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Segue. La buona fede solo eccezionalmente è criterio di governo della discrezionalità

Le osservazioni svolte fino a questo momento sono state dirette a dimostrare l’estraneità, sul piano delle fattispecie, tra la violazione del canone di buona fede e l’abuso di diritto soggettivo.

Occorre ora approfondire il profilo della funzione della buona fede per avvalorare definitivamente le conclusioni cui si è pervenuti. Si tratta cioè di chiarire meglio quali siano i problemi che il legislatore abbia inteso risolvere con la previsione di tale clausola generale.

Ebbene, nonostante le esaminate diversità di approccio che, almeno in via teorica, distinguono la concezione della buona fede integrativa da quella correttiva, si può tuttavia affermare che il compito che, al fondo, è ad essa assegnato dagli interpreti sia innanzitutto uno: dirigere il comportamento delle parti verso la collaborazione necessaria per l’effettiva e compiuta realizzazione dell’assetto di interessi al quale si sono vincolate con la conclusione dell’accordo.

Ed invero entrambe le concezioni condividono l’idea per cui la buona fede intervenga rispetto ad un regolamento negoziale interamente definito, come si evince dal fatto che per ambedue le prospettazioni essa costituisce la matrice di obblighi di comportamento (immaginati come esistenti fin dalla                                                                                                                

46 La sostanziale vicinanza tra le due teorie è evidenziata da A.DI MAJO, Principio di buona fede e dovere di cooperazione contrattuale, in Corriere giur., 1991, p. 794.

conclusione dell’accordo o dal momento della sua esecuzione) accessori e strumentali alla conservazione ed all’effettivo adempimento del patto negoziale. Ciò, in concreto, comporta l’apposizione di limiti alle pretese creditorie o l’ampliamento di obblighi del debitore alla luce dell’interesse della controparte, con lo scopo finale di consentire una proficua esecuzione dell’accordo, in coerenza con il dato normativo che grava dell’obbligo di buona fede ambedue le parti del rapporto obbligatorio o (più specificamente) contrattuale.

In definitiva, impiegando un’espressione particolarmente efficace della giurisprudenza47, si può affermare che la buona fede rappresenti un criterio di reciprocità connotato da una struttura relazionale. Essa implica la valutazione comparativa d’interessi contrapposti per stabilire quale sia il limite entro il quale si possa pretendere che ciascuna delle parti del rapporto salvaguardi le utilità dell’altra senza pregiudicare le proprie. A ciò, del resto, è funzionale l’individuazione, per il necessario tramite dell’interprete, degli obblighi di cui il canone di buona fede è considerato tradizionalmente fonte.

A tale logica, rimane però estraneo il divieto di abuso che postula un apprezzamento da parte del giudice che ha inizio e si esaurisce nella sfera del titolare della prerogativa esaminata.

Ed invero occorre chiarire ora ciò che fino a questo momento si è solo intuito. L’eventuale sviamento dall’interesse sotteso all’ascrizione del diritto, che sostanzia l’abuso, comporta un giudizio che si articola in due momenti.

In primo luogo, si deve procedere alla concreta individuazione dell’interesse che il soggetto abbia perseguito nel servirsi delle facoltà e dei poteri che gli sono attribuiti dalla legge; in secondo luogo, si deve effettuare la sua comparazione con quello che si ritiene sia sotteso dal legislatore alla posizione di vantaggio.

Quanto a quest’ultimo accertamento, si tratta senz’altro di una questione interpretativa che involge l’esame attento della norma giuridica e della sua ratio normalmente realizzabile da parte del magistrato.

Con riferimento al primo, invece, il giudice nel rispetto dei carichi probatori, deve valutare i fatti per stabilire se da essi sia possibile ricavare l’interesse                                                                                                                

47 Cass., 15 marzo 2004, n. 5240, in Foro it., 2004, I, cc. 1397 ss.

che abbia spinto l’agente ad agire48 e dunque confrontarlo con quello tipico;

qualora tale indagine non conduca ad un esito soddisfacente, perché il fatto non si dimostra sufficientemente esplicativo, allora non gli rimane che apprezzare lo sviamento dall’interesse per il tramite di indici sintomatici quali il difetto di coerenza, proporzionalità, pertinenza della condotta dell’agente rispetto all’interesse cui la medesima avrebbe dovuto essere orientata49, alla luce di un canone di ragionevolezza50.

A compimento di tale analisi, giova infine esaminare taluni referenti normativi i quali consentono di escludere che la correttezza sia, se non eccezionalmente, una clausola volta a realizzare un sindacato, tipico del divieto di abuso, in merito all’esercizio di prerogative discrezionali, corroborando così definitivamente la tesi fin qui sostenuta: si tratta degli artt. 1358 e 1460, comma 2, c.c.

