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La professione medica: formazione e identità femminili

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Academic year: 2021

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Università di Pisa

Dipartimento di Scienze Politiche

Corso di Laurea Magistrale in Servizio Sociale e Politiche

Sociali

Tesi di Laurea

La professione medica: formazione e identità femminili

RELATORE:

Chiar.ma Prof.ssa Rita Biancheri

CANDIDATO:

Valentina Belfiore

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Indice 02

Introduzione 04

Capitolo Primo: Formazione del medico: analisi della professione e dei percorsi

formativi 08

1.1 Medicina e professione medica tra passato e presente 08 1.2 Medicina come professione fondata su autonomia e competenza 17 1.3 La formazione in Medicina: analisi dei curricula universitari 24

1.3 Corso di Laurea in Medicina e Chirurgia LM 41 25

1.3.2 Analisi del piano didattico del corso LM 41

delle Università italiane 29

Capitolo Secondo: Sguardo di genere: la femminilizzazione della professione

medica 32

2.1 Il ruolo della donna medico in Italia dal XIX secolo ad oggi 33 2.2 La donna medico: dalla formazione alla professione 40 2.2.1 Sanità: quando le donne fanno la differenza 43

2.2.3 Donne in carriera: quali limiti? 47

Capitolo Terzo: La medicina e i suoi attori: medici, pazienti, organizzazione del

sistema sanitario 50

3.1 Fare il medico oggi: il professionista della cura 51 3.1.1 Facoltà di Medicina: prospettive future 53

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3.2 Relazione di cura tra medico e paziente 57 3.2.1 Il ruolo centrale della persona assistita 59

3.2.2 La Medicina è neutra rispetto al genere? 60

3.3 Il ruolo dell’organizzazione sanitaria 63 3.3.1 Posizione della professione medica nel settore sanitario 64

Capitolo Quarto: Approfondimento sulla ricerca: l’intervista biografica a due

donne medico 67

4.1 Metodologia di ricerca 68 4.1.1 La scelta delle intervistate e modalità dell’intervista 70

4.2 Analisi del materiale biografico raccolto 71 4.2.1 Primo campo d’indagine: PROFILO ANAGRAFICO 72

4.2.2Secondo campo d’indagine: FORMAZIONE UNIVERSITARIA 73

4.2.3Terzo campo d’indagine: PERCORSO LAVORATIVO/CARRIERA 75

4.2.4 Quarto campo d’indagine: FAMIGLIA 78

4.2.5 Conclusioni intervista: BILANCIO PROPRIA CARRIERA 79

4.3 Riflessioni sulle interviste 80

Conclusioni 83

Bibliografia 86 Sitografia 90

Appendice 91

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INTRODUZIONE

La professionalità medica è la base del contratto tra medicina e società, ed è caratterizzata da un insieme di principi e di valori fondamentali ed universali che devono essere chiari e condivisi da tutti gli attori coinvolti. Oggi tale professione si trova ad affrontare una serie di cambiamenti socio-culturali, politici-istituzionali ed economico-organizzativi e, in queste circostanze, diventa sempre maggiormente necessario riaffermare l’identità professionale e le responsabilità ideali che ogni medico deve perseguire. Fare il medico oggi vuol dire esercitare una pratica in cui bisogna essere abili e competenti non solo nel ‘sapere’ e nel ‘fare’ ma anche nel ‘comprendere’ e nel ‘condividere’; per questi motivi missione e vocazione devono fondersi con la professione.

“In tempi di crisi, come quello in cui viviamo, la medicina per bocca di molti suoi esponenti ama rassicurarsi attraverso una riappropriazione identitaria che si richiama a Ippocrate e ai concetti e valori da lui formati” (Cosmacini, 2013).

La trasformazione della professione medica nel suo insieme si configura come il frutto delle interazioni tra segmenti diversi tra cui: la necessità di una formazione dei futuri medici, uomini e donne, che tenga conto delle qualità ‘antropoligiche’ di entrambi i sessi (caratteristiche da condividere nell’interesse del paziente); la consapevolezza di un’espansiva e progressiva mutualità del sistema sanitario pubblico e delle norme che lo regolano; infine, l’importanza del rapporto interpersonale medico/paziente, ultimamente depauperato da un apparato tecnico a volte così complesso da mutarsi in impedimento relazionale piuttosto che, in tramite diagnostico-terapeutico.

Il presente elaborato si propone di esplorare le dimensioni riguardanti le caratteristiche storiche, sociali e culturali della professione medica e della sua formazione ponendo l’attenzione sull’importanza di esercitare una pratica che consideri l’individuo nella sua globalità ed unicità senza mai interrompere il rapporto interumano, poiché mettere in atto un approccio solo tecnico-scientifico privilegia le componenti somatiche, organiche, chimico-fisiche del paziente e della sua malattia a scapito di quelle personali e psicologiche necessarie all’interno del contesto di cura.

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All’interno di questa ricerca, tra i vari fattori riguardanti le modalità di cambiamento del professionalismo medico, l’anali si concentra sul tema riguardante la presenza femminile, che negli ultimi tempi è sempre più consistente e costante. Gli aspetti emersi e gli interrogativi con cui sono state esposte le tematiche inerenti al ruolo delle donne medico contribuiscono a riflettere sul loro contributo sia nella pratica medica che sul funzionamento del sistema sanitario.

Nel primo capitolo viene descritta la situazione attuale riguardante i percorsi formativi dei futuri medici con un’analisi accurata dei curricula universitari attraverso una ricerca condotta sulla presenza minima, in 37 Facoltà di Medicina e Chirurgia presenti sul territorio nazionale, di corsi ai quali è affidato il compito dell’insegnamento di competenze comunicativo e relazionali all’interno della laurea LM 41 (Medicina e chirurgia). Per poter comprendere a fondo il tema oggetto di studio, nei primi paragrafi del capitolo si presentano sia una retrospettiva storica riguardate la professione medica dall’antichità ad oggi, sia un’analisi storica del concetto di professione generale e nello specifico di quella medica attraverso l’esposizione di alcune teorie sociologiche (Parsons, Goode, Barber e Wilensky). Quest’ultime hanno sottolineato l’acquisizione del diritto della professione medica, nel corso della storia, ad avere una propria identità e a svolgere in maniera esclusiva la propria attività.

Nei prodromi del secondo capitolo viene svolta un’analisi riguardate il processo di femminilizzazione della professione affrontando diverse tematiche tra cui, in primis, il difficile percorso dei processi di emancipazione delle donne medico e dei vari cambiamenti della professione in Italia a partire dalle “pioniere” del XIX secolo sino ad arrivare ai giorni nostri. Nei successivi paragrafi, attraverso dei dati statistici, viene definito un quadro generale della carriera delle donne medico nell’ambito universitario. Questi numeri, assieme all’analisi di tematiche riguardanti la dimensione sociale, politica e culturale della carriera delle donne medico, da un lato hanno permesso di sviluppare una serie di interrogativi riguardanti le difficoltà del verificarsi di cambiamenti significativi sul piano della parificazione delle possibilità femminili, e dall’altro invitano a riflettere sui contributi quantitativi e qualitativi delle donne nel campo della medicina.

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Nel terzo capitolo viene affrontata la tematica riguardante l’importanza del ruolo che ciascun attore svolge all’interno del Sistema Sanitario Nazionale, il cui obiettivo principale dovrebbe essere quello di sviluppare una rete che garantisca il benessere bio-psico-sociale della persona. In ogni paragrafo del capitolo si sviluppa una prospettiva analitica riguardante il compito del medico, del paziente e del sistema sanitario la cui definizione fa emergere gli aspetti sociali e culturali di ciascuno di essi. Uno sguardo attento è rivolto in primis alla formazione dei futuri medici: tutt’oggi si basa principalmente sulla scienza e sulla conoscenza e, questo aspetto, fa riemergere la necessità di una continua evoluzione dell’offerta formativa che deve andare di pari in passo con i cambiamenti e le diverse esigenze della dimensione psico-sociale della medicina. Nel secondo paragrafo viene affrontata la tematica riguardante il rapporto del paziente nei confronti del medico e del sistema sanitario. Viene identificato il contributo dei pazienti stessi, uomini e donne, nei processi di cura, da considerarsi come parte integrante nella pratica della professione medica che solo negli ultimi tempi si sta avviando in una prospettiva di genere. Infine viene svolta un’analisi sul ruolo del complessivo sistema sanitario in continua evoluzione, definito come una pluralità che deve tener conto degli attori coinvolti, nel rispetto del compito che ciascuno di loro svolge all’interno. Dalla ricerca emerge la necessità di far affiorare in ciascuno dei membri la consapevolezza di dipendere gli uni dagli altri in un contesto di collaborazione e di negoziazione centrata sul paziente e sulle sue fragilità.

