre la lastra nell’apposito contenitore contenente il solvente per la corsa cromatografia.

La lastra per TLC va attivata mediante riscaldamento a 100 °C per 1h prima del caricamento dei campioni.

La camera in cui avviene la cromatografia deve essere satura di solvente; per verificare che questa condizione sia rispettata, si pone nella soluzione cromatografia una striscia di carta 3MM e si aspetta che questa sia completamente imbibita. A questo punto è possibile introdurre la lastra nel contenitore; la corsa viene fermata quando il solvente dista 1-2 cm dal bordo superiore della lastra.

Solvente per TLC

Il solvente utilizzato ha la seguente composizione:

60 cloroformio: 40 metanolo: 5 NH3 6%

Acquisizione dell’immagine e analisi dei dati

La lastra per TLC, una volta estratta dalla camera di corsa, viene lasciata asciugare ed esposta al Personal Molecular Imager® (Bio-Rad) per almeno 1h.

I segnali relativi alle bande di interesse vengono visualizzati, analizzati e quantificati mediante l’utilizzo dei programmi Quantity One (Bio-Rad) e Multi-analyst®/PC (Bio-Rad).

8. METODI DI CRISTALLIZZAZIONE

La cristallizzazione si basa sulla possibilità di portare le macromolecole in fase solida in maniera ordinata, in modo che formino una struttura periodica. Le condizioni necessarie per fare questo sono due: prima di tutto, la proteina deve essere sufficientemente concentrata e pura; in secondo luogo, la soluzione in cui il campione si trova deve essere supersaturata. In una soluzione satura, infatti, le molecole libere e la fase solida sono in equilibrio: ciò significa che il passaggio di molecole tra le due fasi è uguale nei due sensi, e in queste condizioni i cristalli non crescono. In una soluzione supersaturata, invece, viene ridotta la solubilità della proteina facendo evaporare il solvente gradualmente: in questo modo le molecole lasciano il solvente per unirsi alla fase solida, fino a riportare il sistema all’equilibrio; se questo passaggio è sufficientemente lento, le molecole tendono ad interagire in maniera ordinata, dando origine a cristalli.

Lo stato di supersaturazione può essere indotto modificando le proprietà del solvente, agendo su vari fattori.

Presenza di agenti precipitanti

Vengono generalmente classificati in quattro categorie.

- Sali: competono con le proteine nel legame delle molecole d’acqua, perciò hanno un effetto disidratante; per poter soddisfare le proprie esigenze elettrostatiche, le molecole proteiche cominciano ad associarsi e questo può portare alla formazione di cristalli. I sali maggiormente usati sono quelli di solfato, fosfato, citrato e acetato.

- Solventi organici: agiscono riducendo la costante dielettrica della soluzione, aumentando così la forza delle interazioni elettrostatiche che permettono alle molecole di attrarsi. Il più utilizzato è MPD (metil pentan diolo).

- Polimeri a catena lunga: es. PEG, che può avere un peso molecolare che varia da 400 a 20.000; agiscono sia competendo per l’acqua sia abbassando la costante dielettrica del medium, inoltre promuovono la separazione di fasi.

- Polimeri a basso peso molecolare e composti organici non volatili.

Variazioni di pH

La capacità di aggregazione delle proteine dipende dalla carica netta e dalla distribuzione delle cariche superficiali; di conseguenza, variazioni anche piccole nel valore di pH della soluzione possono influenzare le interazioni tra macromolecole e possono fare la differenza tra la formazione di precipitato amorfo e la crescita di cristalli.

Variazioni di temperatura

Alterando la temperatura a cui si lavora è possibile agire sulla solubilità e sulla stabilità della proteina. Quando si cerca di cristallizzare una proteina, perciò, è consigliabile fare tentativi in parallelo a 4 °C e a temperatura ambiente.

Ci sono, poi, molti altri fattori che possono in qualche modo condizionare la crescita dei cristalli. In particolare, si può lavorare sulla concentrazione della proteina oppure cercare di favorire e/o stabilizzare le interazioni facendo uso di detergenti, coenzimi, substrati, ioni metallici, agenti riducenti o ossidanti.

