Per quanto riguarda le sanzioni applicabili per illeciti amministrativi dipendenti da reato, la legge delega n. 300/2000 individua un complesso sistema di sanzioni applicabili agli enti, suddivise in quattro categorie: pecuniarie, interdittive, pubblicazione della sentenza di condanna e confisca.
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L’art. 11, comma 1, lett. f), della citata legge delega impone, come direttiva generale, di “prevedere sanzioni amministrative effettive, proporzionate e dissuasive” nei confronti degli enti, al fine di predisporre un sistema sanzionatorio deterrente ma, allo stesso tempo, commisurato alla gravità e alla peculiarità del caso concreto22.
La sanzione amministrativa pecuniaria
La sanzione pecuniaria consiste nell’obbligo di pagare una determinata somma di denaro e si applica in ogni caso in cui sia riconosciuta la responsabilità amministrativa a carico dell’ente. Al fine di adeguare la sanzione al caso concreto, il legislatore ha dettato una specifica disciplina per la determinazione della sanzione pecuniaria, in ottemperanza a quanto sancito dalla legge delega, secondo la quale “ai fini della determinazione in concreto della sanzione, si deve tener conto anche dell’ammontare dei proventi del reato e delle condizioni economiche e patrimoniali dell’ente”, mentre la sanzione stessa va ridotta “nei casi di particolare tenuità del fatto”.
La sanzione pecuniaria è determinata per quote; il numero di quote da irrogare viene definito in proporzione alla gravità del fatto, del grado di responsabilità dell’ente, nonché dell’attività svolta per eliminare o attenuare le conseguenze del fatto e per prevenire la commissione di ulteriori illeciti, mentre il valore monetario della singola quota viene stabilito sulla base delle condizioni economiche dell’ente (come si evince dall’art. 11 del d.lgs. 231/2001).
La ragione per cui il legislatore ha optato per questo metodo di determinazione della sanzione amministrativa pecuniaria la ritroviamo nel fatto che l’assetto economico del nostro paese è caratterizzato dalla presenza di realtà imprenditoriali assai diversificate, in cui convivono piccole e medie imprese accanto a grandi gruppi industriali e multinazionali. Predisporre un unico modello di responsabilità per soggetti diversi tra di loro, avrebbe compromesso l’efficacia del modello stesso e delle sanzioni che ne derivano; è chiaro, infatti, che a parità di gravità
22 D’Orsogna Bucci M., Urban M., La Responsabilità Amministrativa degli Enti e delle Società,
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complessiva di un illecito, la sanzione commisurata solo su un tale coefficiente potrebbe risultare estremamente gravosa, fino al limite della non-sopportabilità economica, per un ente di piccole dimensioni, e, al contrario perdere la capacità deterrente nei confronti di un ente di grandi dimensioni, munito di significative risorse economiche e patrimoniali.
Il modello commisurativo per quote23 permette di superare questi limiti in quanto consente di parametrare la sanzione alle dimensioni dell’ente, allo scopo di assicurare l’efficacia della condanna.
Il legislatore ha previsto casi di riduzione della sanzione pecuniaria in presenza di fatti di particolare tenuità o di condotte riparatorie da parte dell’ente.
Più precisamente, l’art. 12 del d.lgs. 231/2001 prevede la riduzione della sanzione nel caso in cui:
- l’autore del reato ha commesso il fatto nel prevalente interesse proprio o di terzi e l’ente non ne ha ricavato vantaggio o ne ha ricavato un vantaggio minimo;
- il danno patrimoniale cagionato è di particolare tenuità24;
- l’ente ha risarcito integralmente il danno e ha eliminato le conseguenze dannose o pericolose del reato, o si è comunque efficacemente adoperato in tal senso25;
23 Il sistema delle quote è costituito da una struttura bifasica: dapprima il giudice determina
l’ammontare del numero delle quote sulla base di indici di gravità dell’illecito; poi determina il valore monetario della singola quota tenendo conto delle condizioni economiche e patrimoniali dell’ente. La somma finale è frutto della moltiplicazione tra l’importo della singola quota e il numero complessivo delle quote. Il tutto nel rispetto dell’ammontare minimo e massimo della sanzione pecuniaria fissato dalla legge delega: è previsto, infatti, che la sanzione pecuniaria venga applicata per quote in un numero non inferiore a cento, né superiore a mille; mentre l’importo di una quota va da un minimo di lire cinquecentomila (euro 258,23) a un massimo di lire tre milioni (euro 1.549,37).
