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Il ruolo della donna medico in Italia dal XIX secolo ad oggi

Le pioniere dovettero fronteggiare ostacoli posti a più livelli e i risultati che ottennero furono a loro volta condizionati dall’ambiente circostante (Malatesta, 2006). Fin dall’Antichità, il ruolo di medico, fu ritenuto inaccessibile alle donne. Le caratteristiche negative che penalizzano il genere femminile nell’approccio di questa professione sono spesso di natura ‘biologica’, insite nella loro debolezza, nella loro assenza di razionalità o nella loro smisurata inclinazione alle passioni e alla sensibilità professionale. Il ruolo femminile nello sviluppo della scienza fu spesso stato sottovalutato dalla componente maschile, mettendo in secondo piano il contributo e le innovazioni in campo medico che le donne seppero dare nel corso degli ultimi secoli. In molti casi addirittura, le novità apportate venivano etichettate come “troppo moderne” e spesso non vennero prese in considerazione.

Sulla base della ricostruzione storica indicataci da Vicarelli nel volume “Donne di medicina, il percorso professionale delle donne medico in Italia” dell’anno 2008, possiamo suddividere la storia della sanità italiana in tre momenti

storici ben precisi. Essi corrispondono ai diversi assetti istituzionali e ai diversi ruoli riconosciuti.

Il primo periodo va dalla fine del XIX secolo ai primi anni del XX secolo. Questo periodo comprende le prime laureate in medicina in Italia. Secondo un indagine effettuata da Vittore Ravà e poi pubblicata sul “Bollettino ufficiale della Pubblica Istruzione” del 3 Aprile1902, il numero delle laureate ammontava complessivamente a 244 unità, di cui 24 (circa il 10,7 %) in Medicina (Vicarelli, 2008). A seguito delle ricerche condotte dalla studiosa Annunziata Paola Jeraci invece, il numero delle donne medico di quegli anni dovrebbe essere alzato alle 26 unità, dal momento che non risultano nominate da Vittore Ravà i nomi di Emma Modena e Giuseppina Gorini, entrambe laureate nel 1900 a Pavia.

Già una certa apertura si era profilata nel 1875 allorché il ministro Bonghi, attraverso un articolo del decreto del R.d. n 2728 nel “Bollettino Ufficiale della Pubblica Istruzione”, sancì che: «le donne potevano essere iscritte nel registro degli studenti e degli uditori, ove presentino i documenti richiesti». Questo decreto incoraggiò in qualche modo le stesse a iscriversi nelle facoltà universitarie di tutta Italia, anche se dal punto di vista burocratico un effettivo sviluppo si ebbe solo dal 1883, dal momento che fu definitivamente riconosciuto a loro il diritto a frequentare ginnasi-licei.

La prima laureata in medicina fu Ernestina Paper nel 1877 presso l’Università di Firenze. Di origine russo-ebrea, si spostò dal ghetto di Odessa per andare a studiare in Svizzera (fu la prima nazione europea ad aprire le Università alle donne) liberandosi così della discriminazione femminile ed ebraica vigente nell’impero zarista. Nel 1872 si trasferì a Pisa dove proseguì gli studi per tre anni specializzandosi successivamente nei successivi due anni a Firenze. Nel 1878 sempre a Firenze, aprì uno studio medico dove curò sia donne che bambini.

Anja Rosenstein, conosciuta meglio come Anna Kuliscioff, si laureò a Napoli nel 1888 specializzandosi nel campo della ginecologia. Trasferitasi in seguito a Milano, cominciò la sua attività di “dottora dei poveri” affiancando Alessandrina Ravizza, in un ambulatorio medico completamente gratuito, in cui offriva assistenza

ginecologica alle donne povere. Fu fra le prime nelle lotte per la piena parità tra i sessi, per i diritti delle donne nei luoghi di lavoro quanto per il suffragio universale.