Il quarto capitolo si basa sul confronto tra la parte teorica e la parte empirica di questo studio il cui focus riguarda il processo di formazione e di professione di due donne medico, madre e figlia, per un confronto generazionale. Nella prima parte viene descritto il metodo di ricerca utilizzato, di tipo etnosociologico, che propone una forma d’indagine empirica adatta ad individuare le dinamiche sociali della condizione della professione medica al femminile, attraverso l’identificazione del vissuto biografico del ruolo delle donne medico in ambito universitario ed accademico. Il tutto è stato realizzato attraverso l’utilizzo dell’intervista biografica suddivisa in quattro campi d’indagine (formazione universitaria, percorso lavorativo, carriera e ruolo della famiglia) esposti e sottoposti a riflessioni nei successivi paragrafi.

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CAPITOLO 1

FORMAZIONE DEL MEDICO:

ANALISI DELLA PROFESSIONE E DEI PERCORSI

FORMATIVI

1.1

MEDICINA E PROFESSIONE MEDICA TRA PASSATO E PRESENTE

Le antiche tecniche e i rituali di automedicazione utilizzati dall’uomo primitivo per affrontare i bisogni e le sofferenze degli individui colpiti da traumi e malattie, si possono definire prime forme conosciute di Medicina.

Per migliaia di anni, sino alle prime forme “laiche” della stessa, nelle civiltà mesopotamiche ed egiziane l’attività medica appariva come una funzione sacerdotale in via di specializzazione progressiva intrecciata con credenze religiose e pratiche magiche.

Secondo gli studiosi il primo tentativo di “desacralizzazione” della medicina risale al V secolo a.C. con la figura di Ippocrate di Kos, padre fondatore dell’ars

medica antiqua, alla quale venne ricondotto il primo tentativo di fondare una scienza medica con una metodologia rigorosa ed empirica basata sul ragionamento e lo sviluppo di regole deontologiche per la professione.

La scuola di Ippocrate fondò una dottrina costituzionale secondo la quale l’individuo doveva essere considerato nella sua unità, intesa come equilibrio dei quattro liquidi o umori fondamentali (sangue, flemma, bile gialla e bile nera), il cui eccesso o mancanza poteva generare malattie specifiche.

La sua medicina fissava per la prima volta una serie di modalità pratiche per esaminare il malato ed elaborare una prognosi, prevedendo un nuovo metodo dove la teoria e la pratica non erano solo complementari e interdipendenti ma anzi collocate sul medesimo piano di importanza (Cosmacini, 2007).

All’interno del nucleo più antico delle opere di Ippocrate sussistevano degli orientamenti teoricamente rilevanti dal punto di vista filosofico e medico, come il celebre Giuramento, in cui venne codificata la pratica del tirocinio del medico nonché l’apprendistato.

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Dopo Ippocrate le vie della Medicina, e soprattutto la figura del medico, cominciarono a crescere complessivamente e istituzionalmente, trovando, ad Alessandria D’Egitto, un terreno particolarmente fertile per il suo sviluppo.

La figura del medico subì un cambiamento dal momento che, non era più il professionista senza alcun supporto istituzionale che doveva avere determinate capacità terapeutiche e godere di un certo prestigio per farsi riconoscere in quanto tale ma anzi un soggetto che, oltre a sviluppare una pratica diagnostica-terapeutica, doveva esercitare al contempo una ricerca teorica che andasse oltre la semplice terapia.

Cominciò così a svilupparsi un surplus scientifico e sociale che elevò sia la figura professionale del medico che il sapere scientifico dello stesso, focalizzato non più sulla malattia ma sullo stato naturale della salute.

Con l’ascesa di Roma come fulcro culturale e politico dell’Occidente europeo, la medicina greca si fuse con la tradizione romana e più in generale con quella italica. Non esisteva una vera e propria formazione dell’arte medica seppur l’esercizio della professione risultasse molto remunerativo: spesso la maggior parte delle persone che ambissero a diventare medico riusciva nell’intento in breve tempo, sperimentando sulla pelle dei propri pazienti cure e trattamenti, pagando lo scotto di una certa inesperienza soprattutto all’inizio della pratica. Nel II secolo d. C. rilevante fu la figura di Galeno di Pergamo riconosciuto, insieme ad Ippocrate, come l’artefice del cambiamento in chiave scientifica dello statuto della medicina e del ruolo del medico.

In una delle sue opere morali “Il miglior medico è anche filosofo” scrisse:‹‹le facoltà dell’anima seguono i temperamenti del corpo››; nello specifico egli parlava di una complessa regolazione delle varie parti del corpo caratterizzata da una tripartizione: spirito animale, con sede nel cervello, che controllava movimenti, percezione e sensi; spirito vitale, con sede nel cuore, che regolava sangue e temperatura corporea; spirito naturale, con sede nel fegato, che regolava alimentazione e metabolismo.

Secondo Galeno il medico doveva possedere tutta la filosofia cioè ‹‹amore per la sapienza comprensivo dell’amore per la tecnica e dell’amore per l’uomo››, doveva conoscere a fondo la Natura, ivi compresa la natura umana: essere amico

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dell’uomo (filantropo) era il modo migliore per essergli d’aiuto usando le risorse dell’arte (tecnofilo) (Cosmacini, 2009).

Con la caduta dell’Impero Romano, il passaggio tra tarda antichità e Medioevo fu un evento traumatico dal punto di vista politico e sociale, in quel periodo la conoscenza della medicina antica fu conservata nei monasteri, specie in quelli benedettini, e proprio in quei luoghi si tramandavano le conoscenze mediche dell’antichità mettendole in pratica spinti da intenti caritativi nei confronti dei confratelli e del popolo.

La cura era quello che già si conosceva e che funzionava: tutto questo pose termine all’approfondimento medico e alla sperimentazione lasciando invece il posto a rimedi medici garantiti con pozioni tratte dagli orti botanici dei monasteri, salassi, preghiere e confessioni.

Per quanto riguarda il ruolo del medico, in alcuni manuali di medicina vennero indicate delle raccomandazioni su come comportarsi con il paziente e la famiglia, consigliando la modestia ma al tempo stesso il distacco, pur confortando e rassicurando sia il paziente che la famiglia.

Uno dei momenti decisivi nel progresso della scienza medica fu la nascita della Scuola Medica Salernitana considerata la più antica istituzione nell’Occidente Europeo per l’esercizio e l’insegnamento della Medicina.

Ai suoi esordi, nell’Alto Medioevo, si confuse con l’esercizio della medicina monastica alla quale si aggiunse la medicina esercitata da canonici e chimici delle cattedrali e sedi vescovili a vantaggio della popolazione laica. La medicina laicale mano a mano si sviluppò accanto alle scuole ecclesiastiche perfezionando così l’insegnamento medico infatti, proprio per questo motivo, fu costituito un collegio di maestri e una corporazione di medici facendo così di Salerno un centro di studi per la medicina di fama mondiale.

Un’importante innovazione della scuola fu l’apertura della stessa, almeno sino alla seconda metà del XIV secolo, non solo ad allieve ma anche ad insegnanti donne che potevano accedere ad alti gradi delle gerarchie universitarie ed esercitare l’arte medica: ‹‹Abbiamo molte donne erudite che in molti campi superarono o eguagliarono per ingegno e dottrina non pochi uomini›› (Mazza, 1681).

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Federico II, imperatore del Sacro Romano Impero e re di Sicilia, nel solco della tradizione della Scuola Medica Salernitana, nel corpus normativo (conosciuto come Costituzione di Melfi) inserì un decreto secondo il quale nessun medico poteva esercitare la professione se non dopo aver conseguito la Laurea nella Scuola, prevedendo pene severe per i ciarlatani che commerciavano rimedi medici falsi e pericolosi.

Il curriculum studiorum era costituito da 3 anni di logica, 5 anni di medicina (compresa chirurgia e anatomia) e 1 anno di pratica con un medico anziano e un’autopsia di un corpo umano inoltre, oltre all'insegnamento della medicina, si

tenevano anche corsi di filosofia, teologia e legge.