24 La nozione di “particolare tenuità” corrisponde a quella penalistica di un danno che deve essere
obiettivamente trascurabile in termini economici, a nulla rilevando le condizioni patrimoniali del soggetto danneggiato.
25 Talvolta, l’ente potrebbe non riuscire a risarcire interamente il danno o ad eliminare le
conseguenze dannose del fatto che ha costituito reato, poiché si trova in difficoltà dal punto di vista finanziario; tuttavia, si ritiene che si possa applicare la riduzione della sanzione se l’ente ha fatto tutto il possibile in modo efficace.
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- è stato adottato e reso operativo un modello organizzativo idoneo a prevenire reati della specie di quello verificatosi.
La scelta del legislatore di prevedere questi casi di riduzione della sanzione pecuniaria si basa sulla volontà di concedere un trattamento più favorevole nel caso in cui il fatto sia obiettivamente di scarsa entità, ovvero di spingere l’ente ad attivarsi per eliminare le conseguenze dannose dell’illecito nonché adottare dei modelli adeguati, che siano in grado di prevenire la realizzazione di reati in futuro.
Le sanzioni interdittive
Le sanzioni interdittive sono particolarmente pesanti, in quanto comportano rilevanti limitazioni all’attività economica dell’ente, potendo addirittura determinarne l’interruzione.
A differenza delle sanzioni pecuniarie, quelle interdittive possono essere irrogate soltanto nei casi per i quali sono espressamente previste; ciò in ottemperanza alle direttive della legge-delega n. 300/2000, ai sensi della quale tali sanzioni si applicano in aggiunta alle sanzioni pecuniarie solo nei casi di particolare gravità. Viste le conseguenze particolarmente rilevanti che possono avere sull’azienda, le sanzioni interdittive sono più efficaci nel compito di distogliere l’ente dal compiere atti illeciti rispetto alle sanzioni pecuniarie, che invece potrebbero essere sostenute come “ordinari” costi di impresa. Contemporaneamente, hanno la funzione di indurre l’impresa che vuole evitare la loro applicazione a predisporre una migliore organizzazione aziendale.
Le sanzioni in esame si applicano solo in relazione ai reati per i quali sono espressamente previste e qualora ricorra almeno una delle condizioni indicate all’art. 13, comma 1, cioè:
- quando l’ente abbia tratto dal reato un profitto di entità rilevante e il reato sia stato commesso da soggetti in posizione apicale o da soggetti sottoposti all’altrui direzione quando, in questa ultima ipotesi, la commissione del reato sia stata determinata o agevolata da gravi carenze organizzative;
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- in caso di reiterazione degli illeciti26.
Lo stesso art. 13 prevede poi che le sanzioni interdittive hanno una durata non inferiore a tre mesi e non superiore a due anni e che le stesse non si applicano in caso di reato commesso nel prevalente interesse altrui (proprio o di terzi) e in caso di particolare tenuità del danno patrimoniale (che sono le stesse ipotesi previste dall’art. 12, comma 1, per la riduzione della sanzione pecuniaria).
Tali sanzioni non si applicano nemmeno nelle ipotesi previste dall’art. 17, cioè nel caso in cui abbia attuato una condotta riparatoria degli effetti negativi derivanti da reato, abbia eliminato per il futuro il rischio di realizzazione di un reato della stessa fattispecie, o abbia messo a disposizione per la confisca il profitto conseguito. Le tipologie di sanzioni interdittive sono elencate dall’art. 9, comma 2:
a) l’interdizione dall’esercizio dell’attività;
b) la sospensione o la revoca delle autorizzazioni, licenze o concessioni funzionali alla commissione dell’illecito;
c) il divieto di contrattare con la pubblica amministrazione, salvo che per ottenere le prestazioni di un pubblico servizio;
d) l’esclusione da agevolazioni, finanziamenti, contributi o sussidi e l’eventuale revoca di quelli già concessi;
e) il divieto di pubblicizzare beni o servizi.
L’interdizione dall’esercizio dell’attività è la più grave poiché causa la cessazione dell’attività economica nell’ambito della quale si è realizzato il fatto che ha costituito reato da cui discende la responsabilità amministrativa, determinando, inoltre, la sospensione ovvero la revoca delle autorizzazioni, licenze o concessioni funzionali allo svolgimento dell’attività stessa. Il legislatore ha espressamente disposto che l’interdizione dall’esercizio dell’attività si applica soltanto quando l’irrogazione di altre sanzioni interdittive risulta inadeguata.