Nel 1910 venne istituito l’Ordine dei Medici senza nessun impedimento ufficiale verso l’ingresso delle donne anche se solo apparentemente, visto che di fatto notevoli furono gli impedimenti che ostacolarono lo sviluppo delle carriere. A tal proposito di notevole importanza fu la testimonianza di Aldina Francolini, laureata in Medicina nel 1889 a Firenze, che attraverso gli articoli pubblicati nel 1903 sul periodico “Cordelia”, raccontò le difficoltà che dovettero affrontare le dottoresse prima del conseguimento della laurea, tra cui ogni forma di allusione da parte dei loro colleghi uomini: «esse riscontravano una contrarietà strana, una riluttanza inesplicabile, una sfiducia dire quasi insultante da parte dei colleghi che ponevano ostacoli in tutti i modi, con tutti i mezzi più o meno leali o dignitosi››. Le donne medico pur non scontrandosi con ostacoli di natura giuridica nell’esercizio della professione, non trovarono né disponibilità né collaborazione nemmeno in specializzazioni come la pediatria o ginecologia da parte dei colleghi uomini e delle stesse strutture sanitarie stesse.

Maria Fishmann, di origine ebraica, fu la prima donna laureata in medicina presso l’Università di Pisa, si iscrisse nel 1892 al 6° anno di medicina, dopo aver frequentato le università svizzere di Ginevra e Berna e si laureò nel novembre del 1893 con una tesi in ostetricia intitolata “Cura della stitichezza abituale nella donna”. Nel contenuto della tesi domina l’idea della necessità di una formazione igienica e di un impegno del medico anche sul fronte dei fattori sociali da cui le malattie nascono (…). Vi assume un rilievo straordinario il tema che fu al centro della vita della Fishmann negli anni successivi: la necessità di superare i pregiudizi che fanno delle donne – come lei dice – degli essere deboli e malaticci, a causa di un’educazione sbagliata, di abitudini nocive, di una vita casalinga e passiva e del modo illogico di vestirsi (Peretti, 2010). Si sposò ben presto con un importante igienista Alfonso Di Vestea e pur non esercitando più la sua professione, conseguenza di molte donne medico dell’epoca dopo il matrimonio, portò la sua competenza professionale in tutte le attività da lei promosse tra cui: la tutela di donne e bambini attraverso istituzioni pubbliche, la battaglia condivisa con il marito per l’igiene e la profilassi e la

coeducazione paritaria tra maschi e femmine per quanto riguarda il tema della sessualità.

Il secondo periodo coincide con il ventennio fascista, durante il quale l’emergere delle carriere delle donne fu ostacolato dal Regime che cercava in qualche modo di rettificare quelle che considerava “deviazioni” nefaste e le influenze di certe culture straniere liberali e “decadenti”. Tra le colpe di queste culture liberali, vi era quella – secondo Mussolini – di aver posto in secondo piano il ruolo della famiglia, tollerato l’omosessualità e aver parzialmente elargito alla donna il diritto di autodeterminazione, in materia di procreazione, e la possibilità di dedicarsi ad attività extra familiari e prettamente “maschili”, come il lavoro fuori casa. Furono così attivati una serie di provvedimenti, il mercato del lavoro fu ridisegnato per legge in modo che le donne fossero gradualmente escluse sia dal settore privato che da quello pubblico mentre gli avanzamenti di carriera l’aumento di stipendio venne riservato solo agli uomini sposati e con prole. Le donne medico assunsero in quegli anni tratti spesso ambigui e contraddittori di chi, pur svolgendo un’attività apparentemente cruciale per lo Stato, doveva guardarsi dal manifestarla per evitare ritorsioni o limitazioni di genere.3 Così la maggior parte di esse si oppose con resistenza sia dal punto di vista individuale che corporativo. Elvira Caporali fu una di quelle donne ostinate che intrapresero una strada così difficile. Si laureò con lode nel 1918 ed entrò subito come assistente volontaria nella Clinica chirurgica del prof. Ceci in seguito, nel 1925, vinse il concorso come assistente di ruolo. Fu la prima e unica donna che, negli anni ’20 e ’30 ebbe questo incarico tuttavia, nel 1933 il direttore della clinica la esonerò dall’incarico ‹‹per la doverosa rotazione del personale›› e lei se ne andò da Pisa improvvisamente e senza spiegazioni (Peretti, 2010).