Lo stesso Federico II, fondò a Napoli nel 1224 la prima università laica in Europa di tipo statale.

La costituzione di una solida base teorica per la medicina fu un aspetto fondamentale per poter accedere all’insegnamento medico nell’ambito delle nascenti Università.

Entrare nell’Università significava carriera, fama, onore e ricchezza, il medico era ‹‹l’ospite naturale di quelle miniere di cariche che erano le corti›› e così, nelle varie Università che cominciarono a nascere nelle città più vivaci d’Europa, si recavano coloro che ricercavano una cultura che fosse in grado di preparare ad una professione e garantire una carriera ecclesiastica o civile (Cavalli, 2014).

In epoca rinascimentale con le nuove scoperte introdotte dall’anatomia (grazie alle bolle papali del 1400-1500 che concessero il permesso di praticare le autopsie), si sviluppò la necessità di implementare le conoscenze e ampliare le visioni del mondo. Vennero creati ospedali ordinari in cui, grazie all’avvio di alcune riforme, veniva fornito un letto ad ogni paziente, furono migliorate le condizioni igieniche e istituite corsie apposite per malati contagiosi. Gli ospedali garantivano servizi di cura attraverso i quali veniva data agli studenti di medicina la possibilità di osservare i malati nelle corsie cliniche e acquisire esperienza diventando così assistenti di medici affermati.

I giovani laureandi in Medicina, per poter svolgere un valido tirocinio dovevano affiancare i medici che si occupavano della popolazione povera: pazienti con malattie transitorie più facili da trattare che non potevano essere curati in casa in

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quanto necessitavano di cure e assistenze in luoghi specifici come gli ospedali. Nello stesso periodo, a Padova operavano contemporaneamente Vasolio, che con la sua opera “De humani corporis fabrica” costituì le fondamenta dell’anatomia moderna, e Montano, uno dei primi maestri che portò gli studenti al letto del malato (Cosmacini, 2007).

Nell’Europa del XVII secolo, nell’ambito della medicina, le innovazioni furono rare ma lasciarono delle tracce indelebili nei manoscritti e dei libri stampati dell’epoca. Gli uomini della medicina erano particolarmente attivi nelle scienze naturali e approfondivano le loro conoscenze con l’uso del ragionamento e dei metodi razionali.

Tra le più importanti scoperte del periodo rileviamo l’odierna concezione meccanico-idraulica della circolazione del sangue di William Harvey,la descrizione degli alveoli polmonari attraverso l’uso del microscopio di Marcello Malpigli e lo studio della circolazione polmonare attraverso l’analisi del fegato, milza, reni e lingua di Cisalpino. Al personale medico qualificato, ancora molto raro, veniva chiesto non più di padroneggiare le conoscenze dei testi classici dell’antichità e di possedere le abilità del ragionamento ma di conoscere anzi le ultime scoperte introdotte dall’anatomia e dal funzionamento del corpo umano, nonché di essere padroni di una metodologia più votata alla scoperta di ricorrenze e leggi generali attraverso l’osservazione (Armocida e Zanobio, 1997).

In piena età della rinascenza, l’anima del mondo rinascimentale si avviava a diventare la machina mundi, et hominis teorizzata dal meccanicismo seicentesco (Cosmacini, 2009). Il meccanicismo, come disse Cartesio, consisteva nel ridurre tutto ad estensione e movimento indagando la realtà basandosi su aspetti quantitativi. Tuttavia nella scienza moderna la connessione causa-effetto non era determinata solo dallo strumento matematico ma veniva anche sottoposta ad una verifica empirica. Dalla ricerca speculativa sui testi antichi si passò direttamente alla ricerca sperimentale sul corpo umano osservato ed esplorato sin dalle sue minime parti (Cosmacini, 2009).

Tra il Seicento e il Settecento la medicina, nel clima scientifico rinnovato dell’età dei Lumi, abbracciò le nuove idee andando incontro ai fermenti intellettuali, sociali e politici del periodo acquistando nuovi contenuti sociali: si accettò l’idea che

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la salute della popolazione, nonché del singolo individuo, fosse tutelata dal governo come un bene diventando così, assieme al benessere, patrimonio comune. La ricerca medica si convertì nell’alveo delle scienze sperimentali che aprirono nuove prospettive diagnostiche nonostante l’assenza di terapie scientificamente controllate, i medici illuministi riuscirono a sviluppare un nuovo metodo caratterizzato dalla comprensione, prevenzione e cura delle malattie.

Nel XIX secolo nacque la medicina contemporanea, fu il secolo dove si svilupparono le discipline mediche moderne: la citologia, la fisiologia, la microbiologia, l’immunologia e la fisiopatologia. Le scoperte divennero il frutto della collaborazione di molti studiosi ciascuno dei quali era specializzato in uno specifico campo. Nacquero i congressi, importanti momenti di confronto e di scambio tra la comunità medica internazionale dal momento che le ricerche furono numerose e le conoscenze crescenti e caotiche.

Nel corso del XX secolo una nuova medicina con radici sociali, filosofiche e scientifiche trasformò il concetto di malattia: dopo la breve parentesi della medicina romantica il sensismo e la metodologia chimico-fisica, proposero un nuovo approccio al malato sviluppando il nesso tra clinica, anatomia e anatomia patologica.

Molte malattie infettive furono sconfitte attraverso vaccini e antibiotici che migliorarono le condizioni di vita e si riconobbero ai farmaci delle crescenti potenzialità terapeutiche, salvo iniziarne con colpevole ritardo la messa in commercio: la penicillina che fu scoperta nel 1928 da A. Fleming ma prodotta e distribuita in dosi massicce, dall’industria americana, a partire dal 1943 per curare i feriti della Seconda Guerra Mondiale. Successivamente furono avviate le ricerche su meccanismi alla base dei fenomeni biologici effettuando scoperte importanti riguardo la trasmissione delle caratteristiche ereditarie (1953 modello a doppia elica del DNA) e i meccanismi chimici e fisici delle funzioni celebrali.

L’essenza della malattia venne ricercata, individuata e dimostrata nelle alterazioni della morfologia e delle funzioni, così si rivelò essenziale una corretta e precoce valutazione clinica dello stato del malato: il medico, e soprattutto il chirurgo, divenne così un professionista privilegiato nella società.

‹‹La classe medica poteva acquisire una nuova fiducia verso le proprie capacità di diagnosi e trattamento›› (Shorter, 1985).

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Un aspetto che caratterizzava e accomunava i centri di eccellenza per la formazione medica del periodo era la supremazia della medicina pratica, elemento fondamentale sia a livello universitario che professionale. Teatri anatomici, sale incisorie, orti botanici, musei e gabinetti di storia naturale, così come aule e corsie di ospedali aperti ai tirocinanti furono segni evidenti di questa eccellenza in tutta Europa (Cavazza, 1995).

Il medico, diventò un operaio della salute con l’inevitabile distanziamento del paziente, che non era visto come portatore di malattia con le sue inevitabile ripercussioni emotive, personali e sociali, ma veniva identificato con la malattia stessa (Tatarelli, De Pisa e Girardi,1998).

A partire dagli anni 70 del XX secolo, la medicina sociale ebbe una notevole evoluzione soprattutto nell’approccio bio-etico, Inui e Engel furono i propugnatori di questa nuova dimensione: lo psichiatra statunitense, in un famoso articolo della rivista Science, propose un modello di pratica medica più umanizzato (modello bio – psico-sociale) che integrava approcci disciplinari diversi applicati al malato, considerato non solo dal punto di vista biologico ma nella sua totalità come persona e centro di relazioni sociali.

Inui invece avanzò il modello di cura sociale delle malattie che analizzava le interazioni tra stato psicologico e salute, tra eventi psico-sociali e reazioni fisiologiche conseguenti (Ardigò,1997).

In un momento ancora successivo la malattia fu categorizzata nel ruolo sociale, dove la figura del paziente (sickrole) indicava uno stato sociale deviante, pericolo potenziale per l’integrazione sistemica (modello struttural-funzionalista).

Autori come Wilson, Hamilton, Trivers, Fox e Smith tentarono di fondare una nuova scienza, la ‘sociobiologia’, intesa come uno studio sistemico dell’organizzazione sociale del mondo animale, comprendente la specie umana, e delle sue trasformazioni da assumere come riferimento delle caratteristiche biologiche identificabili.