26 Si ha reiterazione quando l’ente, già condannato in via definitiva almeno una volta per un
illecito dipendente da reato, ne commette un altro nei cinque anni successivi alla condanna definitiva (Art. 20 del d.lgs. 231/2001).
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La sanzione interdittiva in esame può essere disposta anche in via definitiva nei casi previsti dall’art. 16, cioè quando l’ente ha tratto dal reato un profitto di rilevante entità ed è già stato condannato per almeno tre volte negli ultimi sette anni all’interdizione temporanea dall’esercizio dell’attività, oppure quando l’ente o una sua unità organizzativa sono stati stabilmente utilizzati all’unico scopo di consentire o agevolare la commissione dei reati in relazione ai quali è prevista la responsabilità amministrativa.
La sospensione o revoca delle autorizzazioni, licenze o concessioni funzionali alla commissione dell’illecito consiste nel rimuovere l’atto amministrativo, di natura concessoria o autorizzativa, necessario per lo svolgimento di quella attività nel cui ambito è stato commesso il reato presupposto.
Il divieto di contrattare con la pubblica amministrazione comporta l’impossibilità per l’ente di stipulare contratti di appalto o di fornitura con la pubblica amministrazione. Tale sanzione condiziona fortemente l’attività dell’impresa; tuttavia, può essere limitata solo a determinati tipi di contratto o a determinate amministrazioni, nell’ambito strettamente necessario a consentire l’adeguatezza della sanzione rispetto alla tipologia di reato da cui discende la responsabilità amministrativa.
Tale sanzione interdittiva può essere applicata anche in via definitiva nel caso in cui l’ente sia già stato condannato alla medesima sanzione per almeno tre volte negli ultimi sette anni.
Con la sanzione interdittiva consistente nell’esclusione da agevolazioni, finanziamenti, contributi o sussidi ed eventuale revoca di quelli concessi, l’ente viene privato delle erogazioni pubbliche concedibili in futuro e di quelle eventualmente già ottenute.
La sanzione in esame può avere soltanto durata temporanea e non è suscettibile di applicazione in via definitiva.
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Infine, il divieto di pubblicizzare beni o servizi appare la meno afflittiva tra le sanzioni interdittive, poiché limita soltanto la promozione di questi ultimi; in realtà ciò può avere notevoli conseguenze sui profitti dell’impresa.
Tale sanzione può essere applicata anche in via definitiva qualora l’ente sia stato già condannato alla medesima sanzione per almeno tre volte negli ultimi sette anni. L’art. 14 del d.lgs. 231/2001 detta i criteri per la scelta delle sanzioni interdittive da applicare al caso specifico.
Innanzitutto, le sanzioni interdittive hanno ad oggetto la specifica attività alla quale si riferisce l’illecito dell’ente; questo significa che, qualora l’impresa dovesse essere articolata in diversi settori produttivi, il giudice dovrà scegliere la specifica attività nell’ambito della quale avrà effetto la sanzione, dato che quest’ultima ha la funzione di punire e prevenire illeciti dello stesso tipo.
Dopodiché, il giudice determina il tipo e la durata della sanzione sulla base di parametri quali la gravità del fatto, il grado di responsabilità dell’ente, l’attività svolta per eliminare o attenuare le conseguenze del fatto e per prevenire la commissione di ulteriori illeciti, nonché le condizioni economiche e patrimoniali dell’ente, allo scopo di applicare sanzioni efficaci e idonee a prevenire reati del tipo di quello commesso.
In sostituzione di qualsiasi misura interdittiva a cui consegua l’interruzione temporanea dell’attività dell’ente27 può essere disposto il commissariamento, cioè la prosecuzione dell’attività da parte di un commissario. In particolare, qualora l’applicazione di una sanzione interdittiva determini la sospensione dell’attività dell’ente condannato e ciò costituisca un notevole pregiudizio per la collettività, il legislatore ha previsto, all’art. 15, questa specifica soluzione che consente di punire comunque l’impresa ritenuta responsabile senza però ledere gli interessi pubblici e sociali.
Questo può avvenire in due casi, previsti dalla norma:
27 Non solo nel caso della sanzione rappresentata dall’interdizione dall’esercizio dell’attività, ma
anche, ad esempio, nel caso in cui venga applicata la sanzione che comporta la revoca o la sospensione delle autorizzazioni, licenze o concessioni che legittimano lo svolgimento dell’attività.
