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Saggio 1. Nell’angolo nord-ovest della trincea, all’interno del Saggio 1, è stato

6. L’Età del Bronzo in Italia settentrionale

6.1. Il sito di Castellaro Lagusello (MN)

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L’abitato perilacustre protostorico di Castellaro Lagusello (MN) è ubicato sulle rive sud-occidentali dell’omonimo laghetto, otto chilometri a sud del Lago di Garda (posto a 65 metri s.l.m.), alla destra del corso del fiume Mincio. La morfologia dell’area dell’insediamento è pianeggiante, l’altitudine media è di circa 100 metri s.l.m. e presenta una leggera inclinazione in direzione del lago, con un dislivello altimetrico di circa un metro.

Il laghetto di Castellaro è ospitato in una conca dell’apparato morenico frontale del Lago di Garda che, a sud del lago stesso, copre una fascia di una quindicina di chilometri. Le colline si presentano per lo più isolate, separate dall’azione livellante degli agenti atmosferici e dall’uomo, tanto che non è più così immediato, neppure da posizioni sopraelevate, cogliere la tipica configurazione a semicerchi concentrici. I rilievi morenici circostanti raggiungono quote variabili, tra i 90 e i 158 metri s.l.m., raggiunti dal Monte Tondo (limite meridionale del bacino imbrifero); nel complesso la morfologia del territorio è molto dolce. Il laghetto, originatosi nel tardo Pleistocene (circa 13.000 BP), ha il fondo posto a 97 metri s.l.m. e la superficie a 102 metri s.l.m., con una profondità massima che si aggira intorno ai cinque metri ed è molto simile ad altri laghetti o bacini lacustro-palustri presenti nel vasto anfiteatro morenico del Lago di Garda. I laghi intermorenici sono generalmente poco profondi, presentano un’accentuata tendenza evolutiva di interramento, trasformandosi gradatamente in stagni, paludi e torbiere, di cui è ricco l’intero anfiteatro benacense.

L’analisi morfologica e morfometrica evidenzia come in tempi passati il bacino lacustre di Castellaro dovesse essere ben più vasto e profondo. La riduzione, di origine antropica e risalente alla fine del secolo scorso, è dovuta all’abbassamento per incisione della soglia, oggi artificiale e stabile, dell’emissario; tutto ciò ha contribuito all’interramento parziale del lago stesso. Il bacino mostra la tipica impermeabilizzazione della sezione più profonda della conca che permette di trattenere una massa d’acqua il cui livello viene determinato dalla sezione superiore che rimane più filtrante. Attualmente lo specchio d’acqua ha una superficie media di 100.000 metri quadrati, con una volumetria di 370.000 metri cubi di acqua.

Le morene dell’area benacense rappresentano uno dei maggiori apparati di età rissiana d’Italia. Si tratta di un complesso composto da distinti sistemi di colline poste ad anfiteatro, formate da depositi sciolti e incoerenti, litologicamente costituiti da massi, ciottoli e ghiaia di tipo calcareo e porfirico, con predominanza di elementi carbonatici, subordinatamente misti a

sabbie, limi e argille. I depositi presenti alla base delle colline moreniche sono invece costituiti dal materiale proveniente dal primo smantellamento delle colline stesse, operato dai corsi d’acqua fluvioglaciali e dal dilavamento originato dalle acque meteoriche.

Il primo saggio esplorativo fu effettuato nel 1977150 dalla Soprintendenza

Archeologica della Lombardia, coadiuvata dal Gruppo Archeologico locale e riguardò la zona costiera sud-orientale del laghetto, in corrispondenza del margine settentrionale di un basso dosso che si elevava circa un metro sul piano di campagna e si estendeva verso sud per un altro centinaio. Sull’area del dosso erano state rilevate le maggiori concentrazioni di materiali superficiali e di elementi che lasciavano supporre l’esistenza di strutture capannicole. Il saggio venne praticato sul margine settentrionale del deposito, punto maggiormente danneggiato dai lavori agricoli, ma la superficie scavata fu esigua: 16 metri quadrati, una trincea di metri 4 x 4. Lo scavo fu preceduto da un’accurata indagine geomorfologica eseguita sull’intera conca lacustre.

I reperti provenienti dalla paleosuperficie non sono abbondanti, ma abbastanza rappresentati sono gli elementi tipologici caratteristici per l’inquadramento degli orizzonti. Comprendono: materiale fittile (nel complesso assai frammentario), frammenti ossei e resti di fauna ittica, manufatti in bronzo e in legno, testimonianze di industria litica, oggetti d’ornamento, resti vegetali. Lo studio dei materiali porta a considerare l’esistenza di un insediamento le cui testimonianze più recenti sono attribuibili al Bronzo finale, facies Peschiera avanzato (Hallstatt AI nella cronologia europea), conclusione di un ciclo residenziale le cui origini sono da collegarsi al Bronzo medio.

Dal 1995 al 2003 si sono susseguite ricerche sistematiche nella zona sud-occidentale del laghetto, dirette dal Prof. Leone Fasani, allora docente di Paleontologia Umana all’Università di Milano, in collaborazione con il Gruppo Archeologico locale. Il saggio stratigrafico del primo anno di scavi si estendeva su di un’area di settantacinque metri quadrati complessivi, suddivisi in tre settori di scavo di venticinque metri quadrati l’uno, alternati a due spazi di uguale estensione. Nel 1997 le indagini hanno riguardato i primi due settori, come anche la campionatura del sedimento per l’indagine paletnobotanica, mentre l’analisi paleocarpologica oggetto di questa tesi si è concentrata unicamente sul settore 1. L’intera superficie, peraltro interessata dai lavori agricoli, mostra evidenze archeologiche affioranti. In fase di scavo sono emerse abbondanti testimonianze, ancora in corso di studio, riferibili, ad un primo esame, ad un abitato palafitticolo perilacustre databile alla media e recente Età del Bronzo.