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Questo tentativo di introduzione delle scienze sociali nonostante la “dominanza medica”1, dimostrò che se da un lato i progressi scientifici permisero nella chirurgia, farmacologia e nelle prassi diagnostiche-terapeutiche delle importanti scoperti, dall’altro le scienze sociali ne hanno pagato il prezzo dal momento che l’attenzione si è spostata dal paziente alla malattia.

Storicamente è possibile affermare che il valore positivo di tale codice binario salute/malattia sia stato rappresentato dalla malattia e non dalla salute, nel senso che è stata la prima il focus privilegiato attorno al quale si è costituito il discorso della biomedicina occidentale e l’organizzazione dei sistemi sanitari (Giarelli, 2003).

Nel 1978 fu istituito il Sistema Sanitario Nazionale che si fece carico e garante della salute pubblica. La legge n 833/78, pur restando valida dal punto di vista legislativo e nei principi, fallì nella sua messa in opera scontrandosi con una serie di difficoltà socio-politiche e finanziarie cui si contrappose una mancanza di mentalità collettiva dei cittadini; successivamente con la nuova Riforma a partire dal 1993, si caratterizzò un’eccessiva burocratizzazione del sistema (Zanetti e Casalegno 1999). Nel 1997 gli ospedali furono aggregati in aziende, la cui logica si sposava con l’efficacia terapeutica nell’offrire un servizio di cura idoneo dal punto di vista medico specialistico ed efficiente in termini di spesa.

Tuttavia, pur essendo un’Azienda di servizi erogati da professionisti sanitari, la Direzione di questi era spesso di formazione estranea alla sanità e alla medicina, di necessità legata alla politica, che aveva come soli obiettivi primari il contenimento dei costi ed il peso elettorale che il servizio rappresentava.

Tutto questo portò a tagli della spesa ed a soluzioni organizzative spesso infelici e dannose, che misero in difficoltà il SSN e la professione medica, creando un malumore da parte della popolazione e degli stessi professionisti sanitari non conniventi con il sistema.

Cresceva la percezione da parte dei pazienti di essere considerati come numeri e di non aver ottenuto, dall’assistenza all’intervento dei medici, quello che in

1

Tale concetto fu introdotto da Freidson nel 1970 per poi essere ripreso e scomposto nelle numerose dimensioni in cui si articola. All’interno della comunità scientifica italiana si deve in particolare a Tousijn il merito di approfondire l’aspetto legato alla dimensione di potere esercitato dalla professione medica sui gruppi occupazionali addetti allo svolgimento di compiti e mansioni ausiliarie.

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realtà cercavano dal momento che, le richieste spesso nascondevano esigenze sociali ed emotive.

In questo clima, il medico di famiglia continuava a rappresentare una figura di riferimento autorevole e “quasi paterna” o l’alleato a cui rivolgersi in caso di precaria salute;invece l’immagine che avevano i medici di loro stessi spesso si avvicinava maggiormente all’idea di un organizzatore di tecniche e pratiche curative, spesso stritolato tra etica della cura ed economia della stessa (Spinsanti, 2007).

Nella modernizzazione della figura del medico sono stati rilevanti il processo di burocratizzazione e la standardizzazione dello stesso che, hanno ostacolato la ricerca della professione e l’incapacità di adeguarsi ai bisogni dell’individuo. Gli ospedali sono diventati luoghi di cura, controllo e di prevenzione e utilizzano una serie di tecniche che si sviluppano con la diagnosi differenziale2.

Ad oggi risulta necessario ridefinire gli obiettivi della professione medica attraverso una risposta al bisogno formativo rappresentato dal benessere organizzativo, dalle relazioni e comunicazioni, dalla ricerca e dal miglioramento della qualità. È necessario costruire una pratica professionale che ponga il paziente al centro accordando spazi non residuali alle espressioni emotive, non riducendola a tratti “naturali” e individuali ma più correttamente letta come conseguenza di una scelta complessa e socialmente costruita.

Ad oggi, il medico spesso deve confrontarsi con il paziente il quale si dimostra già ‘informato” e preparato della sua salute e del suo stato per mezzo dei mass media e dei suoi familiari ed amici. Il rapporto medico-paziente è ancora più dialogico ed innovativo poiché la comunicazione tra il paziente ed il medico è cambiata notevolmente al punto che, per la buona riuscita dell’intervento di cura, sono essenziali il rapporto verbale e il contatto fisico.

Per fare un’analisi profonda della figura del medico sarebbe interessante indagare sulle diverse prospettive attribuite ad esso dal punto di vista sociologico e del ruolo all’interno della società, nel rapporto medico-paziente e nell’immagine che ha di sé sin dai primi anni di formazione, analisi che saranno affrontate nel terzo capitolo del presente elaborato.

2

Si tratta di procedimento che tende ad interpretare segni e sintomi quali manifestazioni di un processo patologico in atto o pregresso.

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1.2

MEDICINA COME PROFESSIONE FONDATA SU AUTONOMIA E COMPETENZA

La medicina è una pratica e una professione con un proprio sapere e potere, il cui oggetto è un soggetto: l’uomo sano e malato, e la cui cultura di riferimento considera la tecnica come mezzo e l’uomo come fine. A questa professione non basta l’essere fondata su scienze-le fondamentali scienze di base con gli oggetti loro propri- per essere ciò che essa è per statuto: una professione che opera per il bene o per il meglio di soggetti, pazienti assistiti ai quali si rivolge e per i quali viene esercitata fra certezze e incertezze (Cosmacini, 2009).

La figura del medico, nel corso dei secoli, spesso ha assunto obiettivi, funzioni e metodi specifici acquisendo la propria legittimazione grazie ad una crescente dipendenza della società dal sapere scientifico e dal progressivo riconoscimento della medicina come professione. È un’occupazione classificata ufficialmente come professione che oltre a godere di un certo prestigio acquista il diritto, legalmente garantito, di svolgere in maniera esclusiva la propria attività. Spesso, la posizione del medico si trova a rapportarsi con i cambiamenti della società che, in alcuni casi, hanno portato a delle limitazioni di potere imposte dalle organizzazioni del lavoro e dalle istituzioni legali.

Dagli ultimi studi condotti sulla professione medica sono emerse due osservazioni contrastanti: da un lato viene indicata un’attività medica fortemente valorizzata nella società e ben definita per il suo universalismo e il suo senso di realizzazione; dall’altro una società complessa in cui, i valori di riferimento della professione medica, spesso si intrecciano e si scontrano con quelli del paziente - cliente. Quest’ultimo ha una presa di coscienza ormai forte che si manifesta nel diritto di porre regole e limiti nella sua relazione con il medico e ad ogni atto che questi compie nei suoi confronti (Carricaburu e Mènoret 2007).

Per poter fare una riflessione sul ruolo professionale dei medici e sulle strutture istituzionali ad esso connesse è importante introdurre preliminarmente alcune considerazioni teoriche sul tema delle professioni in generale correlando i cambiamenti di quella medica.

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Il primo studio sulle occupazioni ed in particolare delle professioni fu condotto da Carr-Saunders e Wilson negli anni ‘30 del XIX secolo attraverso la ricostruzione dell’evoluzione storica di ventidue professioni inglesi. Secondo i due autori il termine professione cominciò ad essere usato nel XVI secolo in Inghilterra per indicare l’attività lavorativa nei tre campi della teologia, della medicina e del diritto dal momento che nel mondo antico, pur conoscendo le figure del medico, del giurista e del sacerdote, esse non possedevano un termine corrispondente (Tousijn, 1997). Solo a partire dal Medioevo questo genere di occupazioni furono esercitate da persone che ricevettero una istruzione formale, scientifica e prolungata grazie alla nascita delle Università attraverso le quali, i saperi si sistematizzarono in discipline distinte favorendo la divisione delle diverse figure professionali, come in ambito medico, in cui avvenne la divisione tra lavoro intellettuale (casta dei medici) e il lavoro manuale (chirurghi e barbieri che si riunivano in corporazioni).

Questa ricerca fece da ponte tra il periodo dei classici e quello funzionalista che ebbe origine dal pensiero di Durkheim e si evolse con la teoria di Autori tra cui Parsons, Goode e Barber. Per quest’ultimi il termine professione indicava delle occupazioni che mettevano in pratica una serie di conoscenze teoriche che svolgevano delle attività strettamente connesse alle problematiche e ai valori a cui la società attribuiva un importante ruolo.