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- quando l’ente svolge un pubblico servizio o un servizio di pubblica utilità, la cui interruzione può provocare un grave pregiudizio alla collettività; - quando l’interruzione dell’attività dell’ente può provocare, date le sue
dimensioni e le condizioni economiche del territorio in cui è situato, rilevanti ripercussioni sull’occupazione.
Perciò, qualora sussistano le suddette condizioni, il giudice sarà tenuto a sostituire la sanzione interdittiva con il c.d. commissario giudiziale, al fine di consentire alla collettività di poter fruire dei servizi pubblici fondamentali o di evitare la crisi occupazionale del territorio su cui l’impresa opera.
Il commissario, tra i vari compiti, avrà quello di occuparsi dell’adozione e dell’efficace attuazione dei modelli di organizzazione, gestione e controllo idonei a prevenire reati della stessa specie di quello verificatosi. Inoltre, egli potrà compiere gli atti di ordinaria amministrazione; non potrà invece occuparsi della straordinaria amministrazione, a meno che non sia autorizzato dal giudice.
La natura comunque sanzionatoria del provvedimento sta nel fatto che il profitto derivante dalla prosecuzione dell’attività viene confiscato; l’ente, infatti, non deve trovarsi nella condizione di ricavare un profitto derivante dalla mancata interruzione di un’attività che, se non avesse avuto ad oggetto un pubblico servizio, sarebbe stata interdetta.
Pubblicazione della sentenza di condanna
Tra le sanzioni amministrative irrogabili in caso di responsabilità amministrativa dell’ente dipendente da reato, è prevista anche la pubblicazione della sentenza di condanna. Tale sanzione può essere disposta, ai sensi dell’art. 18 del d.lgs. 231/2001, solo nel caso in cui a carico dell’ente sia irrogata una sanzione interdittiva. La pubblicazione della sentenza ha la funzione di informare la collettività della condanna, creando un grave danno all’immagine dell’impresa; per questo il legislatore ha disposto che la suddetta sanzione sia applicata, discrezionalmente, solo nei casi più gravi.
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Confisca28
L’art. 19 del d.lgs. n. 231/2001 prevede che, in conseguenza dell’accertamento della responsabilità amministrativa a carico dell’ente, sia sempre applicabile la confisca del prezzo del reato o del profitto derivante dalla condotta criminosa, salvo che per la parte che può essere restituita al danneggiato.
Per prezzo si deve intendere il denaro o altra utilità economica data o promessa per indurre un soggetto alla commissione del reato, mentre per profitto si intende l’utilità economica immediata ricavata dal reato stesso.
Qualora ciò non sia possibile, è ammessa la confisca anche per equivalente che, anziché riguardare i beni direttamente ricavati dalla realizzazione del reato, ha ad oggetto beni di valore corrispondente, purché si trovino nella disponibilità del soggetto.
28Ai sensi dell’art. 240 c.p., la confisca consiste nell’espropriazione a favore dello Stato delle
“cose che servirono o furono destinate a commettere il reato e delle cose che ne sono il prodotto o il profitto”.
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CAPITOLO 2
IL MODELLO DI ORGANIZZAZIONE, GESTIONE E CONTROLLO EX D.LGS. 231/2001
2.1 Il modello di organizzazione, gestione e controllo ex. d.lgs. 231/2001 e il sistema di controllo interno
Riassumendo quanto indicato dal decreto, i presupposti alla base della responsabilità dell’ente sono:
- la commissione, da parte di soggetti funzionalmente legati all’ente (soggetti in posizione apicale o sottoposti), di uno dei reati contenuti nell’elenco tassativamente indicato dal legislatore;
- la realizzazione del reato nell’interesse o a vantaggio dell’ente;
- la mancata predisposizione o adeguatezza di un modello organizzativo idoneo alla prevenzione dei reati della stessa fattispecie di quello commesso o la sua inefficace attuazione.
Un ente è responsabile nel momento in cui una persona fisica, che riveste una certa posizione (apicale o subordinata) all’interno dello stesso, commette uno dei reati espressamente indicati nel d.lgs. n. 231/2001, nell’interesse o a vantaggio dell’ente stesso.
Il decreto prevede, agli artt. 6 e 7, la possibilità per la società di essere esonerata da tale responsabilità qualora abbia adottato ed efficacemente attuato un modello di organizzazione, gestione e controllo idoneo a prevenire i reati della specie di quello verificatosi.