La prima norma impone alla parte che abbia acquistato un diritto sotto condizione risolutiva o lo abbia alienato sotto condizione sospensiva di tenere un comportamento conforme a buona fede al fine di conservare integre le ragioni dell’altra parte. La seconda, invece, stabilisce che il rifiuto di adempiere di uno dei paciscenti (c.d. eccezione d’inadempimento), apparentemente giustificato dal fatto che l’altro si rifiuti di adempiere la propria prestazione o non offra di eseguirla contemporaneamente, sia precluso, se, avuto riguardo alle circostanze del caso, risulti contrario a buona fede.

Ebbene, ad avviso di attenta dottrina51 in queste ipotesi il canone di correttezza assolve al ruolo di limite posto alla prerogativa di una parte piuttosto che la funzione di garantire l’aderenza del comportamento delle parti al regolamento negoziale. L’assunto si ricava dall’esame del dato normativo, ma anche da una valutazione più ampia di ordine sistematico.

                                                                                                               

48 U. NATOLI, Note preliminari ad una teoria dell’abuso del diritto, cit., p. 32 precisa come l’interesse che ha mosso l’agente non solo in questa sede, ma in tutta la dinamica giuridica, rileva peraltro solo se, fuoriuscendo dal foro interno del soggetto, si oggettivi in indici apprezzabili emergenti dati fatti per come provati dalle parti.

49 C.RESTIVO, Contributo ad una teoria dell’abuso del diritto, cit., p. 250.

50 Quanto alla tensione di questo giudizio con il principio della certezza del diritto si rimanda al Capitolo III.

51 C.RESTIVO, Contributo ad una teoria dell’abuso del diritto, cit., p. 168.

Ed invero da un’interpretazione letterale delle norme si ricava che la buona fede sia qui funzionale a conformare talune prerogative specifiche, che trovano la propria fonte nella conclusione dell’accordo contrattuale, al canone di correttezza che, dunque, ne argina e preclude l’esercizio arbitrario.

In secondo luogo, da punto di vista sistematico l’introduzione nel sistema codicistico degli artt. 1358 c.c. e 1460, comma 2, c.c. non avrebbe avuto effettiva ragione di essere se con essi il legislatore avesse voluto assegnare al canone di correttezza una funzione analoga a quella ad esso già riconosciuta dagli artt. 1175 e 1375 c.c. Queste ultime norme, infatti, sono disposizioni che, rispettivamente, riguardano l’esecuzione del rapporto obbligatorio nella sua interezza, così come la relazione contrattuale nel suo complesso e, pertanto, sarebbero state idonee a trovare applicazione anche in relazione all’esercizio del diritto in pendenza della condizione ed all’eccezione di inadempimento52. Sicché, è possibile affermare conclusivamente che tali articoli dimostrano come la buona fede solo eccezionalmente svolga in ambito contrattuale la funzione di argine rispetto all’esercizio di singole posizioni di vantaggio attribuite alle parti.

Va ricordato, peraltro, che anche in questa seconda veste la correttezza continua a presentare una chiara struttura relazionale: il limite all’esercizio delle prerogative discrezionali in esame tracciato ex post dal giudice sulla base del sindacato di conformità al canone di buona fede deve sempre essere definito avendo riguardo alla salvaguardia degli interessi dell’altra parte. La logica che governa il giudizio rimane dunque sempre quella del bilanciamento.

Se così stanno le cose, tuttavia, si deve smentire definitivamente l’opportunità di una ricostruzione che metta in relazione il divieto di abuso alla buona fede obiettiva.

Quest’ultima opera, infatti, quale criterio di valutazione della condotta di entrambe le parti del rapporto obbligatorio funzionale all’effettiva attuazione dell’accordo negoziale, costituendo dunque una penetrante regola di conformazione del rapporto contrattuale. Ad essa rimane invece estranea la considerazione del profilo teleologico-causale del                                                                                                                

52 Idem, p. 170.

diritto, vale a dire delle finalità che il titolare della prerogativa persegue cui, invece, ci si suole riferire quando si richiama il divieto di abuso53.

Pertanto, si ritiene in ultima analisi di condividere la tesi di chi in dottrina ritiene che le valutazioni realizzabili per il tramite di buona fede ed abuso divergono “a tal punto che l’apprezzamento dell’utilità della figura dell’abuso risulta subordinato proprio alla totale emancipazione da altre nozioni, in primis proprio quella di buona fede”54.

4.1. L’abuso del diritto in una prospettiva funzionalistica, ovvero