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Segue. La libera recedibilità dal rapporto di lavoro alla luce della teoria dell’abuso di diritto

DEL DIVIETO DI ABUSO NEL DIRITTO DEL LAVORO

2. Le applicazioni giurisprudenziali del divieto di abuso del diritto

3.4. Segue. La libera recedibilità dal rapporto di lavoro alla luce della teoria dell’abuso di diritto

Il tema del controllo causale operato dalla giurisprudenza con riguardo al licenziamento comminato nell’area della c.d. libera recedibilità rappresenta un argomento di perdurante attualità. Proprio tale constatazione, e non certo la sua minore importanza, ha suggerito di dedicare ad esso l’ultimo paragrafo della trattazione in merito agli orientamenti pretori in materia di abuso dei diritto del datore di lavoro.

Come noto, esistono ancora oggi nell’ordinamento fattispecie, residuali, in relazione alle quali il datore può procedere al licenziamento del lavoratore ad nutum: invocando il disposto dell’art. 2118 c.c., può cioè recedere dal rapporto senza dover addurre in proposito alcuna giustificazione. Si tratta del licenziamento di particolari categorie di lavoratori: dirigenti, domestici, sportivi professionisti, lavoratori ultrasessantacinquenni che abbiano già maturato i requisiti per godere della pensione di anzianità ed, infine, lavoratori in prova.

In relazione a tali ipotesi, giova innanzitutto ricordare come la giurisprudenza, già a partire dagli anni Settanta, abbia avvertito la necessità di precisare che il carattere ad nutum del licenziamento non potesse comunque comportare l’immunità dal sindacato giudiziale, allorchè l’atto datoriale fosse caratterizzato da illiceità in quanto determinato da ragioni

                                                                                                               

206 Si allude agli arresti pronunciati dal Pretore di Milano tra il luglio ed il settembre del 1982 in merito all’allora noto caso Alfa Romeo puntualmente citati supra, nota 170.

207 Per riferimenti puntuali v. supra, nota 170.

tipicamente discriminatorie208. I giudici, dunque, applicando la teoria del controllo causale sui poteri datoriali, hanno anticipato, in via interpretativa, l’intervento del legislatore che, soltanto alcuni anni dopo, ha previsto con l’art. 3 della l. n. 108/1990 che la tutela antidiscriminatoria venisse estesa anche a favore dei lavoratori liberamente licenziabili.

Al di fuori di questo ambito, la giurisprudenza raramente si è però spinta fino al punto di affermare che il recesso ad nutum del datore di lavoro possa essere sindacato alla luce del generale divieto di abuso del diritto letto in chiave causale.

Un’eccezione rilevante in questo panorama è rappresentata da un indirizzo pretorio sviluppatosi con riguardo al licenziamento del lavoratore durante la pendenza o al termine del periodo di prova. In più di un’occasione, infatti, i giudici, a partire dall’esame del disposto del comma 2 dell’art. 2096 c.c.209                                                                                                                

208 R.AGNESI, In tema di concezione causale dell’atto di recesso, in Riv. it. dir. lav., 1982, II, pp. 98 ss. ricorda come la sindacabilità del licenziamento, anche nelle ipotesi di libera recedibilità, sia stata per la prima volta adombrata da parte della Corte di Cassazione con la pronuncia 17 agosto 1977, n. 3781 in Giur. it., 1977, I, 1, p. 2104. In essa si affermava, infatti, che il dettato degli artt. 4, l. n. 604/1966 e 15, l. 300/1970 esprimesse, in quel contesto ordinamentale, precetti di portata generale, applicabili dunque anche al licenziamento comminato nell’area della libera recedibilità. Con la successiva pronuncia 9 luglio 1979, n.

3930, in Foro it., 1979, I, cc. 5333 ss la Suprema Corte ha poi formulato in proposito una riflessione di più ampio respiro, affermando in particolare che l’esonero dalla motivazione riflette “un concetto individualistico di libertà […], ma non equivale a possibilità di comportarsi in maniera contraria ai canoni fondamentali dell’ordinamento […] non serve a ricavare la regola dell’insindacabilità assoluta dei motivi” anche nei casi non disciplinati dalla l. n. 604/1966.

