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Segue. L’insussistenza del fatto alla luce del divieto di abuso del diritto

LICENZIAMENTO DISCIPLINARE

4. Segue. L’insussistenza del fatto alla luce del divieto di abuso del diritto

Dato doverosamente atto del vivace dibattito dottrinale che si è sviluppato attorno all’interpretazione del “fatto” già all’indomani dell’entrata in vigore della c.d. legge Fornero, si ritiene ora di poter prospettare una lettura del disposto normativo fondata sulla teorica dell’abuso di diritto.

Occorre innanzitutto ribadire come la tutela reintegratoria, nell’impianto originario dell’art. 18 St. lav., rivestisse un ruolo centrale all’interno della disciplina dei licenziamenti. Ed invero, nell’ambito del quadro normativo fissato dallo Statuto dei Lavoratori, il recesso datoriale era effettivamente suscettibile di produrre gli effetti suoi propri, vale a dire lo scioglimento del rapporto di lavoro, soltanto in presenza di una giusta causa o di un giustificato motivo (soggettivo oppure oggettivo) di licenziamento, giacché in ipotesi di illegittimità operava indistintamente la tutela ripristinatoria.

Non è chi non veda, dunque, come in quel sistema quest’ultima costituisse un presidio capace di arginare in maniera effettiva le possibilità di abuso del diritto. In caso di difetto di giusta causa o giustificato motivo, essa impediva infatti al recesso, senza alcun tipo di modulazione, di realizzare i suoi effetti tipici, così inverando il principio della necessaria causalità del licenziamento.

In definitiva, in tal modo il dettato normativo escludeva che il datore potesse sciogliersi dal vincolo contrattuale per perseguire un interesse diverso da quello per cui il potere di recesso è riconosciuto nell’ordinamento, rendendo perciò superfluo il ricorso al principio del divieto di abuso del diritto e riducendo i margini di discrezionalità del giudice nell’applicazione del disposto normativo.

Tanto chiarito, si osserva come nel sistema attuale la modulazione delle tutele introdotta dalle recenti Riforme abbia determinato il venir meno della dicotomia, esistente nel disposto dell’originario art. 18 St. lav., tra la legittimità del licenziamento e la sua conseguente efficacia risolutoria e, d’altro canto, l’illegittimità del licenziamento e la tutela reintegratoria. Non solo.

Oggi, invero, si ritiene anche di poter individuare una nuova dicotomia:

nell’attuale assetto ordinamentale, infatti, si può distinguere tra recesso legittimo che, come in passato, richiede una giusta causa o un giustificato motivo soggettivo e recesso illegittimo; quest’ultimo però, e qui risiede la novità fondamentale, a differenza che in passato, è in grado di determinare lo scioglimento del rapporto, a meno che non si tratti di licenziamento discriminatorio o nullo o di recesso intimato in caso di insussistenza del fatto.

Pertanto, attualmente la vera distinzione, pregnante sul piano effettuale, è tra

ipotesi di recesso illegittimo che, tuttavia, danno diritto al datore di sciogliersi dal rapporto, corrispondendo una mera indennità risarcitoria e recesso illegittimo che, invece, continua ad essere sanzionato con la tutela reintegratoria.

Di conseguenza, ai fini dello scioglimento del rapporto di lavoro, la rilevanza della sussistenza delle causali che devono sorreggere l’atto di recesso datoriale può dirsi quantomeno attenuata, sebbene non possa giungersi a sostenere, come pure si sarebbe tentati296, che il licenziamento stia regredendo verso il suo originario carattere acausale, posto che l’accertamento della sussistenza della causale dell’atto di licenziamento continua pur sempre ad essere necessaria per stabilirne la legittimità.

Cionondimeno, l’aver preso coscienza di questo nuovo impianto ordinamentale non consente all’interprete di ritenere possibile che il datore sciolga il rapporto non solo, come vuole oggi testualmente la legge, in difetto di una giusta causa o giustificato motivo soggettivo, ma, addirittura, arbitrariamente, in spregio alla teorica del divieto di abuso del diritto che si è andata sostenendo finora. Tanto più ciò non è ammissibile in un ambito in cui, da sempre, il legislatore ha ristretto gli spazi di operatività dell’autonomia privata a tutela della parte debole del rapporto.

