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Ce n’est pas la colle qui fait le collage82

Occorre a questo punto soffermarsi su quello che Navas definisce il “ragionamento” che rende possibile il remix, ovvero analizzare la pratica del remix a partire dagli atti che la compongono: atti logici, argomentativi, retorici e tecnici. Lungi dal ritenere la pratica effettivamente scomponibile in stadi separati, è tuttavia utile esplorare le

fasi che portano alla creazione di un remix audiovisivo, fasi che in alcuni casi possiamo anche associare a un’azione pratica, come il taglio o l’assemblaggio delle parti.

“What is a WIP?” si chiede, infatti, la vidder kuwodora durante il panel di discussione “WIP It Good” da lei moderato durante la convention Vividcon83 del 2012,

riferendosi all'acronimo che indica un “Work In Progress”. “Pre-vidding, outline/storyboarding, gruntwork, timeline, distribution84“. Con queste poche parole (su cui ritorneremo a breve) la vidder anoel ricostruisce la divisione in fasi proposta durante il panel per descrivere il lavoro di una vidder, una divisione “pratica” dell'atto di remix da cui ha origine un fanvid che rientra appieno nella maggior parte dei momenti da noi individuati.

Le sei fasi in cui scomporre l’atto del remix sono le seguenti:

Ricerca/Ritrovamento

La prima fase, solitamente sottovalutata nel trattare le operazioni di riuso, consiste nel reperimento dei materiali che verranno utilizzati per realizzare l’opera derivativa. Il momento di raccolta dei materiali è, sia a livello logico sia a livello tecnico, il primo passo per realizzare un’operazione basata sul loro riuso e manipolazione: l’autore dell’opera seconda entra in contatto con i materiali, li visiona, li ascolta – spesso lungamente e in maniera approfondita – e sceglie quali inserire nell’oggetto audiovisivo

83 Sulla convention rimandiamo al paragrafo 3.4.3.

84 anoel, “Vividcon 2012 Panel Notes Part 1”, anoel Dreamwidth Personal Blog, 13 agosto 2012,

http://anoel.dreamwidth.org/132339.html. Ricerca/Ritrovamento -- Selezione- Decontestualizzazione- Risemantizzazione -- Assemblaggio- Fruizione --

derivativo che vuole creare. L’ho definita fase di Ricerca/Ritrovamento perché, in effetti, se guardiamo a opere che si basano sul riuso di materiali audiovisivi ci troviamo di fronte sia a casi in cui materiali di partenza sono stati ricercati, visionati e accuratamente scelti dall’autore, sia a casi di opere realizzate con materiali “trovati” e reperiti casualmente, dai quali l’autore trae ispirazione per realizzare un’opera nuova. In alcune occasioni, possiamo anche rinvenire contemporaneamente entrambi gli stati, qualora ci si trovi di fronte a opere create con materiali ibridi.

The kind of research I do depends on what the starting point is. One way to approach my subject is to read something […] to go to museums to find film material relating to this subject, to have an idea of how to use this material, and to make something out of it. My second approach was/is to just be alert when I’m in labs or walking in the street. I collect films. […] I pass by and take a look, and if I find something, I take it with me. I also use a third approach. I begin with an idea about what I would like to work on. I try to restrict my field of research to archives where I’ve had some experience, and where the archivist are willing to cooperate with me. […] I tell them what kinds of things I’m looking for and they find what they can85

Nel caso del riuso cinematografico, l’idea del materiale trovato casualmente è per molti la definizione più appropriata di found footage: film realizzati attraverso pezzi di pellicola recuperati dai tavoli di montaggio o tra gli scarti della produzione, vecchie bobine familiari rinvenute in una scatola, film o programmi televisivi cui si assiste casualmente e che suscitano qualcosa nello spettatore che diventa, in seguito, attivo utilizzatore di quel materiale. Si tratta di lavori come Report di Bruce Conner (1976), di alcuni film di Abigail Child come Covert Action (1984) o Mayhem (1987) – quest’ultimo realizzato con audio registrato casualmente dalla televisione – o la maggior parte dei lavori di Cécile Fontaine, come La pêche miraculeuse (1995) – realizzato con bobine recuperate da amici della cineasta a un mercato delle pulci. Se ci spostiamo tra i lavori di riuso a mezzo video, tra i primi casi di remix audiovisivo realizzati in videotape possiamo citare le operazioni del gruppo londinese The Duvet Brothers, appartenenti al movimento Scratch: alcuni loro video come Fuh Fuh e Blue Monday, entrambi del 1984, utilizzavano immagini registrate casualmente su videotape dal flusso televisivo, poi montate utilizzando una colonna sonora rock e New Wave – Voice of Authority il primo e Blue Monday del gruppo inglese New

Order il secondo86.

