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La seconda crisi del welfare state: verso la razionalizzazione

L’inizio degli anni Novanta fu ancora più traumatico per il Paese in quanto nel 1992 oltre ad accusare il fenomeno di “Tangentopoli”, la seconda crisi fu determinata anche dalla speculazione sul nostro debito che ne comportò l’uscita dal Sistema Monetario Europeo (assieme all’Inghilterra).

La soluzione fu una contrazione della spesa pubblica per rientrare nei parametri, seguita dalla creazione di un parziale federalismo sanitario dovuto alle modifiche al Titolo V della Costituzione (l.Cost. n. 3/2001) che attraverso l’art. 117, co. 2 riservava la competenza esclusiva allo Stato per le materie di previdenza sociale, mentre al comma 3 affidava in modo concorrente allo Stato e alle Regioni la previdenza complementare ed integrativa; ulteriormente si segnò anche l’aziendalizzazione delle ULS divenute Aziende Sanitarie Locali (ASL) come conseguenza dell’insostenibilità dei livelli di prestazione dichiarati con il d.lgs. 30 dicembre 1992, n. 50241 successivamente modificato con il d.lgs. 7 dicembre 1993, n. 51742 che le proiettò a logiche di mercato

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Il Decreto Scala Mobile fu introdotto in Italia nel 1945 e rimodulato nel 1951, permetteva l’indicizzazione dei salari in funzione agli aumenti dei prezzi al fine di contrastare la diminuzione del potere d’acquisto

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Osservatorio Conti Pubblici Italiani, “Il divorzio fra Banca d’Italia e Tesoro: teorie sovraniste e realtà”

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All’art. 3, co. 1 si legge: «L'unità sanitaria locale è azienda e si configura come ente strumentale della regione, dotato di personalità giuridica pubblica, di autonomia organizzativa, amministrativa, patrimoniale, contabile, gestionale e tecnica, fermo restando il diritto-dovere degli organi rappresentativi di esprimere il bisogno socio-sanitario delle comunità locali.»

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Si modificarono diversi articoli, i due più importanti furono l’art. 3, co. 1 riformulato come segue: «L'unità sanitaria locale è azienda dotata di personalità giuridica pubblica, di autonomia

manageriali decentrando ancora di più la responsabilità a livello regionale per il raggiungimento degli obiettivi di salute e di bilancio del Paese.

Anche in ambito pensionistico le riforme riguardanti non solo il settore privato, ma anche quello pubblico, non si fecero attendere infatti con la legge delega 23 ottobre 1992, n. 421 – meglio conosciuta come “Riforma Amato” attuata con il d.lgs. 30 dicembre 1992, n. 503, con la quale la contrattualizzazione dei rapporti individuali dei dipendenti pubblici venne data in gestione alla dirigenza con “poteri del privato datore di lavoro” secondo il diritto civile - venne ammessa la contrattazione collettiva e si definì la distinzione fra politica e amministrazione. La Riforma, innalzata l’età per l’accesso alle pensioni e determinando di conseguenza la riduzione della loro copertura finanziaria, segnò inoltre la necessità di introdurre, nel sistema previdenziale a due pilastri, un terzo canale per l’istituzione delle prime forme di previdenza complementare su base volontaria (avvenuta con l’emanazione del d.lgs. 21 aprile 1993, n. 124 recante titolo “Disciplina delle forme pensionistiche complementari”, successivamente abrogato con il d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252).

Accorgendosi però che le variazioni non avrebbero avuto l’effetto desiderato per la sostenibilità della gestione previdenziale derivata dall’immutato cambio dello scenario demografico, con la Legge Dini del 1995, si uguagliarono i due sistemi pubblico-privato attraverso l’entrata in vigore del cosiddetto “contributivo” destinato a coloro che alla fine del 1995 non avessero maturato almeno 18 anni di versamenti (limitatamente ai contributi versati a partire dal 1° gennaio 1996) e chi avesse iniziato a lavorare solo nel 1996. Inoltre si diede autonoma gestione finanziaria delle pensioni all’INPDAP, fino a poco prima erogate direttamente dal Ministero del Tesoro.