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L’analisi dei macroresti di Castellaro fornisce innanzitutto la ricostruzione paesaggistica del territorio insediativo, nonostante ne rifletta un’immagine parziale per i limiti metodologici già espressi, ma in particolare per effetto degli interventi antropici in un’area abitativa in cui le evidenze archeologiche documentano una presenza umana consistente. Del resto un forte incremento demografico, con conseguente proliferazione dei villaggi palafitticoli, è costante e ben documentato a partire dal 3050 a.C. nei laghi del massiccio francese del Giura e della Svizzera.

La scarsa rilevanza di resti di alberi in relazione a quelli delle piante erbacee ed arbustive identifica un ambiente pedecollinare aperto, prativo e arbustivo, ai limiti del bosco a caducifoglie. Sono infatti molto diffuse le specie appartenenti alle famiglie Polygonaceae, Chenopodiaceae, Ranunculaceae, Solanaceae e Labiatae. Naturalmente, all’interno di ogni famiglia prevalgono le varietà di ambiente umido, data la vicinanza ad uno specchio d’acqua. In particolare, l’associazione Polygonum/Chenopodium, presente in quasi tutti i quadrati esaminati, è tipica dei terreni umidi sabbiosi, ghiaiosi o limosi, ricchi di sostanze organiche e azotate. Sono inoltre presenti frutti, semi ed altre parti vegetative di giunchi, carici e castagne d’acqua che colonizzano diffusamente i bordi e le acque più basse e lente di laghi e stagni.

Molto diffuse sono le piante arbustive di margine boschivo come sambuco, nocciolo, corniolo, pruno e rovo. La presenza di alberi è testimoniata da pochi ritrovamenti di ghiande, da un unico seme di ontano e da semi di fico. Non lontano dall’abitato doveva essere diffuso il bosco, non sarebbe altrimenti giustificabile l’installazione di un abitato a prevalente struttura lignea, sulle sponde del lago di Castellaro, se non fosse esistita anche una comoda e congrua fonte di approvvigionamento dei tronchi di quercia con cui la palafitta è stata edificata. Le analisi polliniche infatti rilevano la presenza del Querceto misto, con dominanza della quercia. Con l’inizio del Subboreale si rileva come l’ambiente sia praticamente già molto simile a quello attuale, con una distribuzione delle associazioni vegetali del tutto analoga, sia in senso latitudinale che altitudinale.

Sotto il profilo climatico, l’ambiente era ben temperato, sicuramente mitigato dalla vicinanza del Lago di Garda, ma anche sede di quel particolare tipo di microclima che accomuna la maggior parte delle zone umide, in cui si insediano volentieri piante marcatamente termofile quali il fico (Ficus carica L.), piuttosto abbondante nei quadrati esaminati, e l’alkekengi (Physalis alkekengi L.), nonché arbusti eliofili come noccioli e cornioli. Ma è l’aspetto relativo all’economia di sussistenza quello che la ricerca in oggetto evidenzia in modo più significativo, in particolare il rapporto sussistente fra pratiche agricole e raccolta dei vegetali spontanei. È possibile ipotizzare un certo equilibrio nel ricorso ad

entrambe le risorse, come documentano anche i macroresti vegetali relativi ai numerosi abitati perilacustri dell’Età del Bronzo del Lago di Costanza; a differenza delle sequenze neolitiche dei laghi di Chalain e Clairvaux in cui emerge che l’attingere a fonti di sussistenza alternative all’agricoltura e all’allevamento, cioè raccolta e caccia, definisca un impulso demografico sottolineato sia dall’incremento del numero di capanne sia da innovazioni in seno alla cultura materiale.

A Castellaro l’agricoltura è suffragata dalla presenza di alcuni cereali e di numerose furcule, nonché da dati prettamente archeologici quali il ritrovamento di resti di falcetti. A tale proposito è importante rilevare la presenza di Brassica napus var. oleifera Del. che è una specie presente solo allo stato ibrido ed è quindi indice certo di coltivazione. D’altro canto, l’ambiente circostante offriva numerose risorse alimentari che erano certamente sfruttate dall'uomo. I gruppi di piante erbacee che caratterizzano gli ambienti prativi umidi e quelli ruderali forniscono ancora oggi una fonte di sussistenza alternativa e complementare piuttosto varia. Basti pensare allo spinacio selvatico, al cavolo, alla veccia, al romice, all’alchechengi e al papavero.

Da notare l’assenza quasi totale delle pomoidee (sezione della famiglia botanica

Rosaceae) di primaria importanza sia per l’alimentazione che per il legname, assenza che non

si può attribuire né a problemi conservativi e tantomeno a difetti di campionamento. Da Castellaro proviene un solo seme di Prunus e un unico esemplare di Sorbus.

Dal contesto dei resti carpologici, sia appartenenti alle piante legnose che erbacee, emerge anche l’utilizzo non prettamente alimentare delle fonti vegetali. Svariate specie presenti nell’area insediativa sono state sfruttate nell’antichità a scopo medicinale e tintorio. Effetti curativi sono riconosciuti al sambuco, alla saponaria, a quasi tutte le poligonacee, all’altea, al trifoglio, al papavero, al rovo, all’aneto e alla viola. Coloranti di varia tonalità deriverebbero invece dal caglio palustre, dai petali del papavero, dall’ebbio.