L’esercizio di determinate professioni, in particolare quella medica, richiedeva un elevato grado di competenza scientifica e questo creò problemi di controllo sociale sia da parte della supervisione burocratica in virtù di una posizione formale sia per quanto riguarda il giudizio del cliente non più in grado di giudicare le prestazioni del professionista. La soluzione a questo problema fu trovata nell’orientamento al servizio (o alla comunità)attraverso un processo di socializzazione delle professioni nel quale i candidati dovevano sottostare ad uno stretto controllo esercitato dai colleghi (codice etico) garantendo in cambio vantaggi e privilegi come un reddito ed un prestigio elevato (Tousijn, 1979).

Parsons, riconducendosi alla teoria funzionalista della stratificazione sociale, parlò della professione medica come ‹‹di un meccanismo del sistema sociale necessario per far fronte alle malattie dei suoi membri (…) ed è organizzata sulla

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base dell’applicazione della conoscenza scientifica ai problemi della malattia e della salute›› (Parsons, 1951).

Egli definì la malattia come una devianza istituzionalizzata rispetto ai ruoli essenziali al funzionamento del sistema sociale e il compito del medico fu quello di accertare, controllare e reintegrare nel proprio operato il paziente restituendolo ad una vita attiva. Il suo incarico sociale fu caratterizzato dalla specificità delle funzioni esercitate, dall’utilizzo della neutralità affettiva nei confronti degli assistiti e dall’orientamento delle sue azioni in funzione del benessere della collettività di cui egli faceva parte. Definito questo ruolo si potevano ridurre al minimo le resistenze sociali che sarebbero state altrimenti di ostacolo alla possibilità di compiere il lavoro. La professione perciò veniva ad essere investita di aspettative, di vincoli, di diritti e doveri (Izzo, 1994). Lo sviluppo della conoscenza tecnico-scientifica, portò alla crescita sia del numero dei professionisti, sia di quello delle occupazioni che ambivano ad essere riconosciute come tali e ciò spinse Goode ad affermare ‹‹una società che si industrializza è una società che si professionalizza›› (Goode, 1957).

Cosa si intende per professionalizzazione? Con professionalizzazione, si intende il «processo mediante il quale le singole occupazioni, nel corso della loro storia, si trasformano in professioni, ossia acquisiscono gli attributi speciali del professionalismo›› (Tousijn, 2000). Tale processo diventò così il ‹‹cambiamento più importante avvenuto nel sistema occupazionale della società moderna›› (Parsons, 1968).

Greenwood fu uno dei più importanti Autori che introdusse l’idea dell’opportunità evolutiva delle occupazioni in professioni e indicò cinque elementi che ritenne costitutivi delle professioni rispetto alle occupazioni: sanzione della comunità intesa come l’insieme di poteri e privilegi che ogni professione cercava di ottenere dalla comunità come ratifica della sua autorità, autorità professionale limitata alla sfera di competenza tecnica del professionista, regole etiche codificate che avevano lo scopo di tutelare il cliente da eventuali abusi da parte del professionista,corpo sistematico di teoria che descrivevano i fenomeni d’interesse della professione e cultura professionale che favoriva il consolidamento dell’identità professionale (Greenwood, 1952).

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Nel corso degli anni, il tema delle professioni e degli elementi costitutivi individuato da Greenwood fu affrontato, reintegrato e modificato da altri autori tra cui Barber (1963) che studiò le professioni emergenti, attraverso i modelli di comportamento delle leaderships professionali sostenendo che tali professioni, per raggiungere un livello di status elevato, dovevano inserire la loro formazione nelle Università con l’obiettivo di raggiungere gradi accademici superiori.

Negli anni ‘60,il modello funzionalista subì una serie di critiche da parti di alcuni autori che avanzarono l’ipotesi di individuare una sequenza comune di fasi attraverso cui transitare tutte le professioni, tra questi ci fu Wilensky.

L’autore nel suo saggio “La professionalizzazione di tutti?”, propose in primo luogo di sfatare la convinzione che tutte le occupazioni aspirino a diventare delle professioni, dal momento che «molte di esse si troverebbero in contesti organizzativi che ne minaccerebbero l’autonomia e l’ideale di servizio››.

Egli sostenne che qualsiasi occupazione, per poter assumere dignità professionale, doveva attraversare cinque fasi del processo di professionalizzazione secondo questo ordine: manifestazione di una determinata occupazione a tempo pieno, creazione di scuole di formazione specialistica, nascita di associazioni professionali (locale e nazionali), garanzia di tutela dello Stato verso la professione stessa, predisposizione di codice deontologico (Wilensky, 1964).

L’operazione di Wilensky fu un tentativo di ridimensionamento del concetto di professionalizzazione inteso come unidirezionale e sequenziale lungo un sentiero nel quale «le poche occupazioni che sono chiaramente riconosciute e organizzate come professioni (…) hanno tutte viaggiato sino alla terra promessa del professionalismo››.

A questa teoria si contrappose Abbott secondo il quale, ricostruire le fasi del processo di professionalizzazione come una serie costante di eventi significa, definire delle sequenze che non tengano conto né dei processi sociali complessi e profondi né di fattori (culturali, economici, politici) che determinano la mutabilità dei processi. L’Autore si avvalse del termine di ‘giurisdizione’ per indicare la relazione tra una professione e la sua area di attività professionale.

Intorno agli anni ‘70 la pretesa da parte delle professioni, in particolare in ambito sanitario, di delineare il proprio profilo e il proprio spazio si realizzò con la

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messa in atto di strategie, tra cui la dominanza medica costituita da due elementi: l’autonomia professionale e la posizione dominante assunta nei confronti delle altre occupazioni (Freidson, 2002). Tale concetto fu introdotto dall’autore con l’intento di sottolineare le capacità di una categoria di subordinare legalmente tutte le figure occupazionali limitrofe e intervenire nella definizione di contenuti scientifici della loro attività (Vicarelli, 2010).

La strategia della dominanza medica permise lo sviluppo di un sistema fortemente stratificato attorno al lavoro dei medici e furono individuate almeno quattro forme che corrispondono ad altrettanti tipi di strategie messi in atto dagli stessi per differenziare il loro ruolo da quello di altre professioni: la “dominanza funzionale”, basata sul monopolio delle funzioni del processo di cura, della diagnosi e della scelta della terapia; la “dominanza gerarchica” fondata sulla divisione verticale del lavoro specie all’interno degli ospedali; la “dominanza scientifica”, derivante dal potere medico di definire ambiti della medicina in quanto scienza, la “dominanza istituzionale” che fa riferimento alla massiccia presenza di medici nelle commissioni abilitative di molte occupazioni sanitarie, nei corpi docenti, nelle istituzioni centrali di ogni professione (Tousijn, 2000).

Ben presto, in linea con la prospettiva del potere, il termine professionalismo andò ad assumere un ulteriore significato e approccio interpretativo che fu introdotto da alcuni teorici neo-weberianitra questi, Johnson. Egli considerava le professioni un mezzo per controllare l’occupazione e la relazione che si instaurava tra il professionista che “donava” la prestazione e il servizio, e il cliente che utilizzava il servizio professionale. In riferimento a quest’ultimo l’autore distinse: il controllo collegiale dove i professionisti definivano i bisogni dei loro clienti, dal patronato dove il cliente indicavano i propri bisogni, alla mediazione dove lo Stato o un’agenzia pubblica definiva criteri e bisogni di soddisfazione (Johnson, 1972).

Si crearono così tra produttori di beni e servizio relazioni di dipendenza sociale, economica e di distanza sociale che si concretizzarono nel dover far affidamento, da parte del consumatore, alle competenze altrui per soddisfare i propri bisogni.

Professioni come quella del medico, si scontrarono con queste insicurezze a causa della posizione e delle richieste dei pazienti che spesso si interfacciavano con

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dei tabù sociali (come l’accesso al corpo) altri di particolare significato culturale(nascita, morte).

Secondo Johnson, la tensione che si creò in questa relazione doveva essere risolta in quanto portatrice di instabilità, tutto ciò ha dato origine allo sviluppo di meccanismi sociali di controllo delle incertezze; a tal proposito Freidson nel 2001introdusse il concetto di “potere professionale” inteso come lo sviluppo di un monopolio su specifiche aree di attività.

In sintesi il processo di professionalizzazione si sviluppò all’interno di posizioni opposte: da un lato l’idea di universalizzazione del modello professionale dall’altro ‹‹situazione di conflitto e negoziazione che ciascuna occupazione, in quanto soggetto collettivo e organizzativo, sostiene con le altre occupazioni, con lo Stato e con i clienti stessi›› (Tousijn, 1997).