Si è giunti così ad una “razionalizzazione”, una riorganizzazione dei processi produttivi, sostenuta dalla tesi che l’assegnazione del sistema di protezione sociale centralizzato al livello decentrato comportasse un uso più responsabile del denaro pubblico, nonché un impiego più efficiente delle risorse, che non dipendesse più dallo organizzativa, amministrativa, patrimoniale, contabile, gestionale e tecnica, fermo restando il diritto-dovere degli organi rappresentativi di esprimere il bisogno socio-sanitario delle comunità locali.»; e l’art. 9, che inizialmente prevedeva la possibilità di istituire forme differenziate di assistenza, fu modificato dall’art. 10 del d.lgs. suddetto che permetteva l’istituzione di forme di «fondi integrativi sanitari finalizzati a fornire prestazioni aggiuntive rispetto a quelle fornite dal Servizio Sanitario Nazionale» attraverso contratti e accordi collettivi anche aziendali, accordi fra lavoratori autonomi e liberi professionisti nonché tramite regolamenti di enti, aziende o enti locali.

Stato in quanto avrebbe minato il concetto di universalismo della previdenza e favorito un welfare settoriale incapace di comprendere i bisogni della popolazione; queste riforme però «si sono rivelate parziali e incomplete, perché definite prescindendo dal loro finanziamento e per non avere saputo cogliere, nella definizione della “durezza” dei vincoli di bilancio, e dei necessari controlli e sanzioni, le condizioni necessarie per realizzare la “responsabilità” e l’“accountability” dei governi locali, attori principali della gestione della spesa di welfare43.»

Anche se le restrizioni finanziarie e il decentramento delle responsabilità imposte alla sanità pubblica negli ultimi dieci anni – che proseguiranno nel lungo periodo - hanno contribuito al risanamento della finanza pubblica e all’aumento dell’efficienza del Sistema Sanitario Nazionale, hanno innalzato la spesa out-of-pocket (sostenuta dalle famiglie) e indebolito il sistema di offerta di servizi e prestazioni sanitarie, aumentando le difficoltà di accesso alle cure e amplificando le diseguaglianze. Tutto ciò ha dato maggior enfasi al secondo pilastro sul quale si fonda il nostro sistema sanitario, ossia la previdenza complementare, ha introdotto progressivi elementi di competitività fra Regioni, ha istituzionalizzato la sanità integrativa attraverso politiche sanitarie integrate pubblico-privato a livello territoriale, e ha reso funzionali le risorse gestite sia da erogatori privati che da compagnie di assicurazioni, in sinergia con il Sistema Sanitario Nazionale, attraverso l’informatizzazione (per esempio i fascicoli sanitari elettronici) e la dematerializzazione dei flussi con il supporto agli investimenti sanitari in ciascun distretto.

Da quest’ultima analisi è possibile concludere che le prime due crisi del modello di welfare state possono essere ricondotte a diverse cause.

Se ci si concentra sul ruolo dell’intervento statale e le sue azioni, il modello meccanico di impostazione gerarchica e razionale ipotizzato da Weber ha aperto la strada alla riorganizzazione del modello statale e al cambio di paradigma dal concetto di government alla nozione di governance, in quanto è cambiato l’ambiente non più fondato su schemi rigidi bensì sulla negoziazione e cooperazione.

Se ci si concentra sulla cittadinanza, essa ha perso la fiducia nella legittimità delle decisioni di tipo top-down che ha costretto lo Stato ad affidare alcune prestazioni alla sfera privata profit e al Terzo Settore, nonché a rispondere sull’uso strategico delle

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P.BOSI,“L’irresistibile attrazione dei trasferimenti monetari” in L.GUERZONI, (a cura di) “La riforma del welfare: dieci anni dopo la «Commissione Onofri»”, Il Mulino, Bologna, 2008

risorse, sul loro risparmio e sul crescere vertiginoso del deficit pubblico.

Altri fattori influenti sono l’introduzione ed integrazione nei settori produttivi della tecnologia; il cambiamento dei processi lavorativi standardizzati a processi flessibili con l’utilizzo della delocalizzazione e la prorompente internazionalizzazione dei flussi commerciali e finanziari dovuta alla globalizzazione degli scambi economici.