Nel 1921 nacque a Salsomaggiore Terme “L’Associazione Italiana Dottoresse in medicina” ad opera di Clelia Lollini. Secondo il periodico ufficiale

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Maria Montessori e la sua impostazione pedagogica dovette scontrarsi con il regime fascista: dopo essersi laureata nel 1894 in Medicina alla Sapienza di Roma, esercitò la professione occupandosi di piccoli pazienti con handicap e ritardi mentali maturando così la convinzione che il trattamento con qualsiasi soggetto doveva essere di natura pedagogica e non solo medica . Elaborò un metodo educativo che esplicitò nel suo saggio “La Psicologia scientifica applicata all’educazione infantile” e, in questo volume, consacrò il suo metodo al livello mondiale. Nel 1933 Maria e il figlio si dimisero dall’Opera Nazionale maternità ed Infanzia e a causa degli insanabili contrasti con il regime fascista dovette abbandonare l’Italia nel 1934 per poi tornare inseguito nel 1947 riavviando l’attività. Morì nel 1952 lasciando in eredità studi e un’impostazione pedagogica basata su un metodo scientifico rodato

dell’ordine, obiettivo dell’associazione fu quello di ‹‹dimostrare che le donne che hanno raggiunto il più alto dei titoli accademici, ed esercitano la più nobile delle professioni sono numerose in Italia e, non vogliono racchiudersi in un egoistico godimento di una meta raggiungere ma, vogliono mettere a disposizione della Nazione il proprio sapere e attività›› (Atti Convegno dell’AIDM a Salsomaggiore Terme del 15 Ottobre 1921). Attraverso due importanti congressi tenutosi nel 1921 e nel 1924 a Milano furono affrontate importanti argomenti riguardanti l’impegno della professione medica nella società e loro sfera privata dei professionisti. In particolare nel secondo congresso intitolato “L’indirizzo professionale della medichessa in Italia”, furono segnalate alcune tematiche che ancora oggi sono attuali e hanno tutt’ora degli effetti, tra queste: avversità e difficoltà delle donne nello svolgere la propria professione, contrasto e spesso sorpasso degli obblighi domestici alla vita professionale e forte tendenza alle iscrizioni in pediatria o ginecologia a discapito di altre specializzazioni. Nel discorso di apertura, dopo aver riferito circa l’attività fin li svolta dall’associazione, Myra Carcupino Ferrari (allora presidente dell’Associazione Italiana) rilevò come le donne erano ormai pienamente impegnate nel mondo scientifico e accademico tanto da essere responsabili di uffici municipali d’igiene, oppure titolari di contratti di libera docenza (Vicarelli, 2008).

Le donne laureate in Medicina erano allora circa 200 in tutta Italia, si trattava di una piccola schiera di pioniere che desideravano aprirsi una strada nel campo medico; molte di esse trovarono impiego soprattutto nei laboratori provinciali d’igiene e profilassi che offrivano quindi nuove opportunità di lavoro anche se non i lauti guadagni riservati alle èlites professionali dei medici ospedalieri e universitari. La stessa associazione (AIDMC) invitò le associate a indirizzarsi verso gli uffici e i laboratori d’igiene (Peretti, 2010). Tra queste Brunetta Scotti, laureatasi a Pisa con il massimo dei voti e a 26 anni fu medico condotto prima supplente poi effettivo nel grossetano; svolse in seguito la sua lunga carriera presso il laboratorio provinciale di Igiene e profilassi di Grosseto, occupandosi di campagna antimalarica e impegnandosi in un continuo aggiornamento scientifico e professionale (Peretti, 2010). Gli anni della sua carriera non furono facili a causa di numerosi pregiudizi come la mancata disponibilità da parte degli uomini di farsi visitare da un medico donna,tuttavia essa fu medico di “mezza Grosseto” fino a quando glielo permise la

legislazione e fu descritta come: «Semplicissima ma signorile nel vestire, non amava gli sfarsi né il clamore: amava stare in silenzio tra i suoi ammalati e lenire le loro sofferenze. Parlava correttamente il francese ed il tedesco, lingua nella quale pubblicò molti lavori scientifici››.

Compito dell’associazione fu quello di rendere operante la solidarietà tra le donne medico attraverso non solo i convegni ma premi e borse di studio per incoraggiare le colleghe più giovani e meritevoli il tutto,mantenendo i contatti e confronti culturali con le colleghe della Medical Women’s International cui aderì nel 1922. Per motivi bellici dal 1929 al 1947 furono interrotti da parte dell’AIDMC i rapporti con L’Internazionale per poi rifondarli nel 1947 a Milano in un’Assemblea Nazionale.