Tra le tecniche più comunemente usate per indurre lo stato di supersaturazione troviamo la diffusione di vapore: una soluzione reservoir (contenente gli agenti precipitanti) e una goccia di “mother liquor” (data per metà dal campione proteico e per metà dalla soluzione reservoir) vengono isolati dall’ambiente esterno, ma messi in contatto tra loro attraverso la fase gassosa; la minore concentrazione di agenti precipitanti nella goccia porta ad un lento passaggio di vapore acqueo da questa al reservoir, fino a che non viene raggiunto l’equilibrio. In questo modo gli agenti precipitanti si concentrano nella goccia, la soluzione proteica viene supersaturata e si può sperare nella crescita di cristalli.

I metodi usati nella tecnica di diffusione di vapore sono due: hanging drop e sitting drop.

Nella tecnica di hanging drop (o goccia sospesa), la goccia viene posizionata su un vetrino, che va a chiudere la camera in cui si trova il reservoir; la chiusura generalmente si ottiene grazie all’uso di un vetrino e di silicone, in modo che la camera risulti essere isolata dall’ambiente esterno (figura 15).

Nel caso del sitting drop (o goccia seduta), il campione proteico è posto nella cavità di un piedistallo posto al di sopra della soluzione reservoir; il pozzetto viene poi chiuso con un apposito nastro adesivo o con un vetrino e silicone (figura 15).

Figura 15: rappresentazione dei metodi hanging drop (a sinistra) e sitting drop (a destra). La soluzione reservoir contiene il tampone e gli agenti precipitanti, che sono presenti anche nella soluzione proteica ma a minore concentrazione; alla goccia possono anche essere addizionati ioni o metalli.

Le variabili che influenzano la formazione di cristalli sono numerose e non è stato finora possibile individuare un nesso tra le caratteristiche chimico-fisiche delle proteine e le condizioni ottimali di cristallizzazione, così come non c’è modo di prevedere il comportamento delle proteine nelle varie condizioni. Per ovviare al problema esistono kit commerciali che offrono molte combinazioni di pH, sali e agenti precipitanti per uno screening iniziale delle condizioni di cristallizzazione.

Non esiste un limite al numero di tentativi che si possono fare e l’esito delle prove spesso è negativo: le soluzioni, per lo più, sono limpide o presentano un precipitato amorfo. Nei casi migliori si ottengono dei cristalli, ma non sempre questi sono idonei alle successive analisi diffrattometriche; in questa situazione, però, si hanno delle indicazioni su come proseguire ed è possibile ottimizzare le condizioni di cristallizzazione lavorando nell’intorno di quelle di partenza; si possono variare le soluzioni tampone, il pH, l’intensità della forza ionica o il tipo di sale, allo scopo di

RISULTATI E DISCUSSIONE

1. PROGETTAZIONE DELLE VARIANTI MUTATE DI TbSP1

In precedenti lavori di tesi sono stati effettuati con successo vari tentativi di cristallizzazione della fosfolipasi TbSP1; i cristalli così ottenuti sono risultati idonei all’analisi mediante diffrazione dei raggi X, ma tuttora le informazioni relative alla struttura tridimensionale di TbSP1 non sono complete. Attualmente parte della struttura è stata risolta ed è stata ottimizzata mediante confronto con quella della fosfolipasi A2 di Streptomyces violaceoruber, l’unica PLA2 del gruppo XIV di cui sia stata pubblicata la struttura. In TbSP1, però, è presente un dominio aggiuntivo rispetto alle altre fosfolipasi A2 di cui non è ancora stato possibile ottenere la struttura (O. Einsle, comunicazione personale).

È sembrato interessante che TbSP1 avesse questa regione aggiuntiva e ci si è chiesti se potesse in qualche modo influire sull’attività della proteina. La prima delle due forme mutate, perciò, è stata progettata sulla base di queste informazioni in modo che venisse a mancare proprio il dominio addizionale all’N-terminale. Questa proteina è stata nominata Del1 ed è costituita dalla porzione di TbSP1 sovrapponibile alla PLA2 di S.

violaceoruber (figura 16 e 17).

