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Gli scavi archeologici a Roma nel XVIII secolo: siti vecchi e nuovi

Possedere una porzione di terreno potenzialmente ricca di tesori archeologici e non procedere allo scavo era considerata nel XVIII secolo una mancanza piuttosto grave. Senza contare che investire denaro nell’apertura di nuovi siti di scavo, concentrarsi su quelle tracce che da sempre indicavano una determinata tenuta come ex dimora imperiale piuttosto che città antica, faceva parte del lavoro di pubbliche relazioni e promozione del proprio casato delle grandi famiglie romane.

Cerchiamo ora di far velocemente chiarezza sulla situazione degli scavi a Roma e dintorni nella prima e seconda metà del Settecento. Protagonista del debutto del XVIII secolo fu senza dubbio Clemente XI Albani che si pose immediatamente come restauratore della Roma imperiale63e insistette fin da subito nel rafforzare le leggi di tutela dei beni d’arte antica, pur non essendo un deterrente del tutto efficace, la via legale era l’unico mezzo per dissuadere gli scavatori che improvvisavano campagne archeologiche senza alcuna licenza papale.64

I primi trent’anni del XVIII secolo, videro oltre al pontificato di Clemente XI anche quello di Innocenzo XIII e Benedetto XIII, un’idea complessiva della situazione degli scavi ce la facciamo indagando le licenze rilasciate dal Commissario delle Antichità Francesco Bartoli65, il numero di licenze è consistente e spesso dalla descrizione è difficile capire del luogo esatto di cui si parla, l’ottenimento della licenza se lo scavo era fortunato significava migliorare notevolmente la propria condizione economica in quanto si riusciva ad aggirare le norme sull’esportazione ed il mercato all’estero non sembrava mai essere saturo.66

La seconda metà del Settecento apporterà notevoli cambiamenti alle abitudini del periodo precedente: l’arrivo di Winckelmann a Roma nel 1755 e la sua presenza nello Stato Pontificio, mutò il modo di vedere l’arte. Il suo programma di compattare la storia dell’arte, smettendo di fare un mero distinguo tra i singoli artisti e promuovendo una visuale d’insieme unificata e                                                                                                                

63 C. Gasparri, La restitutio della Roma antica di Clemente XI Albani, in G. Cucco (a cura di), Papa Albani e le arti

a Urbino e a Roma 1700-1721 (catalogo della mostra), Venezia 2001, pp. 53-58.

64 L’editto del 1704 disponeva che qualora si fosse dovuto procedere alla demolizione di antichità era d’obbligo riprodurre in disegno quei monumenti, anche se modesti, che sarebbero scomparsi.

65 Su Francesco Bartoli commissario vedi: R.T. Ridley, To protect the Monuments: the Papal Antiquarian (1534-

1870), in “Xenia Antiqua”, I, 1992, pp. 133-137;

I. Almagno, Francesco Bartoli Commissario delle Antichità: nuovi contributi, in “Studi Romani”, 55, 2007, pp. 453-472.

66 Sulle licenze d’esportazione vedi: ASR, Camerale I. Diversorum del Camerlengo, buste 588-636; S.A. Meyer, S. Rolfi, in M. Cecilia Mazzi (a cura di) Le fonti e il loro uso. Documenti per un atlante della produzione artistica

romana durante il pontificato di Pio VI, in “Una miniera per l’Europa”, Roma: Istituto Nazionale di Studi Romani,

continua dove l’unica differenza importante è il mutamento dello stile è tutt’oggi alla base degli studi storico- artistici.

Mantenerci a un livello d’indagine superficiale non ci fornirà gli strumenti necessari per scoprire davvero i ritrovamenti d’arte antica del XVII secolo, dunque preparati sommariamente da questa breve introduzione caliamoci ora nel vivo della questione, tra scavatori, opere magnifiche e controversie.

Sentiremo di seguito ampiamente parlare di Gavin Hamilton poiché diresse due importantissimi scavi su terreni appartenenti al principe Borghese, più quello famoso a Pantanello presso Villa Adriana. Alcuni siti promettevano da tempo di segnare una tappa preziosa nella storia

dell’archeologia mentre altri come vedremo saranno ritrovamenti legati alla fortuna della sorte. Nel 1791 Gavin Hamilton convinse Marcantonio Borghese a fargli condurre un’esplorazione archeologica in una tenuta del Principe a Pantano dei Grifi, poco lontano da Roma sulla via Prenestina. (fig.6) Intermediario dell’accordo a quanto leggiamo sul suo Giornale sembra essere stato Vincenzo Pacetti. Hamilton in cambio di un terzo delle opere dissotterrate avrebbe dovuto coprire da contratto tutte le spese, mentre il resto spettava al proprietario dell’area indagata. Lo scavo cominciò nel migliore dei modi, alla data del 19 maggio 1792 il Diario ordinario dello scavo riporta: “Hamilton si accinge all’impresa di aprire una Cava nella Tenuta di Pantano secco, spettante a Pr. Borghese. Datosi dunque principio all’impresa furono trovati gli avanzi di sculture e pietre scelte del miglior gusto che indicavano qualche magnificenza, o qualche antica abitazione, rovinata per l’ingiuria dei tempi.