Il terzo periodo si apre con il secondo dopoguerra sino ad arrivare ai giorni nostri ed è caratterizzato da grandi cambiamenti, sia nella sanità italiana che nel ruolo femminile in medicina. Nel 1951-52 le iscritte alla facoltà di Medicina furono il 9% del totale ma nel 1991-92 la percentuale sarà aumentata di cinque volte, sino a raggiungere quasi la metà degli iscritti e dal 2001 il numero toccherà il 60%. Nel corso degli anni aumenta anche la percentuale delle laureate che esercitano la professione, tanto da passare dal 3% del 1951, al 23% del 1991 (Vicarelli, 2008)

Dunque dagli anni 50 si assiste ad una diminuzione della componente maschile dei laureati in Medicina a vantaggio della componente femminile. La maggior parte provenivano da famiglie benestanti, si laureavano dopo aver fatto un percorso universitario regolare e spesso con ottimi risultati. Le scelte delle specializzazioni si concentravano per il 70% in ambiti come pediatria (46,5%), anestesia (9%) e il restante in psichiatria, igiene e odontostomatologia. Molte preferivano lavorare all’interno degli ospedali, rinunciando alla libera professione prototipo dell’attività medica; la risposta al perché di questa scelta potrebbe essere cercata nell’impegno umanitario e scientifico che aveva come risultati guadagni modesti ma in compenso dava un alto indice di soddisfazione professionale e sociale (Vicarelli, 2008).Gli anni Sessanta e Settanta sono caratterizzati dal movimento femminista, portatore di nuove esigenze, come la capacità di autodeterminarsi e gestirsi con o senza un uomo al proprio fianco. Perciò l’adesione diretta o indiretta

delle donne medico al femminismo, l’influenza del sistema sociale del periodo caratterizzato da un particolare clima politico-culturale (nell’indirizzare il sistema sanitario nazionale a forme istituzionali universalistiche e pubbliche), la provenienza da famiglie classe lavoratrici hanno in qualche modo sviluppato maggior coesione femminile all’interno dei contesti organizzativi anche se, soprattutto negli ospedali, si distinguevano ruoli prefissati e informali che intrappolavano le donne.

Gli anni successivi sino ad arrivare ai giorni nostri sono caratterizzati da sempre più specializzazioni scelte dalle donne, maggior presenza di capo donne e luoghi in cui esse svolgono la loro professione medica. Sono maggiormente presenti in campi della ricerca, nel pubblico a livello territoriale e ospedaliero ma tuttavia meno nelle posizioni direttive accademiche e nelle associazioni di categoria. Esse esercitano maggiormente professioni con scarso potere decisionale (medici di base, pediatri, ostetriche) questo è definito dalla cultura, dalla relazione di potere e dalla gerarchia vigente tra le professioni (Beccalli,1994). Sul tema della femminilizzazione della sanità in Italia il Ministero della Salute ha condotto un’indagine conoscitiva, il cui esito è stato esposto nella I Conferenza Nazionale sul “Ruolo delle donne nell’evoluzione del Servizio Sanitario Nazionale da Maria Montessori ai giorni nostri” tenutosi a Roma l’8 Marzo del 2011.

Ciò che è emerso, in particolare dalle interviste sull’esperienze e sulle storie di vita di alcune professioniste che rivestono ruoli di coordinamento e di vertice nella sanità è che: ‹‹Il ruolo delle donne in sanità non è comportarsi come i maschi ma, applicare alla medicina le proprie caratteristiche specifiche come la tenacia, l’intuito e la capacità di relazione. Forse sono ancora poche le donne primarie negli ospedali, docenti nelle Facoltà e dirigente nel Servizio Sanitario Nazionale. Tale lacuna dobbiamo impegnarci a colmarla e a questo scopo, (…) sarà istituito un importantissimo accordo sulla conciliazione tra lavoro e famiglia che punta ad introdurre in tutti i livelli di contrattazione forme di flessibilità, come orari rimodulati, forme di telelavoro, lavori a tempo parziale, nuove forme di congedi parentali per conciliare i tempi di vita e i tempi di lavoro per le donne›› (Comunicato Stampa del I Conferenza Nazionale del Ministero della Salute sulla “femminilizzazione del SSN”a Roma del 3 Marzo 2011).

Ma come vivono le giovani donne la loro presenza nelle comunità accademiche e nelle professioni, quanto sono consapevoli del permanere del gender

bis? Quanto il chillyclimateche le scienziate incontrano nell’organizzazione scientifica a loro sfavorevole incide su carriere e abbandoni? (Biancheri, 2015); questi sono importanti interrogativi da approfondire attraverso una riflessione del percorso dei processi di emancipazione e dei vari cambiamenti della professione del “medico donna”.

2.2 LA DONNA MEDICO: DALLA FORMAZIONE ALLA

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