85 Scott MacDonald, “A conversation with Gustav Deutsch”, Wilbirg Brainin-Donnenberg, Michael

Loebenstein (a cura di), Gustav Deutsch, Vienna, Synema, 2009, pp. 64-71, citato in Marente Bloemheuvel, Giovanna Fossati, Jaap Guldemond (a cura di), Found Footage. Cinema Exposed, Amsterdam, Amsterdam University Press-EYE Film Institute Netherlands, 2012, p. 80.

86 Sul fenomeno dello Scratch Video si vedano in particolare A.L. Rees, A history of experimental film and

video: from the canonical avant-garde to contemporary British practice, London, Palgrave Macmillan-

Il lavoro sui materiali può essere invece di tutt’altra natura e scaturire da una lunga ricerca d’archivio: questo è il caso della maggior parte dei cosiddetti film d’archives, i film realizzati da materiali provenienti da archivi e collezioni storiche. Sono questi i casi in cui l’autore dell’opera seconda si è dovuto confrontare con grosse quantità di materiale, cui si è avvicinato accidentalmente o con un progetto per l’operazione di riuso. Appartengono a questa tipologia di approccio lavori molto diversi che spaziano da una serie documentaria come Why we fight di Frank Capra (1943-1944) ai lavori di Péter Forgács sugli archivi ungheresi87. Nel caso dei remix provenienti da attività di fandom – come i fanvideo o gli AMV – il remix scaturisce dalla visione di ore di materiali, spesso reiterata e ripetuta, elemento alla base dell’attività di fandom. Il remixer, in questo caso, decide di elaborare un commento, un’analisi o una critica rispetto all’oggetto della sua affezione, esigenza che deriva, in primo luogo, dall’essere rimasto a contatto per lungo tempo con queste immagini.

[A]nyone who has ever edited video clips would likely attest to the fact that one must have passion for the footage; editing demands extensive playing and replaying of clips. Whether this passion issues from a fannish impulse or is one born of righteous indignation (or both) matters little88.

La ricerca/ritrovamento del sonoro – qualora non sia utilizzato quello diegetico del materiale remixato – può richiedere particolare attenzione e riflessione. Nel caso del fanvideo o dell’AMV, ad esempio, i remixer possono iniziare la loro composizione sia dal ritrovamento di una canzone che ritengono adatta e su cui costruiscono poi l’impianto visivo sia, all’opposto, partire da un’idea e da materiali visivi e cercare in seguito la colonna sonora che meglio si adatta. Per tornare alle fasi del vidding citate sopra, ci troviamo nella fase di pre-vidding, la fase preliminare che comprende “searching for and obsessively listening to songs89“. Ritorneremo su questo punto nella descrizione di quello che le vidder chiamano vidding process al paragrafo 3.3.2.

Determination of Style in Video Art”, Philip Hayward (a cura di) , Culture, technology & creativity in the

Late Twentieth Century, London, John Libbey, 1990, pp. 111–125.

87 La serie, intitolata Private Hungary, creata a partire da film amatoriali ungheresi filmati tra gli anni Trenta

e gli anni Sessanta del secolo scorso, comprende al momento quattordici film: The Bartos Family (1988),

Dusi & Jenő (1988), Either – Or (1989), The Diary of Mr. N. (1990), D-Film (1992), Photographed by László Dudás (1992), Bourgeois Dictionary (1992), The Notes of a Lady (1994), The Land of Nothing

(1996), A Bibo Reader (1996), Free Fall (1996), Class Lot (1997), Kádár’s Kiss (1997), The Bishop’s

Garden (2002).

