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kistan... a formare tante barriere artificiali. Migliaia di chilometri – circa 8.000 – che hanno lo sco- po di separare gli esseri umani gli uni dagli altri e di difendere i Paesi più ricchi, o “democrazie mu- rate”, da scomode intrusioni. Ai muri naturali e artificiali si ag- giungono poi i muri metaforici che abitano le società dove i migranti giungono: l’indifferen- za verso chi soffre, il pregiudizio verso lo straniero, il sentimento di chiusura e avversione contro profughi e rifugiati. Nuove bar- riere che spesso le persone mi- granti trovano alla fine del loro viaggio, quando il peggio sem- brava ormai alle spalle e la spe- ranza di una nuova vita provava a germogliare. Al contempo, si vuole ricordare e promuovere il diritto fondamentale alla libertà di movimento, garantito dalle Con- venzioni Internazionali: «Ogni es- sere umano ha il diritto alla libertà di movimento e di dimora nell’in- terno della comunità politica di cui è cittadino e ha pure il diritto di immigrare in altre comunità po- litiche. Per il fatto che si è cittadini di una determinata comunità po- litica, nulla perde di contenuto la propria appartenenza alla stessa famiglia umana e quindi l’appar- tenenza, in qualità di cittadini, alla comunità mondiale».

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5.1 Mari e Muri

“Mari e muri” sono gli ostacoli che ogni giorno milioni di uomini e donne, in fuga da conflitti arma- ti, disastri naturali e povertà estre- me, trovano dinanzi al loro cam- mino di migranti, a interrompere la strada. Il mare è il confine natu- rale per eccellenza, una barriera sconfinata e carica di insidie, che spesso diviene la meta ultima del viaggio. Per quanto l’attenzione mediatica sia concentrata esclu- sivamente sul Mediterraneo – il “Mare Nostrum”, come era chia- mato dagli antichi romani – le rot- te migratorie attraversano diversi mari nel mondo. In passato la traversata riguardava prevalen- temente l’Atlantico, solcato dai bastimenti carichi di poveri euro- pei che cercavano fortuna nelle Americhe. Oggi i “barconi della speranza” percorrono nuove tra- iet- torie, verso nuove e diverse mete: attraverso il Golfo di Aden (Mar Rosso) per raggiungere dal Corno d’Africa la penisola Arabi- ca; nei mari del sud-est asiatico verso la Thailandia, la Malesia o l’Indonesia e nell’Oceano Paci- fico verso l’Australia; tra le isole del Mar dei Caraibi, verso gli Stati Uniti; da una sponda all’al- tra del Mediterraneo, cercando approdo nella “fortezza Europa”. Spesso, tuttavia, i migranti non arrivano nemmeno al limite del mare e vengono fermati prima nel loro cammino da ulteriori ostacoli naturali: montagne, fiumi

e deserti. Il deserto del Sahara, in particolare, che separa l’Afri- ca nera dal miraggio europeo, rappresenta un confine naturale sterminato, per molti invalicabi- le. Infine, dove la natura non ha posto barriere adatte a prevenire movimenti umani, sono interve- nuti gli uomini stessi, costruendo muri.

Il muro Saharawi, conosciuto anche come “il muro della ver- gogna”, che separa il Marocco e la parte dell’ex-Sahara Occiden- tale, occupata nel 1975, dalle zone sotto controllo della popo- lazione Saharawi: lungo 2.720 chilometri, protetto da 160 mila soldati armati, 240 batterie di artiglieria pesante, più di 20 mila Km di filo spinato, veicoli blindati e mine antipersona proibite dal- la convenzione internazionale. I muri di Ceuta e Melilla, le ultime due enclaves sotto la sovranità spagnola in territorio africano, costituiti da una tripla barriera lungo i confini delle due città con il Marocco, con recinzioni alte sei metri, sormontate da retico- lati di filo spinato e controllate costantemente da agenti della Guardia Civile spagnola. Il muro Tijuana, che si estende per oltre 1.000 chilometri sul confine tra il Messico e gli Stati Uniti. E molti altri ancora (oltre 50, secondo gli ultimi dati), come il muro isra- elo-palestinese, il muro tra India e Bangladesh, quello tra Iran e Pa-

kistan... a formare tante barriere artificiali. Migliaia di chilometri – circa 8.000 – che hanno lo sco- po di separare gli esseri umani gli uni dagli altri e di difendere i Paesi più ricchi, o “democrazie mu- rate”, da scomode intrusioni. Ai muri naturali e artificiali si ag- giungono poi i muri metaforici che abitano le società dove i migranti giungono: l’indifferen- za verso chi soffre, il pregiudizio verso lo straniero, il sentimento di chiusura e avversione contro profughi e rifugiati. Nuove bar- riere che spesso le persone mi- granti trovano alla fine del loro viaggio, quando il peggio sem- brava ormai alle spalle e la spe- ranza di una nuova vita provava a germogliare. Al contempo, si vuole ricordare e promuovere il diritto fondamentale alla libertà di movimento, garantito dalle Con- venzioni Internazionali: «Ogni es- sere umano ha il diritto alla libertà di movimento e di dimora nell’in- terno della comunità politica di cui è cittadino e ha pure il diritto di immigrare in altre comunità po- litiche. Per il fatto che si è cittadini di una determinata comunità po- litica, nulla perde di contenuto la propria appartenenza alla stessa famiglia umana e quindi l’appar- tenenza, in qualità di cittadini, alla comunità mondiale».