A partire dagli anni ’90 tale processo si arricchì di nuove tendenze tra cui, il managerialismo, nonché la messa in atto di un sistema che spinse gradualmente la gestione dei presidi sanitari pubblici verso modelli e riorganizzazioni di tipo privatistico che seguirono le linee del new management (Pollit e Bouckaert, 2002).

L’impatto del managerialismo sembrò incidere molto sull’autonomia di alcune categorie, tra cui in primis i medici, così come dimostrato dalle ultime ricerche (Martinus-sen e Magnussen 2011) che evidenziarono una contrapposizione tra due subculture della professione: quella dei medici con ruoli dirigenziali (financial realists) tesa a privilegiare i principi organizzativi, e quella dei medici con ruolo clinici (clinical purists) focalizzata sul principio della centralità del paziente e delle sue esigenze.

Attualmente l’idea di medici e manager come fazione tra loro contrapposte è stata superata, dal momento che il processo di ristratificazione della professione medica ha posto le basi per una ricollocazione della figura del medico all’interno delle organizzazioni sanitarie prevedendo l’assunzione da parte di essi di ruolo di carattere gestionale e dirigenziale (a livello locale ed apicale) e lo sviluppo di competenze di carattere organizzativo (Freidson, 2002).

Ad oggi si richiede un rinnovamento del professionalismo tradizionale della figura del medico sia per quanto riguarda gli ambienti professionali che quelli accademici come sottolineato da Vicarelli che, nel 2012, passò in rassegna le

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proposte di rinnovamento della professione. Tra queste, prima di tutte, il recupero dei “valori fondanti” della professione nonché l’altruismo, il mutuo rispetto, l’integrità, l’onore, l’onestà e la “morale” della professione medica facendo riferimento ad Ippocrate. Successivamente questi valori devono essere declinati in comportamenti nei confronti del paziente e della società come l’impegno a migliorare la qualità della prestazione e l’accesso alle cure con l’obiettivo di superare una fase conflittuale e recuperare la fiducia nella professione medica (Vicarelli, 2013).

Nella professione medica moderna spicca non solo il possesso di conoscenze scientifiche elevate acquisite mediante un processo di formazione permanente ed un’elevata autonomia tecnica ma, soprattutto, l’attenzione agli aspetti relazionali e alla capacità di usarli consapevolmente al servizio del proprio agire professionale.

Considerando e analizzando il Codice Deontologico Medico ad oggi sono cambiati i toni dal momento che tiene conto non solo dei cambiamenti socio-culturali, istituzionali e procedurali che vanno ad investire le sfere della salute e della cura ma tende a ridefinire i confini e le caratteristiche di cura tracciando profili aggiornati degli attori coinvolti con una prospettiva di salute gender sensitive. (Biancheri, 2016).

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1.3

LA FORMAZIONE IN MEDICINA: ANALISI DEI CURRICULA UNIVERSITARI

«I dottori passano un sacco di tempo a studiare nomi latini delle malattie che i pazienti hanno. Devono imparare qualcosa di più semplice. I pazienti hanno tutti un nome, e si sentono impauriti, imbarazzati e vulnerabili, insomma si, sono malati. Quello che vogliono è soprattutto guarire ed è per questo che affidano ai medici la loro vita›› (Jack- William Hunt in Un medico, un uomo).

Chi sono i medici del XXI secolo al centro dei nostri dispositivi di cura? Da dove provengono? Come sono stati preparati alla professione?

Ad oggi la professione medica continua ad affascinare le nuove generazioni nonostante il continuo cambiamento del ruolo e delle responsabilità dovuto allo sviluppo tecnologico, all’evolversi rapido delle conoscenze e alle modifiche dell’iter formativo del medico che in Italia tende ad allinearsi con quello europeo. Dagli studi di medicina si presume che essi forniscano, ai futuri medici, non solo le conoscenze e competenze tecniche della professione ma anche gli atteggiamenti e i valori che consentiranno di esercitarla correttamente. Tale attenzione sui corsi di Laurea in Medicina e Chirurgia partì dalla metà dello scorso secolo, con l’obiettivo di formare nuove generazioni di medici attente non solo alle conoscenze tecnico-scientifiche ma anche alla relazione e alla comunicazione con il paziente nonché ai sentimenti, ai vissuti, ai desideri e alle aspettative proprie e dei suoi familiari.

Ad oggi il corso di Laurea di Medicina e Chirurgia ha dunque lo scopo di formare il medico attraverso una approccio bio-psico-sociale così come specificato dall’ultima riforma che coincide con il D.M. 22 ottobre 2004 n 207 che introdusse delle innovazioni nonché un nuovo ordinamento didattico che prevede come missione quella di: ‹‹Formare un medico che possieda una visione multidisciplinare ed integrata riguardo ai problemi più comuni della salute e della malattia (…) tale missione deve rispondere in maniera più adeguata alle nuove esigenze di cura e salute in particolare nei confronti dell’uomo ammalato considerato nella sua complessità di soma e psiche e inserito nel contesto sociale››. La necessità di un approccio olistico al malato è dovuta al fatto che da oggi sempre più ci si interroga sull’opportunità di recuperare elementi di soggettività e di porre al centro della

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medicina non più la lotta contro la morte ma il miglioramento della qualità della vita, non più il corpo dei pazienti ma la loro vita (Sullivan, 2003).

Secondo alcune ricerche, gli aspetti relazionali come: la capacità di comunicazione, di ascolto e l’empatia verso l’assistito sono ancora spesso considerate solo delle qualità personali e non delle abilità necessarie da poter apprendere nel corso della formazione professionale. Secondo un recente lavoro della

Columbia University (Klitzman, 2006) sull’aumentata sensibilità e qualità dei processi di relazione con i pazienti sviluppata da medici che hanno avuto un vissuto personale nel ruolo di pazienti e su come la separazione tra apprendimento intellettuale ed esperienziale rappresenti un aspetto critico per la preparazione del medico. La ricerca, da me condotta, è centrata sull’analisi del piano didattico della Laurea di Medicina e Chirurgia (LM 41)delle Facoltà di Medicina presenti sul territorio nazionale nonché, in particolare,sulla presenza di materie di ambito psico-sociali rispetto alle discipline tecnico-scientifiche,entrambe necessarie, come già evidenziato, nella formazione del futuro medico. L’obiettivo del prossimo sotto paragrafo è quello di delineare in maniera chiara e precisa la formazione della figura del medico nell’ambito universitario a partire da un’analisi storica dei primi anni dello scorso secolo, riguardante in primis numeri e percorsi della popolazione di studentiiscritti al corso di Laurea in Medicina e Chirurgia con una attenzione particolare alla sua distribuzione per genere.

1.3.1 Corso di Laurea Magistrale in Medicina e Chirurgia: LM 41

Il corso di Laurea in Medicina e Chirurgia, ad oggi, è a ciclo unico della durata di 6 anni nei quali allo studente si richiede l’acquisizione di 360 crediti, equivalenti a 9000 ore di impegno complessivo, pari a 1500 per ogni anno.

Gli studenti, conseguono la Laurea attraverso la discussione della tesi, dopo aver conseguito il totale dei crediti, pari a circa 30 CFU per semestre; le discipline d’insegnamento sono distribuite su 5 anni di corso, mentre il VI anno è destinato essenzialmente al tirocinio professionalizzante (60 CFU). Per potersi iscrivere è necessario superare un test d’ingresso, dal momento che l’iscrizione è a numero

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chiuso, tale test comprende diverse materie: logica e cultura generale, biologia, chimica, fisica e matematica.

Grafico 1 – Storico Iscritti a Medicina e Chirurgia

Fonte: Elaborazione originale da dati CRUI (www2.crui.it)

Il grafico 1 mostra come gli iscritti alla Facoltà di Medicina nel Decennio 1936/37 – 1945/46 è in graduale aumento da 14.000 a 35.500 iscritti, poi leggermente in calo nel Decennio dopo 1947 /48 - 1956/57: da 35.000 a 26.000. Successivamente il numero di iscritti aumenta a ritmi vertiginosi 37.000 del 1966/67 agli 80.000 del 1979/71, ai 120.000 del 1972/73, ai 150.000 del 1974/75, fino ai quasi 190.000 degli ultimi anni Settanta (Biancheri, 2015).