88 Virginia Kuhn, “The rhetoric of remix”, Transformative Works and Cultures, n. 9, 2012,

http://journal.transformativeworks.org/index.php/twc/article/view/358/279.

89 bironic, “VVC report part 2 -- Panels”, bironic Livejournal Personal Blog, 14 agosto 2012,

A livello tecnico, questa fase comporta il reperimento dei materiali in formato digitale e, di conseguenza, l’eventuale digitalizzazione di materiali analogici (che avviene molto più raramente nei casi di remix “amatoriale”). I metodi con cui il remixer entra in possesso dei materiali sono molteplici: possono essere registrati su supporto digitale dalla diretta di un programma televisivo, ad esempio, o essere recuperati sotto forma di file attraverso il download peer-to-peer, o essere estrapolati – rippati – da un supporto come il DVD o da un sito online. Successivamente, i materiali – spesso di formati differenti – devono essere conformati attraverso procedure di compressione e conversione. Le competenze tecniche attivate per svolgere questa fase, che ovviamente variano da persona a persona e possono in molti casi essere svolte in maniera automatica da molti software commerciali, riguardano la conoscenza dei formati sia analogici (data la provenienza di molte fonti dal mezzo televisivo, particolare rilevanza hanno le conoscenze riguardanti i formati televisivi NTSC e PAL e quelle riguardanti la conversione e l’adattamento da un formato all’altro) che digitali (formati dei file container e codec delle immagini), aspect

ratio, frequenza di fotogrammi, interlacciamento e colore delle immagini, compressione

audio e video90.

La remixer Elisa Kreisinger, ad esempio, così riassume sul suo sito web le prime fasi della creazione di un remix nella guida “The basics of video remixing!” :

1. Gather source materials. You can do this by taping commercials off TV, pulling clips from online video sharing sites like YouTube or downloading from file sharing sites like Bit Torrent. […].

2. Convert file formats Some of your source materials might be different formats or in a format that doesnʼt communicate with your editing software. Programs like MPEG Streamclip allow clips to be converted to and from any format. Check what format your software (Final Cut Pro, iMovie, etc) needs and then start converting your source files to that format91.

Selezione

La fase di selezione comporta la scelta, all’interno dei materiali raccolti, delle porzioni che verranno effettivamente inserite all’interno dell’opera derivativa.

Lev Manovich identifica nella logica selettiva una delle operazioni alla base del linguaggio dei nuovi media: scegliere da un menù di oggetti e opzioni predefiniti è l’atto fondante di

90 File container: formato di file che può contenere differenti tipi di dati compressi, tra i più comuni che

supportano sia audio che video si hanno AVI, MKV, MOV, MP4 e OGG. Il codec è un programma o dispositivo in grado di codificare un flusso – in questo caso audio o video – e renderlo memorizzabile all’interno di un file. Per aspect ratio si intende il rapporto tra l’altezza e la larghezza di un’immagine. Infine, per interlacciamento si intende un tipo di scansione delle immagini video suddivise in linee pari e dispari.

91 Elisa Kreisinger, “The basics of video remixing!”, Pop Culture Pirate, s.d.,

qualunque attività realizzata all’interno di un software o in ambienti digitali come i siti web. Pur riconoscendo la costante presenza dell’atto di selezione tra materiali preesistenti nel corso della storia dell’arte e, all’atto pratico, nelle pratiche artistiche novecentesche (ad esempio nel fotomontaggio), Manovich indica la logica selettiva dei nuovi media come intrinsecamente differente. La standardizzazione a mezzo software della selezione, infatti, comporterebbe la normalizzazione e l’appiattimento dell’atto selettivo: protocollo operativo che regola il funzionamento del metamedium computerizzato, codificata nel software, la logica selettiva diventa quindi una “forma di controllo” che punta a sembrarci “naturale”92.

Nella logica del riuso, come rimarca lo stesso Manovich, l’atto di selezione è sempre esistito, e sebbene la facilità e immediatezza del gesto di prelievo fornita dai mezzi digitali sia una delle ragioni alla base della diffusione capillare del remix, non per questo, a nostro avviso, il funzionamento del gesto dovrebbe differire in maniera sostanziale dai suoi predecessori.