Occorre però soprattutto ricordare le argomentazioni di Cass., 29 giugno 1981, n. 4241, in Riv. it. dir. lav., 1982, II, pp. 98 ss. con la quale i giudici hanno dichiarato l’illegittimità di un licenziamento, pur intimato nell’area della libera recedibilità, in quanto ritorsivo, ritenendo infatti che la ritorsione integri un motivo illecito. Per quanto qui soprattutto rileva i giudici di legittimità in questa pronuncia hanno affermato che, in special modo a seguito dell’entrata in vigore dell’art. 15 St. Lav. , l’art. 2118 c.c. si pone quale eccezione rispetto alla regola e, pertanto, deve essere applicato in maniera tale da creare le minori discrepanze possibili nel sistema. Si legge in particolare che il tema della sindacabilità del recesso ad nutum per motivo illecito “sembra riconducibile nell’ambito della complessa tematica dell’abuso del diritto”, giacché si tratta di indagare se l’atto datoriale sia caratterizzato da una alterazione del fattore causale che si ripercuote sulla struttura dello stesso, invalidandolo. I giudici, invero, sembrano affermare che l’illiceità del motivo che caratterizza il singolo e concreto licenziamento manifesta una discrasia rispetto alle finalità per cui esso è riconosciuto nell’ordinamento la quale va colpita anche qualora l’atto abbia una circoscritta rilevanza causale, mostrando così di accogliere una lettura in chiave funzionale della teoria dell’abuso di diritto. Cionondimeno, occorre osservare che motivo illecito ed abuso di diritto presentano senz’altro questo connotato comune. Tuttavia, l’operatività di quest’ultimo, già a partire dall’elaborazione civilistica, postula un’apparenza di conformità all’ordinamento della fattispecie concreta, laddove, invece, invocare tout court il disposto dell’art. 1343 c.c.

significa ravvisare una illiceità diretta dell’atto di licenziamento, vale a dire una contrarietà immediata e radicale con una norma di legge.

209 Il comma 2 dell’art. 2096 c.c. prevede testualmente che: “L’imprenditore e il prestatore di lavoro sono rispettivamente tenuti a consentire e a fare l'esperimento che forma oggetto del patto di prova”.

alla luce di alcune elaborazioni teoriche210, hanno precisato che il patto di prova annesso al contratto di lavoro abbia, quale causa, la verifica dell’attitudine del lavoratore all’apprendimento delle mansioni per le quali è stato assunto211. Da questa premessa, hanno tratto la conseguenza secondo cui il recesso datoriale intimato in tale periodo debba essere coerente con la ricordata funzione della prova e che, in caso contrario, il lavoratore possa dimostrare, alla luce in particolare del periodo eccessivamente breve di quest’ultima, che il licenziamento sia connotato da illiceità casuale e, dunque, risulti nullo.

Non è chi non veda come una tale ricostruzione possa essere compresa soltanto “come applicazione di un principio più generale”212 . Si tratta, infatti, proprio di una ricostruzione fondata sul divieto di abuso del diritto, inteso quale canone volto a colpire ipotesi di contrarietà nell’esercizio delle prerogative datoriali all’interesse meritevole di tutela per cui queste ultime sono riconosciute nell’ordinamento.

                                                                                                               

210 C. ASSANTI, Il contratto di lavoro a prova, Milano, 1957, pp. 72 ss.

211 Così in particolare Cass., 12 marzo 1999, n. 2228, in Riv. it. dir. lav., 1999, II, pp. 802 ss;

Cass., 22 giugno 2012, n. 10440, in Banca dati De jure; nella giurisprudenza di merito si v. in particolare Trib. Padova, 13 aprile 1987, in Riv. it. dir. lav., 1988, II, pp. 476 ss. con nota di V.A.POSO, Le conseguenze del recesso del datore di lavoro per motivo illecito durante il periodo di prova che ha qualificato espressamente tale fattispecie come ipotesi di “abuso del potere di recesso”;

più di recente, Trib. Busto Arsizio, ord. 22 ottobre 2002, in Banca dati De jure.

Del resto, questo indirizzo giurisprudenziale sembra essere in linea con quanto affermato dalla Corte costituzionale con la pronuncia 22 dicembre 1980, n. 189 con cui la Consulta, ha confermato la legittimità costituzionale dell’art. 10 l. n. 604/1966 (dal quale, come noto, si ricava, in via interpretativa, la libera recedibilità durante il periodo di prova) precisando, tuttavia, come il recesso datoriale, ancorché discrezionale, non possa comunque sconfinare nell’arbitrio, dovendo risultare utile ad apprezzare le capacità del prestatore di lavoro.

212 R.DEL PUNTA,L’abuso nel diritto del lavoro, in AA.VV., Diritto privato 1997, cit., p. 426.

Individua in questo indirizzo pretorio una chiara applicazione del principio del divieto di abuso del diritto M.T.CARINCI, Il giustificato motivo oggettivo nel rapporto di lavoro subordinato, cit., p. 153.

4.1. L’abuso dei diritti del lavoratore in caso di sospensione del