La situazione cominciò a cambiare negli anni ’80,un decennio caratterizzato dalla fuga da Medicina al ritmo di 5-10 mila iscritti l’anno. In questo periodo l’Unione Europea pose l’accento sulla necessità di assicurare in tutti i paesi membri un certo standard qualitativo dell’istruzione universitaria. La presenza di troppi studenti iscritti alla Facoltà di Medicina in Italia non garantiva ai laureati la “facile” disponibilità di posti di lavoro comportando così l’abbassarsi sulle statistiche riguardanti la qualità della formazione. Quindi come risoluzione alla situazione creatasi fu introdotto nel 1987 con la riforma del ministro Ortensio Zecchino il test d’ingresso ed il numero chiuso per buona parte delle facoltà a carattere scientifico.

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Tale decreto però divenne legge soltanto il 2 Agosto del ’99 dopo gli iniziali dubbi sulla sua costituzionalità.

Grafico 2: Domande e iscrizioni a medicina. Primi 10 anni da istituzione numero chiuso

Fonte: Elaborazione originale da dati MIUR (http://dati.ustat.miur.it/dataset/)

Il Grafico 2 mostra che negli ultimi anni, nonostante l’entrata in vigore dell’istituzione a numero chiuso, il numero di studenti che si iscrivono al test di ammissione è sempre in aumento con una netta prevalenza di studenti di sesso femminile anche per quanto riguarda l’immatricolazione al corso di Laurea. Negli ultimi anni accademici il dato riguardante l’immatricolazione è: 2014/2015: totali 9983 e 2015/2016: totali 9530 (Biancheri, 2015). Il problema della “limitazione” del numero dei medici sia in entrata (accesso all’università) che in uscita (accesso al mondo professionale), spesso ha contribuito ad elevare il prestigio professionale della medicina ma, in alcuni contesti, ha creato una serie difficoltà in termini di reclutamento dei giovani e di disponibilità di professionisti rispetto alle esigenze del paese (Brearly, 1991).

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Grafico 3 - Laureati in Medicina e Chirurgia in Italia dal 1999 al 2015 Anno conseguimento Laurea Totale laureati

Laureati Donne % Laureati uomini %

1999 6.745 3.729 55,3 3.016 44,7 2000 6.552 3.739 57,1 2.813 42,9 2001 6.418 3.739 58,3 2.679 41,7 2002 6.999 4.155 59,4 2.844 40,6 2003 7.282 4.350 59,7 2.932 40,3 2004 2.022 1.255 62,1 767 37,9 2005 2.574 1.617 62,8 957 37,2 2006 2.955 1.918 64,9 1.037 35,1 2007 3.797 2.468 65 1.329 35 2008 4.210 2.651 63 1.559 37 2009 4.291 2.722 63,4 1.569 36,6 2010 4.496 2.846 63,3 1.650 36,7 2011 4.850 2.965 61,1 1.885 38,9 2012 5.136 3.093 60,2 2.043 39,8 2013 5.279 3.120 59,1 2.159 40,9 2014 5.494 3.231 58,8 2.263 41,2 2015 7.190 4.084 56,8 3.106 43,2

Fonte: ALMALAUREA (www2.almalaurea.it)

Per quanto riguarda i laureati, come dimostra il Grafico 3, si ha una prevalenza dei laureati in Medicina e Chirurgia di sesso femminile di circa 7 punti percentuali passando dal 55,3% del 1999, al 62,5 dei laureati donna almeno sino al 2009 e tutt’ora è confermata la presenza femminile nei laureati superiore a quella maschile. Le donne arrivano alla Laurea in media a 26 anni, prima dei colleghi

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uomini e con un punteggio superiore conseguendo più frequentemente la lode: ad esempio nel 2005 su 100 laureati con lode ben 78 sono donne (Zajczyk, 2007).

Benché le donne ad oggi siano ben inserite in modo sempre più consistente nella professione di medico e di odontoiatria, la componente femminile diminuisce drasticamente con l’aumentare del livello gerarchico: dal 38% dei ricercatori, al 24% degli associati sino ad arrivare ad un misero 11% di ordinari. La presenza femminile come direttori nelle scuole di specializzazione e in quelle universitarie delle cliniche private è quasi assente, mentre nella direzione generale di aziende sanitarie o ospedaliere la percentuale va al 3% (Atti Convegno FNOMCEO a Caserta del 28 Settembre 2007).

1.3.2 Analisi del Piano didattico del Corso LM 41 delle Università Italiane

La medicina come pratica prevede azioni che esprimono una serie di “trame” e di significati, per questo gli elementi etici devono essere considerati parte fondamentale di essa; la natura della medicina, deve essere studiata e quindi insegnata a partire da questa prospettiva. Tale punto di vista deve far riflettere su alcuni aspetti riguardanti in primis la relazione della pratica medico-scientifica con altre discipline per riuscire a mettere in luce la carenza nonché i punti deboli su cui è necessario analizzare e riflettere. È fondamentale porsi una domanda: gli attuali percorsi di formazione che preparano i futuri medici, mettono a disposizione gli strumenti conoscitivi ed etici necessari per muoversi come professionisti consapevoli all’interno del complesso sistema sociale con cui si dovranno confrontare ogni giorno?

Ad oggi i curricula universitari sono divenuti per lo più contenitori di nozioni da apprendere meccanicamente al fine di superare gli esami, il medico perciò rischia di trasformarsi esclusivamente in un tecnico competente tuttavia non pronto ad affrontare i bisogni delle persone e della comunità. Il core curriculum italiano, frutto di anni di lavoro dei Presidenti del corso di Laurea di Medicina e Chirurgia, è costituito da un complesso di contenuti essenziali che tutti i neolaureati devono aver acquisito in maniera completa e permanente per l’esercizio iniziale della loro professione e per il raggiungimento di obiettivi formativi prefissati. (Gaudio, 2007).

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Tuttavia, pur specificando in maniera chiara gli obiettivi del Corso, non fornisce specifiche indicazioni metodologiche sulla didattica e sul processo formativo, lasciando ampia libertà agli atenei italiani nella gestione di questi. Per ciò la distribuzione delle discipline tecnico-scientifiche e psico-sociali-relazionali varia di Facoltà in Facoltà e quest’ultime possono essere diverse sia per quanto riguarda le materie sia per quanto riguarda la loro distribuzione negli anni accademici.

Dallo studio da me condotto sulla presenza, in 37 Facoltà di Medicina e Chirurgia presenti sul territorio, di Corsi ai quali sia affidato il compito dell’insegnamento di competenze comunicativo e relazionali all’interno della LM 41, esso è risultato in media molto basso, infatti solo un Ateneo (Università degli Studi Vita Salute San Raffaele) ha la massima presenza di discipline psico-relazionali nel piano didattico: 20 su 360 CFU totali necessari per il conseguimento della Laurea, mentre sono molte le Facoltà con una presenza minima di queste discipline; una delle più basse spetta all’Università degli Studi di Bari con 2 CFU su 360 CFU totali.

Gli insegnamenti presenti in questi Corsi trattano di diverse tematiche e i CFU a loro corrispondenti variano da Facoltà a Facoltà, le materie maggiormente riscontrate risultano:

- Inglese scientifico L-Lin/12: tale disciplina mira a potenziare il bagaglio lessicale e l'uso delle funzioni sintattiche degli studenti per far acquisire agli studenti la capacità di impiegare la lingua inglese in modo flessibile ed efficace per i diversi ambiti sociali, accademici e professionali focalizzando in particolare la dimensione medico-scientifica.

- Statistica medica Med/01: il settore si interessa dell'attività scientifica e didattico-formativa nel campo delle metodologie statistiche e statistico-epidemiologiche applicate all’ambito biomedico e clinico, all’antropometria e alla biometria nonché alla programmazione sanitaria e alla organizzazione e gestione dei servizi sanitari.

- Psicologia generale M-PSI/01: riconoscere le principali alterazioni del comportamento e le turbe correlate con la comunicazione verbale (metodi del colloquio clinico, la teoria della personalità, approfondimento dinamiche relazionali dell’operatore-paziente).

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In alcune Facoltà durante il percorso universitario vengono approfonditi attraverso attività elettive i temi relativi alla comunicazione con il paziente, all’applicazione dell’approccio bio-pscio-sociale, all’alleanza terapeutica e alla comunicazione verbale e non verbale.