Lisa Gitelman, nell’introduzione ad Always Already New, scrive a proposito degli studi condotti sui media: “If there is a prevailing mode in general circulation today, I think it is a tendency to naturalize or essentialize media – in short, to cede to them a history that is more powerfully theirs than ours”. E ancora: “Media are frequently identified as or with technologies, and one of the burdens of modernity seems to be the tendency to essentialize or grant agency to technology93”.

Gitelman giustifica questa tendenza con la difficoltà insita nel trattare questioni di agency mediale, più complessa da individuare, da categorizzare e da spiegare. Tuttavia tale complessità non può far dimenticare la presenza del “fattore umano” nella storia dei media: chi inventa, costruisce, gestisce, distribuisce e, soprattutto, utilizza i media, facendoli entrare nella propria quotidianità sotto varie forme. Il lavoro di Manovich – punto di riferimento imprescindibile per chiunque indaghi fenomeni appartenenti al regime dei nuovi media – e il suo metodo di “materialismo digitale” spesso cadono nell’errore di “essenzializzare” le tecnologie contemporanee: nel tentativo di frenare gli eccessivi entusiasmi riguardanti la forza progressista delle pratiche “dal basso” degli utenti finiscono per negarle o sminuirle eccessivamente. Nel caso del riuso, sebbene siano molteplici e vari i cambiamenti causati dallo spostamento dal campo artistico e cinematografico al riuso

92 L. Manovich, Il linguaggio dei nuovi media, cit., p. 169.

93 Lisa Gitelman, Always Already New Media, History, and the Data of Culture, Cambridge, London, MIT

grassroots quotidiano del remix, è a nostro avviso opportuno indagare la pratica dal punto

di vista dell’agency di chi la mette in atto. Da questa osservazione è possibile riscontrare significative analogie tra forme di riuso appartenenti a momenti molto distanti nella storia dei media.

Entrando nello specifico della selezione, nel collage questa era il gesto, in particolare nei decenni delle prime avanguardie, con cui si sceglieva una porzione di realtà da inserire all’interno della composizione:

I am tempted to see in collage the exploitation of the chance meeting of two distant realities on an unfamiliar plane… A ready made reality […] finding itself in the presence of another and hardly less absurd reality […] in a place where both of them must feel displaced94.

I cineasti che hanno praticato il riuso spesso discutono della logica che informa le selezioni dei materiali e come questa selezione determini il corso dei loro film:

the film idea originates in looking at all these different footage, classifying and selecting them while finding correspondences in kinds, qualities and appearances95.

I looked carefully at the home movies I had collected, without any structure in mind. Then I decided to categorize the films into “actions”, meaning the activities of the filmmakers as they made the films; and “reactions”, meaning the reactions of the people in front of the camera. Then I devised a more detailed form of organization that I followed very carefully96.

Queste le parole con cui vengono descritti gli atti preliminari di ricerca e selezione nella pratica di due cineasti come Cécile Fontaine e Gustav Deutsch – molto differenti in quanto a materiali utilizzati e tecniche di intervento sulle immagini prelevate. Significativamente, l’atto di selezione viene da entrambi accompagnato a una fase concomitante di catalogazione e classificazione dei materiali, propedeutica anch’essa alla realizzazione del lavoro.

Ricorda Marie De Brugerolle:

Prélever une image dans les médias et la répéter en série, c’est bien sûr utiliser une technique de grande diffusion et la mettre au niveau du “grand art”, mais c’est surtout évacuer la question de l’unicité dans l’objet pour interroger les processus de constitution d’une mémoire collective97.

94 Max Ernst, Beyond Painting: And Other Writings, Wittenborn, Schultz, 1948, p. 13.

95 Cécile Fontaine, “Cécile Fontaine Statement”, Cecilia Hausheer, Christoph Settele (a cura di), Found

Footage Film, VIPER/zyklop verlag, 1992, pp. xx–xx.

96 Gustav Deutsch in Scott MacDonald, “A conversation with Gustav Deutsch”, Wilbirg Brainin-

Donnenberg, Michael Loebenstein (a cura di), Gustav Deutsch, Vienna, Synema, 2009, pp.64-71, citato in M. Bloemheuvel, G. Fossati, J. Guldemond, op.cit., p. 81.