In particolare, a chi scrive pare che un’evenienza siffatta possa verificarsi in relazione all’ipotesi di “insussistenza del fatto” contemplata a partire dalla Riforma del 2012.

Il carattere imperfetto e lacunoso della fattispecie normativa introdotta dal legislatore, a ben vedere, consente che nelle sue pieghe si possa annidare la possibilità effettiva che oggi sia perpetrato dal datore un abuso, in senso tecnico, del diritto di recesso. Si ritiene, infatti, che il datore, nel sistema attuale ed a differenza di ieri, possa assumere una condotta formalmente ed apparentemente del tutto omogenea rispetto al dato normativo, intimando il                                                                                                                

296 V. in dottrina i contributi di C. CESTER, I licenziamenti nel Jobs Act, in WP CSDLE

“Massimo D’Antona” – n. 273/2015, spec. p. 6; R.DE LUCA TAMAJO,Licenziamento disciplinare, clausole elastiche, “fatto” contestato, in Arg. dir. lav., 2015, 2, pp. 269 ss. In proposito P.TULLINI, Riforma della disciplina dei licenziamenti e nuovo modello giudiziale di controllo, cit., già con riferimento alla Riforma Fornero ha persuasivamente evidenziato come “l’intervento legislativo supera ampiamente il versante sanzionatorio e incorpora una rilevante modifica delle condizioni e delle regole di esercizio del potere datoriale”.

licenziamento a seguito del verificarsi effettivo di un “fatto materiale”, ma deviando dall’interesse tipico sotteso all’atto di recesso ed, in definitiva, abusando del proprio diritto.

Ciò accade, secondo la tesi che si propone, non solo in tutte le ipotesi in cui ricorra un mero fatto materiale attribuibile al lavoratore, ma privo di qualsivoglia rilevanza disciplinare, ma anche in tutte quelle in cui l’inadempimento, che pure sussiste, sia stato così lieve da non poter ragionevolmente aver turbato, neppure minimamente, la relazione lavorativa tra le parti. In altre parole, per non incorrere in una patente violazione del divieto di abuso del diritto, occorre accertare che si sia verificato un accadimento inerente alla prestazione del lavoratore che abbia alterato effettivamente ed obiettivamente la fisiologica prosecuzione della relazione lavorativa tra le parti, ancorché non sia stato tale da configurare una giusta causa o un giustificato motivo soggettivo di licenziamento. Soltanto in tale ipotesi, invero, il giudice può ritenere che il datore non abbia agito arbitrariamente, vale a dire in contrasto con l’interesse all’organizzazione dell’impresa, conformato dalle nozioni di giusta causa e di giustificato motivo, per cui l’ordinamento gli attribuisce il diritto potestativo di recesso dal rapporto di lavoro.

Accedere ad una diversa interpretazione ad avviso di chi scrive significa dover ammettere, al di là degli infingimenti e degli artifici retorici, che la regola surrettizia sia ormai quella del recesso ad nutum, giacché il datore di lavoro può, al prezzo di una indennità anche contenuta, sciogliersi dal vincolo contrattuale, consentendo al recesso di realizzare gli effetti che ad esso sono propri.

Secondo l’opinione qui proposta, quindi, può essere ritenuto accettabile il riconoscimento della mera tutela indennitaria a fronte dell’illegittimità del recesso datoriale soltanto fino al punto in cui il difetto di una giusta causa o di un giustificato motivo soggettivo non integrino un’ipotesi di licenziamento arbitrario collidente con il principio del divieto di abuso del diritto. Qualora ciò accada, e senza che occorre invocare il carattere discriminatorio dell’atto, il recesso va considerato abusivo e, dunque, affetto da illiceità della causa, con conseguente declaratoria della sua nullità.