Questo approfondimento rileva che ancora oggi è necessario intervenire sui percorsi di formazione dei futuri medici ponendo maggior attenzione alla trasformazione necessaria per la qualità delle tecniche di cura che metteranno in pratica. Per garantire e sviluppare il processo di socializzazione della figura del medico bisognerebbe intervenire affinché l’insegnamento di discipline psicologiche, sociali, culturali ed umanitarie della salute siano inserite e riconosciute a fianco delle conoscenze biomediche, sia attraverso la teoria che con la pratica. Per divenire un membro competente della professione medica, lo studente di medicina dovrebbe acquisire le conoscenze, gli atteggiamenti e i valori che gli consentiranno progressivamente di muovere da una cultura universitaria ad una cultura professionale. Quest’ultima è quella vincolante e maggiormente rilevante per tutta la durata della successiva carriera medica poiché, secondo Becker, nessuna osservazione permette di concludere che gli studenti siano socializzati al ruolo di medico perché è l’iniziazione allo statuto professionale che fa il medico (Carricaburu e Mènoret, 2005).

Per poter svolgere un’indagine più approfondita è necessario tenere in considerazione la molteplicità di fattori istituzionali e socio-culturali coinvolti per comprendere i cambiamenti, tra cui quelli di genere, della professione medica tenendo conto dell’esigenze di un sistema socio-sanitario in continua trasformazione. Dal momento che sono mutati i valori fondanti della professione medica, i luoghi e i soggetti della cura tra tecnologia e managerialità, tali scenari influiscono sulla relazionalità e quindi non si può trascurare di ampliare l’analisi ad altri elementi che entrano in gioco sul nuovo professionalismo (Vicarelli, 2013).

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CAPITOLO 2

SGUARDO DI GENERE:

LA

FEMMINILIZZAZIONE DELLA

PROFESSONE MEDICA

“Eppure, o proprio per questo, essere donna è così affascinate. È un’avventura che richiede un tale coraggio, e una sfida che non annoia mai. Avrai tante cose da intraprendere se nascerai donna (..)Avrai da batterti per dimostrare che dentro il tuo corpo liscio e rotondo c’è un’intelligenza che urla d’essere ascoltata”

(Oriana Fallaci,Lettera ad un bambino mai nato,1975)

Il tema riguardante la consistente e sempre più costante presenza delle donne nell’ambito della medicina è un passaggio importante per il riconoscimento effettivo del loro contributo a questa causa. Quest’ambito di studio e di ricerca serve a definire, attraverso uno sguardo diverso e senza letture distorcenti, gli interrogativi che in futuro sapranno far luce sulla pratica medica e sul funzionamento del sistema sanitario grazie anche all’apporto del ruolo femminile (Biancheri, 2015).

L’avvicendamento sulla componente maschile è un fenomeno in costante aumento dal momento che, secondo i dati del S.S.N., le donne rappresentano la maggioranza. Già nel precedente capitolo si è potuto mostrare come, nelle iscrizioni alle facoltà di Medicina italiane, il numero degli iscritti di genere femminile rappresenti il 56% del totale. Ancora lunga è la strada delle pari opportunità nei posti di potere infatti, le donne che ricoprono incarichi di direttore di struttura complessa sono il 14%, donne al comando di una struttura semplice sono il 28 % e solo il 9% dei Direttori Generali è donna (dati Onaosi 2012).

«Sembrerebbe quindi che, una volta che la donna ha conquistato tutti i requisiti necessari ad esercitare certe professioni, certe arti e mestieri, non vi avrebbe ad essere alcuna sufficiente ragione di negargliene poi direttamente o indirettamente l’esercizio›› (Kulicoff, 1890).

Da qui si può dedurre una desolante contraddizione tra la logica e la realtà delle cose; ad oggi le donne medico italiane pur essendo competitive, preparate ed entusiaste della loro professione, spesso incontrano ostacoli nel conciliare il loro

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ruolo familiare (moglie, madre, nonna) con la carriera lavorativa. Il tutto sicuramente condizionato da un contesto di persistenti pregiudizi, stereotipi e disparità di accesso alle cariche, favoriti da una rigidità di fondo nei criteri di promozione o nei riconoscimenti oltre che a una mancanza di politiche statali volte al sostegno della donna. L’origine di queste differenze non va ricercata solo all’interno del sistema nazionale, ma anche dentro i campi professionali e nei modi in cui essi si strutturarono in una prospettiva di genere.

Delineare un quadro generale sul profilo delle donne medico nella storia è un compito di non semplice esito dal momento che, non può essere immaginato un percorso lineare o un andamento ciclico ma bensì largamente condizionato da prospettiva temporale e territoriale e dalle dimensioni di analisi prescelta tra cui: pratiche mediche per sole donne e bambini, medicina povera e ricca, medicina ufficiale e tradizionale (Vicarelli, 2008)

2.1 IL RUOLO DELLA DONNA MEDICO IN ITALIA DAL XIX

SECOLO AD OGGI

Le pioniere dovettero fronteggiare ostacoli posti a più livelli e i risultati che ottennero furono a loro volta condizionati dall’ambiente circostante (Malatesta, 2006). Fin dall’Antichità, il ruolo di medico, fu ritenuto inaccessibile alle donne. Le caratteristiche negative che penalizzano il genere femminile nell’approccio di questa professione sono spesso di natura ‘biologica’, insite nella loro debolezza, nella loro assenza di razionalità o nella loro smisurata inclinazione alle passioni e alla sensibilità professionale. Il ruolo femminile nello sviluppo della scienza fu spesso stato sottovalutato dalla componente maschile, mettendo in secondo piano il contributo e le innovazioni in campo medico che le donne seppero dare nel corso degli ultimi secoli. In molti casi addirittura, le novità apportate venivano etichettate come “troppo moderne” e spesso non vennero prese in considerazione.

Sulla base della ricostruzione storica indicataci da Vicarelli nel volume “Donne di medicina, il percorso professionale delle donne medico in Italia” dell’anno 2008, possiamo suddividere la storia della sanità italiana in tre momenti

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storici ben precisi. Essi corrispondono ai diversi assetti istituzionali e ai diversi ruoli riconosciuti.

Il primo periodo va dalla fine del XIX secolo ai primi anni del XX secolo. Questo periodo comprende le prime laureate in medicina in Italia. Secondo un indagine effettuata da Vittore Ravà e poi pubblicata sul “Bollettino ufficiale della Pubblica Istruzione” del 3 Aprile1902, il numero delle laureate ammontava complessivamente a 244 unità, di cui 24 (circa il 10,7 %) in Medicina (Vicarelli, 2008). A seguito delle ricerche condotte dalla studiosa Annunziata Paola Jeraci invece, il numero delle donne medico di quegli anni dovrebbe essere alzato alle 26 unità, dal momento che non risultano nominate da Vittore Ravà i nomi di Emma Modena e Giuseppina Gorini, entrambe laureate nel 1900 a Pavia.

Già una certa apertura si era profilata nel 1875 allorché il ministro Bonghi, attraverso un articolo del decreto del R.d. n 2728 nel “Bollettino Ufficiale della Pubblica Istruzione”, sancì che: «le donne potevano essere iscritte nel registro degli studenti e degli uditori, ove presentino i documenti richiesti». Questo decreto incoraggiò in qualche modo le stesse a iscriversi nelle facoltà universitarie di tutta Italia, anche se dal punto di vista burocratico un effettivo sviluppo si ebbe solo dal 1883, dal momento che fu definitivamente riconosciuto a loro il diritto a frequentare ginnasi-licei.

La prima laureata in medicina fu Ernestina Paper nel 1877 presso l’Università di Firenze. Di origine russo-ebrea, si spostò dal ghetto di Odessa per andare a studiare in Svizzera (fu la prima nazione europea ad aprire le Università alle donne) liberandosi così della discriminazione femminile ed ebraica vigente nell’impero zarista. Nel 1872 si trasferì a Pisa dove proseguì gli studi per tre anni specializzandosi successivamente nei successivi due anni a Firenze. Nel 1878 sempre a Firenze, aprì uno studio medico dove curò sia donne che bambini.

Anja Rosenstein, conosciuta meglio come Anna Kuliscioff, si laureò a Napoli nel 1888 specializzandosi nel campo della ginecologia. Trasferitasi in seguito a Milano, cominciò la sua attività di “dottora dei poveri” affiancando Alessandrina Ravizza, in un ambulatorio medico completamente gratuito, in cui offriva assistenza

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