Difatti non andarono deluse le speranze dell’intraprendente scultore, poiché continuandosi lo scavo più profondo sono stati rinvenuti de’ superbi appartamenti, buona parte lavorati a mosaico con pietre dure, e pavimenti ornati di moltissime scolture del miglior gusto; sono state altre rinvenute alcune Iscrizioni lapidarie, dalle quali si rileva essere quella l’antica città di Gabii tanto celebrata da Plinio, che resti subissata da un terremoto. Indi proseguendosi lo scavo sono state trovate alcune stanze con i mobili, e fino le cucine con tutti i loro attrezzi, e de’ rami ben conservati, de quali ne sono stati trasportati in Roma unitamente alle scolture, e sane, e rotte sopra diversi carri.”67 La città di Gabii è di origine antichissima, ebbe il suo periodo di massimo splendore in età arcaica. Tale prestigio è testimoniato dall’esistenza di un precoce trattato di alleanza tra Roma e Gabii, il foedus gabinum, risalente al V secolo a.C. che concedeva pari diritti agli abitanti delle due città.68

                                                                                                               

67 I. Bignamini, C. Hornsby, op. cit.; vol. II, p. 76.

Già Cicerone dandone una definizione di municipio di Roma calcò parecchio la mano su degrado e abbandono del luogo, da quel momento in poi quasi tutte le memorie letterarie relative a Gabii insistettero sulla rovina della città. Il declino aveva preso drammaticamente il via già durante l’età Repubblicana, è storia vecchia lo spopolamento di un centro minore a favore di un centro ricco e potente quale era Roma, troppo vicina a Gabii perché gli abitanti non fossero tentati a spostarsi in cerca di lavoro e fortuna.69

I dati disponibili non erano tuttavia sufficienti per tentare una valida analisi architettonica dell’area poiché lo scavo condotto da Hamilton risentiva della smania di recupero d’oggetti d’arte e dunque tralasciava la contestualizzazione dei ritrovamenti che invece sarebbe stata funzionale alla ricostruzione urbanistica di Gabii.

Nonostante queste mancanze la disposizione del foro suggerì la presenza di uno schema bipartito. Sembrò di capire che alle spalle della piazza rettangolare e porticata esistesse un edificio sacro, riconoscibile come un tempio con scalinata di accesso. Hamilton70 esplorò i resti di questo edificio identificato come tempio di Giunone Gabina. Le recenti campagne di scavo effettuate dalla scuola spagnola permettono di seguire le fasi di vita del santuario gabino e della città.

L’importante ciclo di ritratti Giulio-Claudi portato alla luce durante lo scavo, costituisce una galleria di raffigurazioni dinastiche tali da avvicinare le statue gabine ad altre opere simili rinvenute in vari siti romani sia in Italia che nelle province.

Non mancano le statue di divinità tra le quali spicca per eleganza dei gesti e compostezza dell’intera figura, la statua della dea Venere che solleva le braccia per allacciarsi il mantello sulla spalla destra, il movimento crea un gioco del panneggio che ricade in morbide pieghe nella parte anteriore della statua.

L’unico pezzo che non andò a ingrossare la collezione di Villa Borghese fu un’ara squadrata

con Venere e Baccanti. Hamilton tenne per sé questo raro pezzo e lo diede a Vincenzo Pacetti

come pagamento per aver fatto da perito nel lavoro di valutazione delle opere estratte.

Sull’onda delle scoperte effettuate, Ennio Quirino Visconti cominciò a lavorare al progetto di un Museo espositivo ove collocare busti, statue, are e iscrizioni71 provenienti da Pantano.

                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                     

Villa Borghese. I principi, le arti, la città dal Settecento all’Ottocento, (Catalogo della Mostra, Roma, Villa

Poniatowski 5 dicembre 2003-21 marzo 2004), Milano 2003, pp. 131-144.

