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II Reclutamento e arrivo degli italiani in Spagna

II.1 Uno sguardo alla situazione economica italiana negli anni Trenta

L’esame della situazione economica italiana della metà degli anni Trenta ci aiuta ad analizzare le motivazioni che spinsero migliaia di uomini ad arruolarsi per formare i contingenti di legionari che sarebbero andati a combattere per la causa nazionalista spagnola173.

L'economia italiana nel 1935 era strettamente legata alla fase di allontanamento dalla forte crisi che aveva investito il mercato occidentale a seguito del crollo di Wall Street. Dal 1933 era iniziato il “periodo di ripresa, la domanda aggregata venne sostenuta da una crescita degli investimenti che subì un'accelerazione dopo il 1934, mentre aumentava anche il ruolo della spesa pubblica e della domanda estera174. La quota dell'Italia sul commercio mondiale crebbe rispetto agli anni di crisi, anche se si trattava di uno sviluppo che doveva tener conto del ruolo giocato dalle esportazioni verso le colonie e soprattutto degli aiuti forniti alla Spagna, a sostegno del regime di Franco175. Le forniture consistevano prevalentemente in prodotti meccanici e similari, pertanto non si può considerare che queste abbiano influito nel migliorare la difficile situazione valutaria del paese, dovendosi considerare effettivamente le colonie come territorio metropolitano e tenendo presente le difficoltà di pagamento frapposte dal governo spagnolo ai crediti italiani176.

L'impresa etiopica, in particolare, aveva anche promosso, e forse anche al di là delle intenzioni di Mussolini, in modo tipicamente keynesiano «la ripresa dell'economia a mezzo di un'ampia domanda statale », concentrandola in alcuni settori particolarmente interessati alla congiuntura bellica177. Queste osservazioni ci permettono di valutare meglio il ruolo svolto dall'imperialismo e dalla

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Per un’analisi più approfondita dell'economia italiana durante il fascismo, si veda: P. Ciocca – G. Toniolo, L'economia italiana nel periodo fascista, Il mulino, Bologna 1976.

174 Cfr. G. Tattara - G. Toniolo, Lo sviluppo industriale italiano tra le due guerre contenuto

in AA.VV., L'economia italiana nel periodo fascista, Quaderni storici, maggio-dicembre 1975, p. 414.

175 Cfr. P. Ciocca – G. Toniolo, L'economia italiana nel periodo fascista, op. cit., p.164. 176 Ivi, p. 178.

70 preparazione alla guerra in una situazione di debolezza della domanda, nella quale gli interessi dello Stato e quelli degli industriali si saldavano, anche formalmente, con il coinvolgimento dei maggiori nomi della metallurgia, della meccanica, della chimica, della gomma agli organi corporativi. Erano gli Agnelli, i Falck, i Donegani, che teorizzarono, con prese di posizione pubbliche, la necessità di un regime di controllo sulle importazioni, una politica di intervento dello Stato a sostegno della domanda e la diretta partecipazione nei settori di base più gravosi per le imprese private, come quelli delle miniere e della ricerca petrolifera.

In questi anni si realizzò un processo di evoluzione delle strutture dell'industria manifatturiera italiana. In sintesi si caratterizzò per lo sviluppo dei settori più strettamente legati alla congiuntura bellica, per una fase di processo di concentrazione tra imprese di maggiori dimensioni e per un rigido controllo sul mercato del lavoro178. Dopo la crisi del 1932 era iniziato un processo di sviluppo selettivo a scapito principalmente delle produzioni tessili e di quelle da essa derivate, che vennero ulteriormente danneggiate dal basso contigentamento fissato per le importazioni di materie prime ad esse necessarie179. L'occupazione operaia in questi settori, al momento della crisi.

Le vicende del periodo 1935-1939 non si discostarono dalle forme di sviluppo avutesi dopo il 1927 e continuate successivamente nel periodo della crisi, con un relativo boom indotto dalla politica di riarmo, che comportò un aumento del prodotto lordo anche in agricoltura. Questo incremento comportò una ulteriore

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La struttura dell'industria italiana in questo periodo può essere divisa in due gruppi: da una parte i settori industriali con un ammontare elevato in mano d'opera, come il tessile, l'abbigliamento e la trasformazione dei prodotti alimentari, i quali presentarono una dinamica dell'occupazione e della produzione sostanzialmente stagnante anche durante la ripresa. Dall'altra parte troviamo i settori che in pochi anni quasi raddoppiarono la produzione aumentando il numero degli occupati in modo addirittura più che proporzionale: si tratta della siderurgia, della meccanica in genere e dei veicoli in particolare, della gomma e in parte dei settori estrattivo e chimico. Negli anni Venti questa contrapposizione non era altrettanto netta, sia perché tutti i settori avevano realizzato aumenti di produzione, soprattutto grazie ad un'accresciuta produttività, sia perché anche l'industria tessile tradizionale e le industrie ad essa connesse avevano trovato nuove possibilità di sbocco sui mercati esteri. Cfr. P. Corner, L'economia italiana tra le due guerre, in G. Sabbatucci– V. Vidotto, Storia d'Italia vol.4, Guerra e fascismo, Laterza, Roma- Bari 1998, pp. 342-373.