Il modello organizzativo ex d.lgs. 231/2001 è un insieme di regole, procedure e modi di operare che definiscono il sistema di organizzazione, gestione e controllo interno all’azienda, volto ad impedire o a contrastare la commissione dei reati sanzionati dal decreto.
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Si va ad inserire nel più ampio sistema di controllo interno aziendale29, che può essere inteso come l’insieme delle regole, delle procedure e delle strutture organizzative volte a consentire, attraverso un adeguato processo di identificazione, misurazione, gestione e monitoraggio dei principali rischi, una conduzione dell’impresa sana, corretta e coerente con gli obiettivi prefissati.30 Una delle definizioni più diffuse di sistema di controllo interno è quella proposta nell’ambito del progetto «Corporate Governance per l’Italia» (PCGI)31, la quale identifica il controllo interno in «un processo, svolto dal Consiglio di Amministrazione, dai dirigenti e da altri operatori della struttura aziendale, che si prefigge di fornire una ragionevole sicurezza sul raggiungimento degli obiettivi rientranti nelle seguenti categorie:
l’efficacia e l’efficienza delle attività operative; l’attendibilità delle informazioni di bilancio;
la conformità alle leggi ed ai regolamenti in vigore».
A partire dagli obiettivi sopra enunciati possiamo identificare tre componenti fondamentali del sistema di controllo interno:
1) il controllo gestionale, volto a favorire l’economicità della gestione, intesa come il rafforzamento delle condizioni su cui si basa la redditività di breve e di medio/lungo periodo dell’azienda
2) il controllo amministrativo-contabile, riferito all’obiettivo di efficacia ed efficienza delle informazioni destinate a soggetti interni o esterni alla combinazione produttiva;
29 Per approfondimenti sul tema del sistema di controllo interno si veda: Marchi L., Revisione
aziendale e sistemi di controllo interno, Giuffrè Editore, 2012 e D’Onza G., Il sistema di controllo interno nella prospettiva del risk management, Giuffrè Editore, 2008.
30 Comitato per la Corporate Governance, Codice di Autodisciplina, luglio 2015
31 Il Progetto Corporate Governance per l’Italia, iniziato nel 1997, ha come oggetto la traduzione
e applicazione al contesto italiano del framework statunitense definito dal Committee of Sponsoring Organisation (CoSO Report). Il Progetto intende sviluppare uno studio approfondito e completo che fornisca i lineamenti di un sistema di governo delle società e, in generale, delle aziende italiane che aspiri a connotarsi come il sistema di direzione e controllo più valido nel contesto nazionale. Si veda Coopers&Lybrand, Il sistema di controllo interno. Un modello integrato di riferimento per il governo dell’azienda, il Sole 24 Ore, 1997.
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3) il controllo di conformità, il cui scopo è quello di favorire il rispetto delle norme e dei regolamenti che disciplinano l’attività aziendale.
A queste tre componenti principali si affiancano poi due meccanismi di “rinforzo”, il controllo organizzativo e il controllo relazionale; il primo ha come scopo quello di orientare tutti i membri dell’organizzazione verso il conseguimento degli obiettivi aziendali, il secondo risponde all’esigenza di gestire efficacemente le relazioni con i partner con cui l’azienda intrattiene rapporti cooperativi e collaborativi.
Il controllo di conformità è la componente del controllo interno che è volta a favorire il rispetto delle norme, dei regolamenti e delle altre disposizioni normative che disciplinano l’attività aziendale.
Il rispetto delle norme è un obiettivo fondamentale ed imprescindibile per salvaguardare il processo di creazione di valore evitando sanzioni e danni reputazionali che talvolta potrebbero essere davvero pesanti per l’azienda.
Questo particolare obiettivo si inserisce nel più ampio contesto della responsabilità sociale di impresa e costituisce un passaggio inevitabile per instaurare relazioni fiduciarie con i vari stakeholder ed alimentare il grado di consenso di cui l’azienda necessita per raggiungere il suo fine istituzionale.
Il tema del controllo di conformità ha assunto ormai da diversi anni una maggior rilevanza, anche in conseguenza alla volontà del legislatore, sia comunitario che nazionale, di sottolineare l’importanza dei controlli interni nell’ottica di prevenire il compimento di atti illegali da parte dei soggetti che operano in azienda.
Si muove in questa direzione, appunto, il d.lgs. 231/2001, la cui ratio è quella di prevenire i comportamenti illeciti attraverso meccanismi di autocontrollo da parte dell’impresa.
E proprio tale norma prevede che, affinché sia raggiunto l’obiettivo di compliance