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Terzo campo d’indagine: PERCORSO LAVORATIVO/CARRIERA

4.2 Analisi del materiale biografico raccolto

4.2.3 Terzo campo d’indagine: PERCORSO LAVORATIVO/CARRIERA

In questa parte dell’intervista è stato chiesto alle intervistate le loro aspirazioni riguardanti la carriera, cos’hanno realmente vissuto e se ci sono stati episodi positivi o negativi.

Rileggendo e analizzando le loro risposte ho potuto constatare che, per entrambe, fare il medico è la sola cosa che per loro ha senso indipendentemente dagli ostacoli, dai momenti di scoraggiamento e dalle difficoltà. Ciò che mi ha colpito è questa voglia di far emergere il significato che loro stesse danno al concetto di curare il paziente, che non significa solo fare una diagnosi e prescrivere una giusta terapia ma anche prendersi carico della persona nella sua globalità senza tralasciare ogni singolo sintomo fisico e psicologico. Tutto questo richiede amore, passione, dedizione e voglia di non mollare.

La Dottoressa Bianchi, agli inizi della sua carriera aspirava a lavorare nell’ambito ospedaliero, tuttavia questa decisione è cambiata a seguito di un fatto avvenuto quando fece la prima e l’unica domanda per un concorso pubblico nazionale. Venne a sapere che quel posto era già stato assegnato ad una figlia di un impiegato dell’Asl e ne ebbe certezza quando l’anno dopo fu effettivamente assunta, questo le fece cambiare la sua visione riguardante non la professione stessa ma il percorso che doveva seguire. Poco dopo esser entrata con entusiasmo presso un dipartimento dell’ospedale di Pisa, grazie al suo operato e alla sua dedizione ci fu tanta ammirazione da parte sia dei colleghi che dei pazienti ma, quando le fu chiesto di rimanere, decise di lasciare il campo ospedaliero e dedicarsi al suo lavoro di medico di base che svolgerà per tutta la sua carriera sino ad arrivare alla pensione. La decisione di questa scelta sicuramente sarà stata frutto di tanti aspetti tra cui la

delusione di un sistema ancora oggi caratterizzato in alcune realtà dal ‘clientelismo’e la nascita di sua figlia. Tuttavia lei ne parla con serenità e ribadisce diverse volte che non si è mai pentita anzi, tornerebbe indietro, rifarebbe la solita scelta. Fare il medico per la Dottoressa vuol dire essere anche un amico e in certi tratti lo psicologo del paziente, non basta avere un quadro completo clinico della patologia occorre rapportarsi con la persona stessa affinché possa esprimersi ed manifestare liberamente il proprio stato fisico e psicologico, il tutto sempre grazie ad una relazione basata sulla fiducia.

Alla domanda riguardante la riduzione dell’autonomia nell’esercizio della sua professione da parte del sistema sanitario, lei risponde che purtroppo è un aspetto che si è accentuato maggiormente nel corso negli anni. Secondo la Dottoressa diventa difficile spiegare le problematiche agli stessi pazienti che si vedono ogni giorno diminuire: medicinali mutuabili, diritti riguardo visite o radiografie convenzionate e mezzi per accompagnarli all’ospedale. In questa situazione non pagano solo i pazienti ma anche gli stessi medici che, qualora dovessero commettere qualche “errore”, verrebbe poi detratto dal loro stipendio.

La Dottoressa Rossi è nell’iter del suo percorso di carriera, le manca ancora qualche mese dell’ultimo anno di specializzazione poi dovrà scegliere cosa fare. Lei ribadisce che sicuramente continuerà nel mondo ospedaliero, a differenza della madre vorrebbe occuparsi di diverse patologie senza soffermarsi ai “soliti pazienti” ma, non vuole più continuare medicina interna. Dal suo racconto lei punta il dito su chi dovrebbe seguirli e supportarli sino alla fine del loro percorso universitario, ed invece non è così. Lei si definisce abbastanza “autonoma” e sicura del proprio operato ma il tutto esclusivamente grazie alla sua passione e voglia di essere medico. Nonostante le diverse critiche da lei esposte definisce il rapporto attuale con i colleghi e con i professori “molto buono” anzi, un buon stimolo nell’andare avanti.

La Dottoressa ha meno esperienza della madre ma viene da una formazione moderna che, grazie alla nuova tecnologia, dà a disposizione nuove risorse. Tuttavia lei fa un paragone tra la realtà in cui lavora (Parma) ed altre come Reggio Emilia quest’ultima la definisce come più all’avanguardia e moderna grazie alla disponibilità di programmi nuovi. Oltre alla mancanza di risorse tecnologiche la Dottoressa Rossi evidenzia un’assenza di rete tra le diverse istituzioni che

dovrebbero occuparsi della cura del paziente in una situazione di disagio (esempio gli anziani senza familiari che necessitano di attenzioni) facendo emergere il suo “desiderio” di portare l’operato del medico oltre la semplice diagnosi e cura della malattia tenendo altresì conto della persona in tutti i suoi aspetti psico-sociali. Nasce quindi una sorta di autocritica nei suoi confronti e dei suoi colleghi riscontrando nello svolgersi della propria attività la messa in atto di una sorta di “cinismo” nei confronti della sofferenza ma ancora di più della morte. Lei sostiene che il tutto si è sviluppato in maniera naturale ma non per questo può essere considerato normale soprattutto il rimanere indifferenti, se da un lato può aiutare loro stessi nell’evitare di cadere in uno stato di sofferenza ogni volta che muore un paziente, dall’altro li rende comunque delle volte impassibili nei suoi confronti e dei suoi familiare che vivono il dolore e in certi casi il lutto. Il medico non dovrebbe essere così distaccato dovrebbe essere in grado di gestire queste situazioni sempre nel rispetto e nella tutela del paziente e di chi soffre insieme a lui. Ma allora perché nella maggior parte dei casi, come testimonia l’intervista della Dottoressa Rossi, reagiscono in quella maniera? Cosmacini nel suo libro “Prima lezione di medicina” sostiene che “molte fragilità sfuggono (…), attenenti ad una problematica esistenziale nel cui ambito la malattia, l’infermità, l’ansia, la depressione, la dipendenza, l’invecchiamento, la paura, la morte sono eventi della vita correlabili (…) ad un’antropologia antica e nuova, perenne” (Cosmacini, 2009). A mio parere la risposta a questa domanda potrebbe essere data indagando nella parte più profonda, psico-sociale di questi ragazzi e probabilmente tra i vari motivi potrebbe esserci la volontà di svolgere questa professione evitando coinvolgimenti “emotivi” con il paziente come una sorta di autodifesa.

Un altro aspetto rilevante emerso dalle interviste riguarda la medicina di genere che è ancora poco conosciuta, entrambe le intervistate sanno ben poco di cosa si tratti. L’Italia non è immobile a questa tematica manca tuttavia una strategia e un lavoro di rete che ne garantisca l’espansione, sono tanti i pregiudizi e le resistenze culturali e scientifiche con cui deve ancora confrontarsi. Ma il dibattito è iniziato da qualche anno e la recente diffusione di questa nuova branca della medicina è stata attivata grazie all’intervento di organismi e persone che svolgono il ruolo di “innovatori” nonché clinici, associazioni professionali, femminili e femministe di

volontariato sanitario attenti a questo. Dunque riconoscere le differenze di genere diventerebbe essenziale per delineare programmi, per organizzare l’offerta dei servizi, per indirizzare la ricerca e promuovere la salute attraverso la “personalizzazione” delle cure questi, ed altri, dovrebbero diventare degli obiettivi strategici della sanità pubblica.

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