71 espansione del settore cerealicolo, delle colture industriali, dell'olio e del vino, a cui fece riscontro una leggera diminuzione degli ortofrutticoli180.

Gli anni Trenta segnarono anche l'inizio della politica autarchica, nata inizialmente come misura provvisoria mirata ad ammortizzare le misure sanzionatorie adottate dalla Società delle Nazioni contro l’Italia a seguito dell’invasione dell’Etiopia e che finì per divenire una presenza stabile nell’economia del Regime. Proprio questa politica economica comportò la riduzione al minimo indispensabile delle importazioni, sostituite con produzioni interne; le esportazioni furono invece incentivate, sempre al fine di diminuire il grave disavanzo della bilancia commerciale181. Tale politica non si rivelò all’altezza delle aspettative, sia per la scarsa disponibilità di materie prime del Paese, sia anche per la dipendenza energetica dall’estero; una realtà che fu forse sottovalutata dal regime e che fu la causa principale del mancato raggiungimento degli obiettivi previsti dai piani autarchici182.

Nonostante la perseveranza con cui il Regime perseguì l’obiettivo dell’autosufficienza economica, le misure intraprese non furono sufficienti o adeguate. Spesso la produzione all’interno costava molto di più che acquistare all’estero; tale politica provocava inoltre, ritorsioni da parte dei Paesi che esportavano in Italia.

180 In tutte le sue forme di regolamentazione dei prezzi agricoli, del commercio estero, della

politica fiscale, interventi per le infrastrutture e della la politica agraria statale, la successiva rivalutazione della lira e la scelta dell'autarchia granaria si misura descrivendo le conseguenze della ormai accentuata spinta verso lo sviluppo dell'industria, piuttosto che enumerando le misure volte ad attutirne i duri effetti sulle imprese agricole. Cfr. E. Fano, L'agricoltura italiana tra le due

guerre in AA. VV., L'economia italiana nel periodo fascista, op. cit. p. 492.

181 Cfr. L’economia autarchica può essere considerata un tratto caratterizzante della politica

fascista. L’obiettivo di tale politica era quello di sostituire le importazioni con produzioni nazionali, con particolare attenzione all’autosufficienza in caso (probabile) di guerra: la sua implicazione immediata era quindi di stilare piani diretti alla produzione interna degli strumenti di difesa. Vedi inoltre in proposito: P. Corner, L'economia italiana tra le due guerre, op. cit., pp. 342- 351.

182 La produzione prefissata da tali piani per ogni settore produttivo non raggiunse le soglie

previste anche per via del calo della domanda sia estera che interna. Non migliorò la situazione la campagna africana tanto cara al Duce, che si rivelò una conquista tutt’altro che conveniente, dal punto di vista delle materie prime, del problema energetico e del miglioramento della bilancia commerciale. Sulla campagna di Etiopia si veda N.LABANCA, Oltremare. Storia dell'espansione

coloniale italiana, Il Mulino, Bologna 2007, oltre a A.DEL BOCA (a cura di), Le guerre coloniali

72 Sul piano interno non mancò il generale malcontento della popolazione dovuto alla mancanza di beni che prima venivano importati; inoltre il consumo pro-capite venne ridotto al minimo della sussistenza per poter destinare la maggior parte delle risorse all’esportazione o all’industria di guerra.

L'esperienza degli anni Trenta, e le leggi dell'accumulazione capitalistica, suggeriscono che gli interventi statali potevano consentire un'uscita dalla crisi solo a condizione di agire da “volano” per gli investimenti privati; quanto fu fatto per le imprese capitalistiche in agricoltura non era certo sufficiente a questo fine, oltre ad urtarsi con una insuperabile crisi di domanda e con i rapporti sociali che la presupponevano. Di qui lo sbocco verso la scelta bellica. Il boom bellico avvenne, in generale, attraverso una compressione dei consumi e dei redditi, anche se indusse un certo aumento dell'occupazione e del reddito. Gli aumenti della produttività industriale non furono tali però da compensare la scelta imperialista dando luogo ad un parallelo aumento dei redditi e dei consumi.

Durante il quadriennio 1935-1939 si assistette ad una ulteriore stabilizzazione dell'agricoltura italiana secondo quegli indirizzi di consolidamento ed incentivazione dell'area di aziende capitalistiche e moderne. Per quanto riguarda la situazione del mercato del lavoro tra il 1931 e il 1936, sappiamo che la diminuzione del tasso di attività nei rami “deboli” non significò evidentemente il totale allontanamento di precari dal mercato del lavoro183.