69 L. Quilici, Gabii: una città alla luce delle antiche e delle nuove scoperte, Firenze 1979, p. 17.

70 A. Campitelli, Gavin Hamilton a Gabii: gli scavi settecenteschi di Pantano Borghese, in A. Campitelli (a cura di),

Villa Borghese. Storia e gestione, Milano 2005, pp. 43-55.

La storia del Museo infatti cammina insieme al procedere degli scavi: fu aperto nel 1792 per poi chiudere nel 1807 con la vendita di quasi tutto il contenuto a Napoleone, gli anni d’apertura al pubblico furono relativamente pochi eppure venne visitato, apprezzato e commentato dai viaggiatori che vi si recarono durante il soggiorno romano. Una visitatrice danese di nome Friederike Brun descrive il museo come un edificio isolato, quasi nascosto all’ombra dei pini. A quanto narra la signora Brun, vi era conservato un notevole numero di busti e statue, soprattutto ritratti e figure di eroi.

Appare comune alle varie descrizioni dei viaggiatori che vi si recarono in visita, parlare assai superficialmente della sede museale, presi dall’emozione di ammirare la collezione gabina cedevano subito la parola a quelle teste, busti e frammenti testimoni dello splendore passato. A dire il vero decidere dove collocare il nuovo edificio destinato all’esposizione dei ritrovamenti gabini fu una decisione difficile e ben ponderata.

In un primo tempo il Principe organizzò le cose in grande pensando a un edificio da costruire ex- novo, un’idea che vide all’opera, per aggiudicarsi la commissione, due grandi architetti come Giuseppe Valadier e Antonio Asprucci.

Il Valadier ipotizzò una sala rettangolare che ospitasse tutte le statue destinate a decorare ambienti interni, mentre le altre avrebbero occupato pronao e portico.

Il progetto si presentava eseguito in maniera perfetta, studiato nei minimi dettagli e conforme all’idea di spazio museale espressa dalla famiglia Borghese, c’era però un punto a sfavore del Valadier dal peso importante: l’architetto non aveva mai lavorato per i Borghese e dovette ricorrere all’intercessione di Cristoforo Unterperger per avere qualche possibilità di rivalsa sugli Asprucci che detenevano il monopolio sui lavori del casato. L’Unterperger esercitava un certo ascendente sul principe Borghese ed è probabile che avesse presentato il progetto del Valadier come proprio, pronto a rivelare la verità solo una volta che la famiglia si fosse innamorata di quella costruzione rettangolare delicata e perfetta nel suo genere.

Il progetto dell’Asprucci al contrario era grandioso: corpo centrale ottagonale, imponente scalinata d’accesso che introduceva al prospetto aperto su di un atrio scandito da sei colonne ioniche, più due sale espositive poste alla stessa altezza dell’atrio. (figg. 7-8)

Francesco Piranesi commentò i disegni, ma non disse più nulla sulla decisione presa dal

Principe, anche se a giudicare da come si svolsero gli eventi Marcantonio Borghese optò per una soluzione più economica e sbrigativa che prevedeva il riutilizzo della dimora del giardiniere situata lungo uno dei lati maggiori di Piazza di Siena affidato all’Asprucci che dunque ne uscì vincente in ogni caso.

Conosciamo l’aspetto del Casino prima dell’intervento di restauro grazie a due disegni eseguiti da Charles Percier, l’architetto dei Borghese non ne modificò la struttura, ma apportò alcune migliorie funzionali e aggiunse la torretta belvedere con l’orologio volta ad ingentilire il profilo della costruzione un po’ troppo tozzo e primitivo.(figg. 9-10)

Considerando la vita brevissima che questo museo ebbe, la scelta di reimpiegare una costruzione antica si rivelò oculata e vincente per il principe Marcantonio.

La tanta cura e solerzia che egli mise nel suo disegno di far diventare il museo gabino un importante polo museale fu velocemente abbattuto dal mutato clima politico e dalle difficoltà che interessarono la nobiltà romana tutta. Dunque nel 1799 lo stesso Marcantonio curò lo smantellamento del museo ospitato al casino dell’Orologio, ma bisognerà attendere il 1807 perché Camillo Borghese venda in toto l’intera collezione di famiglia.72

Delle sculture esposte al museo rimasero a Villa Borghese solo quattro statue di togati e cinque are con iscrizioni.