La seconda variante, denominata Del2, è stata progettata in modo tale che fosse deleta una regione più estesa all’N-terminale di TbSP1. Questa regione è stata scelta sulla base di un allineamento di sequenze rappresentative di fosfolipasi A2 del gruppo XIV. In particolare, dall’allineamento multiplo è risultato evidente che, mentre i siti catalitico e di legame del calcio sono perfettamente conservati sia nei batteri sia nei funghi, la porzione appena precedente è molto meno conservata e presenta pochi punti in comune tra le varie sequenze (figura 16). Prendendo a modello la struttura di S. violaceoruber, è possibile stabilire che la delezione va a cadere nel loop che collega i due domini di α-eliche, senza però eliminare le cisteine conservate o residui catalitici importanti (figura 17).

conservazione nella regione N-terminale è nettamente ridotta rispetto al sito catalitico. Gli organismi considerati sono: Neurospora crassa (Nc), Helicosporium (p15), Magnaporthe grisea (Magna), Streptomyces coelicolor (S_coe), Streptomyces violaceoruber (S_vio). La freccia azzurra indica il residuo

Figura 17: strutture ipotetiche di Del1, a sinistra, e Del2, a destra, dedotte da quella nota di S.

violaceoruber. In verde lo ione calcio, in giallo i residui di cisteina, in rosso la diade catalitica HD.

2. CLONAGGIO, ESPRESSIONE E PURIFICAZIONE DELLE VARIANTI MUTATE DI TbSP1, Del1 E Del2

2.1 Reazione di PCR per la creazione delle forme delete di TbSP1

Al fine di ottenere frammenti di cDNA che codificano per le due forme mutate di TbSP1 è stata assemblata una reazione di PCR utilizzando dei primer interni alla regione che codifica per l’N-terminale della proteina. Come templato è stato utilizzato il cDNA di TbSP1 ottenuto da precedenti lavori di tesi. I primer utilizzati per le due reazioni sono riportati in figura 18; per le condizioni di reazione si rimanda alla sezione

“Materiali e metodi”.

Del1:

TbSP1-Del1-plus 5’ ttgtcaccggtatctgacacc 3’ Tm= 64 °C CpO_TbSP1-minus 5’ ttacaaccaaccgaaggtgcg 3’ Tm= 64 °C

Del2:

TbSP1-Del2-plus 5’ aacttggactggagcgatgatgg 3’ Tm= 70 °C CpO_TbSP1-minus 5’ ttacaaccaaccgaaggtgcg 3’ Tm= 64 °C

Figura 18: Sequenze degli oligonucleotidi utilizzati per l’amplificazione dei cDNA codificanti per le proteine Del1 e Del2.

Sono stati così ottenuti un amplicone di 363 bp per Del1 e uno di 276 bp per Del2.

2.2 Clonaggio degli ampliconi nel vettore di espressione pET28-pme

Per ottenere quantità sufficienti di entrambe le proteine, gli ampliconi sono stati introdotti nel vettore pET28-pme (5401 bp), la cui sequenza presenta: un gene lacI, che codifica per il repressore lac; un gene per la resistenza alla kanamicina; un sito di clonaggio multiplo posto sotto il controllo del promotore forte della RNA polimerasi T7.

Le cellule usate per la trasformazione esprimono la RNA Pol T7 grazie ad un gene cromosomale controllato dal promotore lacUV5. Entrambi i promotori (lacUV5 e T7 sul vettore) sono insensibili all’inibizione da galattosio, ma sono inducibili da lattosio o analoghi come l’isopropyl-β-D-tiogalattopiranoside (IPTG). L’aggiunta di IPTG alla coltura batterica, perciò, porta alla sovra-espressione della proteina clonata nel vettore (figura 19).

Figura 19: rappresentazione del sistema pET: il gene bersaglio sul vettore è sotto il controllo del promotore forte di T7, il cui gene è cromosomale ed è sotto il controllo del promotore lacUV5. Su entrambi i promotori agisce il repressore lac, il cui gene si trova sia sul vettore sia sul cromosoma delle cellule trasformate; l’aggiunta di lattosio o un suo analogo induce perciò l’espressione di entrambi i geni.

Il vettore consente l’espressione della proteina ricombinante con un “histidine tag”, cioè una coda di 6 His fusa all’N-terminale; questa è utile per la purificazione mediante cromatografia di affinità con una resina al nichel o al cobalto (si sfrutta la capacità dell’istidina di interagire con questi metalli).