Esaminando nel particolare la situazione italiana, si può rilevare che a Nord l'aumento del tasso di attività fu la logica continuazione dell'andamento del periodo precedente, il che era dovuto, essenzialmente, al forte impulso occupazionale delle industrie pesanti, in particolar modo le chimiche e le meccaniche, secondo lo schema seguito già durante il periodo giolittiano. Per il totale dell'industria manifatturiera, il tasso di attività rimase stazionario tra il 1931 e il 1936; questo fece sì che la ripresa economica riuscì ad assorbire buona parte dei lavoratori espulsi precedentemente e parte di quelli agricoli, anche se non fu capace di aumentare il tasso di occupazione184.

183 Cfr. P. Corner, L'economia italiana tra le due guerre, op. cit., pp. 342-351. 184 Ibid.

73 Il Centro vide un aumento del tasso di attività dell'industria manifatturiera nello stesso periodo, seppur di entità minore rispetto al Nord. Per quanto riguarda il Sud, la situazione si presentava invece in maniera diversa, poiché vi fu una diminuzione della manifattura e un aumento nel complesso delle industrie, compensato dalla fortissima crescita degli occupati nell'edilizia. In sostanza, nel Mezzogiorno, nel periodo compreso tra il 1931 e il 1936, si ebbe la fortissima propensione ad espellere mano d'opera in momenti di crisi, segno che l'industria meridionale non fu in grado di resistere neppure nel breve periodo. I settori in cui si verificò la maggiore diminuzione del tasso di attività furono quello tessile, metallurgico, della lavorazione dei minerali non metalliferi, con il coinvolgimento sia dell'industria leggera che di quella pesante185.

Le Isole presentavano per molti aspetti le stesse caratteristiche del Sud, con l'aggravante che oltre a conoscere una maggiore diminuzione percentuale del tasso di attività dell'industria manifatturiera, esse registrarono la stessa diminuzione in tutti i rami industriali. Il fenomeno venne determinato sia dallo scarso sviluppo dell'edilizia, sia, caso unico, dalla diminuzione del tasso di produttività delle industrie estrattive che costituivano uno dei più importanti sbocchi lavorativi. Le uniche industrie manifatturiere che conobbero un aumento del tasso di attività furono quelle chimiche e meccaniche; inoltre, la situazione delle Isole, anche se a livello di occupazione precaria, fu in qualche modo migliore rispetto a quella meridionale, poiché vide una diminuzione dl tasso di attività in agricoltura. Nelle isole rimase rilevante il numero di occupati nel terziario, soprattutto se messo in relazione con la diminuzione verificatasi prima e dopo il periodo fascista186. Per quanto concerne l'emigrazione, il quadro della provenienza regionale degli emigrati subì una profonda alterazione. Rispetto al periodo prebellico l'emigrazione dal Mezzogiorno, dopo la momentanea esplosione del 1920, ebbe un drastico ridimensionamento, mentre l'Italia settentrionale, a partire dal 1922, si

185 Cfr. P. Sabatucci Severini - A. Tranto, Sul mercato del lavoro durante il fascismo in AA.

VV., L'economia italiana nel periodo fascista, op. cit. p. 559.

74 affermò come area di massimo esodo e conservò tale posizione durante tutto l'arco temporale considerato187.

La composizione professionale degli emigrati riguardava soprattutto i braccianti, che costituirono il maggiore gruppo professionale migrante nel periodo188.

Il succedersi di iniziative, nelle quali un ruolo centrale venne svolto dal Commissariato per le Migrazioni e la Colonizzazione creato nel 1930 sulle spoglie del preesistente Comitato Permanente per le Migrazioni Interne, è significativo: dal 1931 al 1933 crebbe rapidamente la collocazione di famiglie agricole in Italia e in Libia. La stasi del 1934 trovò invece risposta nei 60.000 smobilitati della guerra coloniale che nel 1935 si insediarono in Africa orientale, e nei 100.000 emigrati operai che vi si recarono l'anno successivo189.

In conclusione si può presumere che la situazione occupazionale del 1936 ebbe sicuramente non poca influenza nella scelta da parte dei volontari di andare a combattere in Spagna; riprendendo le tesi dello storico americano Coverdale prima, e degli spagnoli Alcofar Nassaes e Vaquero Peláez poi, lo stereotipo dell'italiano, proveniente dalle zone depresse del Sud e delle Isole che emigrava in cerca di fortuna, si perpreta anche per quanto riguardava la figura del “legionario” che si arruolava nelle fila nazionaliste per trovare sostentamento e avere una via d'uscita alla disoccupazione190.

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Vedi in proposito P. Corner, L'economia italiana tra le due guerre, op. cit., pp. 313-317.

188 Ibid.

189 Per un approfondimento sulla politica economica dell'Italia durante il fascismo si veda:

D. Baker, «The political economy of fascism, myth or reality or myth and reality?» in New Political Economy, volume 11, Giugno 2006, pp. 227-250.

190 Cfr. J.F. Coverdale, I fascisti italiani alla guerra di Spagna , op. cit. J. L. Alcofar

Nassaes, C.T.V. Los legionarios italianos en la Guerra Civil española. 1936-1939, Dopesa, Barcelona 1972 e D. Vaquero Peláez, Credere, obbedire e combattere, op. cit.

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