Il motivo per cui non tutti i pezzi furono esportati è imputabile ai tentativi del maestro di casa Borghese, Francesco Posi, alla ricerca di ogni pretesto per salvare la collezione. In più gli elenchi forniti a Pierre Adrien Pâris, il direttore dei lavori d’imballaggio e rimozione delle sculture borghesiane, risultavano essere incompleti e mal stilati del numero di opere e soprattutto della loro collocazione e descrizione.73

Per farci un’idea della considerazione di cui godevano all’epoca le sculture Gabine basti citare il giudizio che Ennio Quirino Visconti dava delle opere esportate: “Le sculture borghesiane si possono dividere in due serie. L’una dei marmi trovati in vari luoghi e in vari tempi e riuniti dal cardinale Scipione Borghese e da altri di tale famiglia. L’altra dei marmi scoperti negli scavi di Gabi fatti eseguire nel 1792 dal Principe Marco Antonio Borghese e conosciuti come

Monumenti Gabini.”74

Tale divisione suggerisce una certa importanza numerica delle opere provenienti da Gabi, oltre che notevole riscontro artistico - culturale.

D’altronde se così non fosse stato il Visconti non si sarebbe impegnato a stilare il famoso catalogo ‘Monumenti Gabini della Villa Pinciana’ pubblicato nel 1797.

Proprio qui leggiamo di una statua imperiale mancante di capo a cui era sta aggiunta una testa di

Traiano75. Il torace è decorato con raffinati bassorilievi mentre sul petto campeggia

                                                                                                               

72A. Campitelli, op. cit; 2003, pp. 151-155.

73 E. Debenedetti, Pierre Adrien Pâris e la collezione di Antichità della Villa Borghese, in E. Debenedetti (a cura di),

Collezionismo e ideologia. Mecenati, artisti e teorici dal classico al neoclassico. (Studi sul settecento Romano, 7)

Roma 1991, pp. 223-259.

74 ASV, Archivio Borghese, b. 352, f. 107.

un’eccezionale maschera di tritone, simbolo forse delle imprese di Traiano nel Mar Rosso e Oceano Orientale.76

Una statua di Nerone77 restaurata dal Pacetti che vi aggiunse la testa, sempre antica e

proveniente dallo stesso scavo, che potrebbe rappresentare uno dei figli di Germanico, mentre il corpo sarebbe un ritratto di Caligola. Tuttavia il Visconti legge “su una scaglia che sembrava appartenere a questo medesimo” la sigla TI. AUG., che suggerirebbe una possibile accostamento dell’effigiato a Tiberio Cesare.

La statua di Diana di Gabii è preceduta dalla sua fama, subito ritenuta l’opera più interessante dello scavo a Pantano de’ Grifi.78 Secondo il Visconti sarebbe stato impossibile azzardare altra identificazione se non quella della dea cacciatrice, colta nell’atto di allacciarsi la clamide “come

per uscire alla foresta”.79

Alcuni siti archeologici della città di Roma o della campagna romana, a oggi tra i più visitati e famosi, erano da sempre conosciuti come luoghi d’interesse storico archeologico, ma spesso l’insistere di più proprietari su vaste aree di terreno piuttosto che la mancanza di fondi da

investire ritardò di secoli importanti scoperte d’arte antica. La villa di Adriano a Tivoli, contigua alla Villa dei Pisoni,80 è esempio calzante di quanto appena spiegato. Era stata utilizzata fin dal medioevo come cava per l’approvvigionamento di materiale da costruzione che ne minarono fortemente l’aspetto; gli occasionali ritrovamenti di suppellettili antiche divenivano

immediatamente doni per i Pontefici allo scopo di ottenere qualche aiuto o favore, senza però pensare di mettere in piedi una campagna di scavo vera e propria.

Pantanello era un lago stagnante ubicato a circa trecento metri dal cosiddetto Teatro Greco di Villa Adriana appartenente all’unico proprietario Luigi Lolli.

Già nel 1724 suo nonno Francesco Antonio Lolli aveva scavato lungo le sponde dello stagno di Pantanello, trovando iscrizioni, elementi decorativi e frammenti di sculture. Cosicché suo figlio Luigi decise di svuotare il laghetto per avere accesso ad altri tesori, ma a causa di alcune controversie con i vicini, i quali lamentavano che l’acqua avrebbe invaso anche la propria terra, gli venne impedito.

Le redini dello scavo del 1769 furono prese da Gavin Hamilton e la quantità di statue estratte dallo stagno fu tale che quelle di minor valore furono lasciate sul fondo.

                                                                                                               

76 Eutropio, Libro VIII Rufo Festo Breviar. 77 E.Q.Visconti, op.cit.;1797, p.31, n 36.

78 F. Haskell, N. Penny, Taste and the Antique. The lure of classical sculpture 1500-1900, London 1981, pp. 198. 79 E.Q.Visconti, op. cit., 1797, p. 90, n 32.