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5.2 L’arte come forma di politica

“Perchè si parte da una strage bianca di migranti che cantano sul mare. Perchè si viene da una strada nera di anime scomposte dalla fame. Da una luce tenten- nante e miope che nel passato secolo non c’era. Questo è un seme d’arancia. Questo è Dio”. Sono versi scritti da Emilio Isgrò per accompagnare la sua scultu- ra Seme d’arancia. L’Europa, un tempo alle prese con le quote latte, adesso è alle prese con le quote migranti, accorgendosi ben presto di quanto sia com- plesso gestire centinaia di miglia- ia di persone in fuga anzichè le merci. Il commissario europeo per le migrazioni, il greco Avra- mopoulus parla di protezione delle frontiere esterne per sal- vaguardare l’area di Shengen, sottolineando poi una generale macanza di solidarietà degli Stati così da prospettare un’agenzia per la distribuzione dei profughi: nel 2015 le domande di asilo sono state 1,2 milioni, mentre 1,8 gli attraversamenti illegali. Isgrò da sempre lavora su due coordinate: la linea che cancella (ma che è poi anche gnomone dello spazio tempo) e quella della formica (l’insetto più globalizzato al mondo) che si arrampica di- sordinatamente. In questo mo- mento storico troviamo precise linee di demarcazione rimesse in piedi in alcune parti dell’Europa, e l’immane flusso dei rifugiati bru-

lica nei valichi come un formicaio. Cancellare frontiere e cartografie come fosse qualcosa di aleato- rio significa davvero che ognuno può trovare la propria patria dove meglio vuole? È evidente che la cancellazione di tutti i nomi che la storia ha assegnato ai più di- stanti e diversi luoghi del pianeta non comporta automaticamente la fine della storia quanto la cre- azione di un disorientamento catartico utile a suscitare negli esseri umani la necessità di un nuovo sistema di orientamento che possa guidarci sulle macerie del mondo. L’arte oggi è l’unica forma di politca, di “guerra” che non uccide nessuno, che affila e affina le qualità umane, l’unica forma ideale per costruire una pace che non sia imbelle, ben- sì attiva. Le formiche di Isgrò esprimono quel sentimento di soccorrevolezza che dobbiamo avere verso le creature più de- boli, quindi oggi i profughi che premono alle nostre soglie. Se il loro destino dovesse essere infausto, lo sarebbe anche per noi. La questione delle migrazio- ni impegnerà l’Europa molto a lungo, e oltre ai profughi di guer- ra, c’è gente che scappa dalla fame. L’Europa ha bisogno di nuove azioni e di nuove narrazio- ni. Come quelle proposte da un laboratorio artistico di Bozar di Bruxelles, tentando di re-imma- ginare questo vecchio continen-

te, con un passato imperialista che si può riassumere anche in quel progetto di Leopoldo II del Belgio che, nel 1907, voleva far nascere l’Ecole du Monde, per preparare i futuri coloni a meglio interagire. Da qui l’artista Filip Van Dingenen prende le mosse per lavorare invece a una “scuo- la del mondo” non oppressiva ma dialettica. Partecipa anche Michelangelo Pistoletto con Ge- ographies of change. Nel 2002, avvertendo i tempi, l’artista lanciò la sua Lovedifference. Ma allora era impossibile immaginare ciò che sta accadendo adesso e si puntava sul Mediterraneo pen- sando che risanando le relazioni tra i vari paesi costieri, si potes- sero riparare anche i rapporti mondiali. Ma anche in antico, il Mediterraneo è sempre stato teatro di scontro tra religioni. Ab- biamo tutti delle responsabilità da questo punto di vista, e oggi siamo alla resa dei conti. Purtrop- po i giochi internazionali dietro le quinte sono invisibili, così come i grandi burattinai. La cultura è l’antidoto vero. Adrian Paci, arti- sta albanese naturalizzato italia- no, rammenta a proposito delle migrazioni dei suoi connazionali:

<<...non si tratta di far strada al

terrorismo islamico tenendo le frontiere aperte, ma di ricostruire una forte identità europea riac- cendendo una fiaccola. Per poi poter contrastare il male, che ha

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il potere di coinvolgere le perso- ne. Tra i dijhadisti c’è chi s’immo- la, qui c’è invece un Occidente racchiuso nel suo comfort, che così è destinato a sparire. È solo questione di tempo >>. L’uma-

nità che si sposta e che rimane nel limbo, tra una partenza e un mancato arrivo, è un’immagine che Adrian Paci ci ha consegna- to nel suo lavoro “Centro di per- manenza temporanea”, dove gli immigrati stanno su una scaletta nella pista di un aeroporto, senza alcun aereo dove salire.

<< Questo limbo è una condizio-

ne esistenziale dell’uomo stesso e che ha spesso accompagna- to i popoli >>. Gli stati europei in

questo momento agiscono in modo strabico davanti alla crisi umanitaria dei rifugiati. E questo ci porta indietro di decenni quan- to il progetto di vivere insieme in una grande comunità. Paci e molti altri artisti hanno rivolto la loro attenzione e lavorano per contrastare e comunicare la grande crisi umanitaria che sta affliggendo il mondo in questo momento.

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MICHELANGELO PISTOLETTO

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