Il clonaggio degli ampliconi nel vettore è stato effettuato utilizzando il sistema di

“Bolcloning”, che prevede un’unica reazione in cui avviene contemporaneamente

b)

l’apertura del vettore e la ligazione del frammento da inserire (dati non pubblicati). È stato utilizzato il sito di clonaggio SnaBI (figura 20).

Figura 20: a) rappresentazione del vettore del vettore pET28-pme; b) sequenza del vettore nella regione del clonaggio; sono indicate la coda di istidine, il sito di taglio della trombina e il sito di clonaggio utilizzato.

Terminatore di T7 Sito di clonaggio Sito trombinico

6His-tag

a)

2.3 Espressione in Escherichia coli

I costrutti ottenuti dal clonaggio sono stati utilizzati per la trasformazione di cellule elettro-competenti Bl21 CodonPlus (DE3) di Escherichia coli. I batteri trasformati sono stati indotti a 37 °C per 4 ore con IPTG 1 mM; piccole aliquote dei campioni, prelevate prima e dopo l’induzione, sono state caricate su un gel di poliacrilamide in condizioni denaturanti (SDS-PAGE) per verificare l’espressione delle due proteine (figura 21).

La stessa analisi è stata eseguita su sedimento e surnatante ottenuti dopo un ciclo di sonicazione e di centrifugazione, per valutare la solubilità delle proteine (dati non riportati).

Da queste analisi è emerso che entrambe le proteine sono espresse a buoni livelli, ma la loro solubilità è praticamente nulla.

Il peso molecolare di Del1 è di 16.6 kDa, mentre per Del2 è 13.5 kDa.

Figura 21: analisi mediante SDS-PAGE per valutare l’espressione delle proteine Del1 e Del2.

NI= non indotto, I= indotto, M= marker.

2.4 Ottimizzazione delle condizioni di espressione

Per riuscire ad ottenere le due proteine in forma solubile sono state fatte varie prove di induzione a temperature e tempi diversi; oltre alle induzioni a 37 °C per 4 ore, infatti, sono state tentate le induzioni a temperatura ambiente per 1 e per 2 giorni. In entrambi i casi l’espressione era buona ma la solubilità rimaneva scarsa (dati non riportati).

Del1 Del2 14 kDa

33 kDa

M NI I NI I

2.5 Purificazione a partire dai corpi di inclusione

Entrambe le proteine si sono dimostrate insolubili in più condizioni di induzione; è probabile che esse non siano in grado di ripiegarsi correttamente e vadano, perciò, a formare degli aggregati insolubili che prendono il nome di corpi di inclusione. A questo punto si è resa necessaria la purificazione delle proteine a partire da questi corpi di inclusione; l’induzione è stata fatta a 37 °C per 4 ore.

La procedura di purificazione prevede una doppia sonicazione della coltura batterica indotta: in seguito al primo ciclo di sonicazione, che serve a rompere le cellule, la coltura viene centrifugata; solo il pellet, contenente i corpi di inclusione, viene sottoposto ad un secondo ciclo in presenza di un tampone con urea 2 M e Triton™ X-100 al 2%, che facilitano lo scioglimento dei corpi di inclusione.

Dopo le centrifugazioni che seguono entrambe le sonicazioni vengono prelevati dei campioni da caricare su un gel di poliacrilamide in condizioni denaturanti (figura 22).

Dall’analisi del gel, si è visto che le due proteine erano già sufficientemente pure, perciò si è proceduto direttamente con la rinarurazione, saltando il passaggio di purificazione mediante cromatografia di affinità metallica.

Figura 22: analisi mediante SDS-PAGE per valutare l’induzione e la presenza nei corpi di inclusione delle due proteine, Del1 e Del2. Sono mostrati pellet e surnatante dei campioni prelevati dopo la seconda sonicazione.

P= pellet, S= surnatante.

M NI I P S NI I P S

Del1

Del2

2.6 Rinaturazione delle proteine mediante dialisi

La dialisi è una tecnica tipicamente utilizzata per cambiare la soluzione tampone in cui si trova un campione proteico o per rimuovere molecole a basso peso molecolare; la membrana da dialisi è semipermeabile e consente il passaggio solo di molecole di piccole dimensioni (sali,acqua, ioni, tamponi..).