Da una lettera indirizzata a Charles Townley81 scopriamo come Hamilton scopri la ricchezza artistica di villa Adriana per un caso fortuito. Un suo uomo di fiducia inviato a Tivoli per raccogliere frammenti di marmo da impiegare nel restauro di alcune statue tornò descrisse ciò che aveva visto sulle sponde del lago Pantanello fornendogli abbastanza materiale per indagare su chi fosse il proprietario del luogo e sperare fosse disponibile ad autorizzare i lavori. In realtà i problemi maggiori li ebbe con Domenico de Angelis, l’uomo in cambio di autorizzare il defluire delle acque del lago sul proprio terreno, confinante con Pantanello, richiese una cospicua somma di denaro. Appena il contrasto fu risolto per intervento della legge, Hamilton si mise all’opera con i suoi uomini, che in pochissimo tempo trovarono un passaggio ad un’antica fognatura scavata nel tufo. La felice scoperta fornì al gruppo il coraggio di cominciare ad esplorare il centro dello stagno. A partire da quel momento le modalità di lavoro peggiorarono

significativamente in quanto gli operai erano costretti a scavare piegati sulle ginocchia e nel mezzo d’una fanghiglia ricca di rospi ed ogni tipo di vermi.

Quando sembrò che non ci fosse più terreno vergine, poiché già battuto dal Lolli, Hamilton ebbe un momento di grande sconforto e sempre citando dalla lettera a Townley scrisse: “ This put a full stop to my career and a council was held.”

Fortunatamente una domenica mattina ricevette visita da Giovan Battista Piranesi, che mentre aspettavadi sentire messa in una cappella delle vicinanze, per ingannare il tempo iniziò una conversazione con un anziano di nome Centorubie, l'unica persona ancora viva che era stato testimone, nonché scavatore, al tempo della campagna diretta dal Lolli. Piranesi prontamente presentò l'uomo a Hamilton e dopo un veloce ragguaglio i due si recarono a Pantanello dove il Centorubie indicò lo spazio già esplorato e quanto invece rimaneva da scavare, circa due terzi dell'intero sito. Grazie a quest informazione il lavoro celebrò un nuovo inizio che riportò alla luce numerosi marmi di una certa rilevanza, oltre a una gran quantità di candelabri, vasi e suppellettili varie.

Piranesi si affrettò ad acquistare questo tipo di reperti, restaurandoli e ricomponendoli nella sua bottega per poi inciderli sul proprio catalogo di vendita. 82

Il boyd vase (fig. 11) è decorato con satiri sorretto da un piedistallo.83 Uno dei tipici pasticci di

Piranesi, commistione di antichi frammenti ad opera del genio e del gusto moderni. Mentre il Warwich vase84(fig. 12), è un vaso di gran mole decorato e sollevato su di un piedistallo moderno dove campeggia il nome di colui che s’adoperò per restaurarlo.85

                                                                                                               

81 A.H.Smith, Gavin Hamilton’s Letters to Charles Townley in “Journal of Hellenistic Studies”, Londra 1901, XXI,

pp. 306-309.

82 Gaffion, J. C.-Lavagne H., Hadrien. Trésors d’une villa impériale (Catalogo Mostra-Parigi), Milano 1999, p.202; Wilton-Ely, Giovanni Battissta Piranesi: the complete etchings, San Francisco 1994, vol II pp.942-944.

La villa dell’imperatore confermava giorno dopo giorno il suo essere stata non solo un luogo paradisiaco, immerso nel verde della cintura romana, ma anche una dimora visibilmente

grandiosa e raffinata. Tra le scoperte effettuate spiccarono una serie di statue di animali davvero realistiche e dinamiche. Fa parte di queste l’Airone (fig. 13) che stringe nel becco un pesce inclinando leggermente il collo come a denunciare lo sforzo compiuto per la cattura e allarga le ali probabilmente per allontanarsi dalla zona di caccia e consumare il proprio pasto in

tranquillità. 86

L’opera fu venduta da Hamilton a Piranesi e tramite questi acquisita dai Musei Vaticani nel 1772.

Tra i vari animali ospitati nell’apposita sala del Museo Pio-Clementino, sempre provenienti da Tivoli, vi è la delicata testa di giovane cervo in marmo rosso. Lo sguardo della bestia suggerisce spavento e sorpresa, quasi come se fosse stata braccata da un cacciatore e avvertisse

l’incombenza della morte.87 La consapevolezza che il sottosuolo nasconda tesori preziosi, il desiderio di scoperta dell’archeologo e la mancanza di fondi da investire negli scavi, sono caratteristiche comuni a molte ispezioni archeologiche del Settecento.

In alcuni casi era il proprietario terriero, se ricco, a finanziare lo scavo, ma in occasione della