97 Marie De Brugerolle, “Sampling samplons sampler… Pratique de l’échantillonage”, Yann Beauvais, Jean-

Michel Bouhours (a cura di) , Monter/Sampler": L’échantillonnage généralisé, Paris, Editions du Centre Pompidou, 2000, p. 124.

Entriamo, con il gesto di selezione, nel campo dell’appropriazione: selezionare un’immagine tra tutte le altre immagini che si hanno a disposizione significa non soltanto selezionare un elemento che riteniamo significativo per comporre l’opera derivativa, ma si traduce soprattutto in “the act of taking something and making or claiming it as one’s own, or using it as if it were one’s own98”. Il gesto di appropriazione contenuto nell’atto selettivo ha innumerevoli ripercussioni per quanto riguarda le pratiche di riuso, ripercussioni a livello linguistico, semantico e sintattico (creo qualcosa usando il linguaggio, le parole e le forme di altri), a livello estetico, a livello pratico (come fare per “prendere” questi elementi? quali strategie utilizzare?) e, infine, a livello legale. È utile ricordare, infatti, che le pratiche di appropriazione nella storia dell’arte, così come in quella del riuso negli audiovisivi analogici e, al giorno d’oggi, in quella del remix, hanno sempre implicato ripercussioni inerenti questioni di diritto d’autore e proprietà delle opere. Come ricorda Marcus Boon:

Appropriation often involves taking something which arguably belongs to someone else. There is the sense of seizing, of making a claim on something that is claimed by someone else, of stealing. The adjective “appropriate” refers to that which one has a right to claim as one’s own, that which is “properly” one’s own. The term is thus intimately related to the concepts of property, ownership, and rights99.

Ann Lee ben sottolinea, nel suo “Appropriation. A Very Short Introduction”, che l’atto di appropriazione è, prima di tutto, un gesto di potere: chi si appropria di qualcosa lo fa ritenendo di avere il diritto di compiere questo “furto”. Lee fa riferimento, nello specifico, alle pratiche di appropriazione culturale citando due celebri definizioni di Susan Scafidi e Deborah Root:

To identify cultural appropriation in the most general terms, we might cite Susan Scafidi’s definition: the “taking—from a culture that is not one’s own—of intellectual property, cultural expressions or artifacts, history and ways of knowledge.” Deborah Root adds a further distinction: cultural appropriation is distinguished by the commodification of cultural practices or objects, a process that demands the relocation and recoding of cultural practices as objects of economic exchange100.

In questo caso si fa riferimento a pratiche di appropriazione di tipo coloniale, ovvero ad azioni realizzate da soggetti appartenenti a una cultura dominante che si appropriano di elementi appartenenti a una cultura marginalizzata, o che reputano inferiore, e le sfruttano a scopi prettamente commerciali. Tuttavia, il potere esercitato dalle pratiche di

98 Marcus Boon, In Praise of Copying, Cambridge, Harvard University Press, 2010, p. 207. 99 Ibidem.

100 Susan Scafidi, Who Owns Culture? Appropriation and Authenticity in American Law, New Brunswick,

Rutgers University Press, 2005 e Deborah Root, Cannibal Culture: Art, Appropriation, and the Commodification of Difference, Boulder, Westview Press, 1996 citate in Ann Lee, Appropriation. A Very

appropriazione può anche essere, all’opposto, un atto di legittimazione, autodeterminazione ed empowerment per soggetti marginalizzati. In quest’ottica sono da intendersi molte scelte selettive all’interno delle produzioni di remix, in particolare di quel

remix come pratica di genere di cui parleremo in seguito: la remixer attraverso il remix si

appropria delle immagini appartenenti alla cultura che la circonda e le modifica, le manipola, le trasforma in qualcosa di più rispondente ai propri bisogni. La possibilità di tale operazione risiede, primariamente, in un atto di appropriazione delle porzioni mediali. Si selezionano immagini che ci “toccano”, sia positivamente che negativamente e le si fanno “nostre”: una volta ottenuto il potere su quelle immagini, possiamo realmente trasformarle a nostro piacimento.

With remix, we can reedit tired narratives into more subversive ones or pay homage to the awesome narratives that do exist. […]

Remix and feminism go hand in hand. For young women and girls, it’s a way to take back

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