La tecnica può essere applicata alla rinaturazione di proteine estratte dai corpi di inclusione grazie all’utilizzo di opportune soluzioni tampone; è stata utilizzata una membrana con un cut-off di 3500.

Il pellet proveniente dalla centrifugazione a seguito della seconda sonicazione è stato risospeso in un tampone contenente guanidinio idrocloruro 6 M, un forte agente denaturante, e β-mercaptoetanolo 1 mM, un agente riducente. Tale soluzione è stata posta nel tubino da dialisi chiuso alle estremità e immerso in un largo eccesso di una soluzione contenente urea 6 M e β-mercaptoetanolo 1 mM.

La rinaturazione è ottenuta grazie ad un gradiente di urea da 6 a 0 M: la soluzione esterna, cioè, è stata regolarmente sostituita con una a concentrazione molare di urea minore (da 6 a 5, da 5 a 4, e così via). La riduzione graduale dell’agente denaturante serve a favorire il lento ripiegamento delle proteine, aumentando così la probabilità che esse assumano il loro folding corretto.

Alla fine del processo dialisi, i campioni sono stati prelevati dai tubini e centrifugati per eliminare il precipitato che si era formato; sul surnatante è stata fatta una stima della concentrazione mediante il saggio di Bradford.

3. SAGGIO DI ATTIVITÁ DI Del1 E Del2

Sulle forma mutate di TbSP1 sono stati condotti dei saggi di attività per valutare se e quanto le delezioni influiscono sulla capacità della proteina di idrolizzare fosfolipidi.

Sono state condotte 9 reazioni:

- 1 controllo negativo, cioè una reazione priva di enzima;

- 2 controlli positivi, dati da 1 e 10 µg di TbSP1;

- 3 prove con Del1, usando rispettivamente 0.2, 2 e 20 µg di proteina;

- 3 prove con Del2, usando le stesse quantità di Del1.

Le reazioni sono state condotte a 30 °C per 1 ora e i campioni sono stati poi separati mediante TLC (vedi protocollo in “Materiali e metodi”).

In figura 23 sono riportati i risultati di queste reazioni.

Figura 23: saggio di attività fosfolipasica delle proteine Del1 e Del2; come controllo negativo è stata usata una reazione priva di enzima, come controllo positivo TbSP1 in diverse quantità.

Dal saggio è emerso chiaramente che Del1 ha mantenuto l’attività fosfolipasica e addirittura l’attività supera notevolmente quella di TbSP1; Del2, invece, non mostra alcuna attività.

Esperimenti condotti in un precedente lavoro di tesi indicavano una relazione di ─ Tbsp1 Tbsp1 Del1 Del1 Del1 Del2 Del2 Del12 1µg 10µg 0.2µg 2µg 20µg 0.2µg 2µg 20µg Acido

grasso

Fosfolipide non digerito

fosfolipasica. I dati ottenuti per Del1 nel saggio qui riportato sembrano confermare questa osservazione; un’eccessiva riduzione della regione precedente il sito catalitico, però, comporta la perdita di attività, come dimostrano i risultati avuti per Del2.

La mancanza di attività in questo secondo mutante potrebbe essere imputata a varie cause, tra cui una mancata o non corretta rinaturazione durante il passaggio di dialisi. In realtà, la dialisi ha funzionato molto bene per Del1 perciò non c’è motivo di pensare che non abbia funzionato per Del2. È più probabile, invece, che la mutazione stessa sia la vera causa dell’inattività: se si prende come riferimento la struttura riportata in figura 17, è facile immaginare che l’assenza delle prime due eliche impedisca al loop di strutturarsi correttamente e che il ponte disolfuro da solo non sia in grado di mantenere il loop nella posizione giusta. Poiché questa regione è fondamentale per il legame del calcio, un suo errato folding porterebbe all’impossibilità di legare il calcio e, di conseguenza, alla perdita di attività.

Al momento resta da verificare quale sia il motivo che sta alla base della perdita di

Al momento resta da verificare quale sia il motivo che sta alla base della perdita di

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