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Non solo Domenico Rossetti

Nel documento UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI TRIESTE (pagine 152-200)

Parte II Quadri poetici

3. La Società di Minerva 1810-1816

3.2 Non solo Domenico Rossetti

Figura centrale per la nascita e lo sviluppo della Minerva fu senz’altro Domenico Rossetti, alla cui attività letteraria e al cui pensiero politico molti e approfonditi studi sono già stati dedicati. Rossetti è stato indagato nei suoi molteplici aspetti di formidabile organizzatore culturale e impegnato cittadino della Trieste post-napoleonica. Il pensiero dell’avvocato triestino, strenuo difensore degli antichi privilegi e dell’autonomia della città, è stato per lungo tempo letto come un irredentismo ante tempore358. Oggi questo mito è stato definitivamente superato359 e l’opera e l’ideologia di Rossetti sono state più correttamente ricollocate nell’alveo dell’autonomismo della Trieste asburgica. Come ha sottolineato Giorgio Negrelli, infatti, nonostante i costanti riferimenti all’italianità e alle origini romane, Rossetti immaginava Trieste come una «città-stato», o meglio come una «libera città imperiale» avente uno statuto giuridico tedesco e si batté non perché Trieste entrasse a far parte di un’ipotetica nazione italiana, ma perché riacquisisse gli antichi privilegi pre-napoleonici360.

357

Girolamo Agapito Compiuta e distesa descrizione della fedelissima città e porto-franco di Trieste, Vienna, A. Strauss, 1824, pp. 86-87.

358

Ancora nel 1944, nell’edizione degli Scritti inediti (Udine, Idea, I, p. 276) La Veglia è erroneamente interpretata coma «un eloquente programma di difesa civica contro l’oppressore francese e indirettamente contro il futuro occupatore austriaco». Fabio Cossutta ha invece giustamente sottolineato il carattere solamente antifrancese del testo (COSSUTTA 1989, p. 9), precisando che si tratta di «liriche inneggianti alla libertà d’Italia contro la tirannide francese, liriche che in realtà non sono composizioni autonoma e originali ma sono tratte dal

Canzoniere petrarchesco, con qualche verso modificato per adattarlo alla presente situazione». Su La Veglia v.

anche GENTILLI-BACCIGA 1931, pp. 233-237, che mette in luce l’ascendenza dantesco-montiana dell’opera, evidente soprattutto nella prefazione in terzine, strutturata, come già la Bassvilliana, a mo’ di visione e contenente il resoconto di un viaggio nel regno dei morti sotto la guida della Verità.

359

TRAMPUS 1992, p. 37.

360

NEGRELLI 1978, pp. 64-66; COSSUTTA 1989, p. 15: «La dominazione austriaca, di cui egli riconosce, fra l’altro, la piena validità e l’alto valore. […] Rossetti pronto a infiammarsi contro gli invasori francesi, e pronto altresì a infiammarsi nel 1814 a favore del ritorno del dominio austriaco». Rossetti, d’altra parte, considerava l’Impero asburgico erede dell’Impero romano, era perciò naturale che Trieste, città romana, fosse sottomessa all’unica autorità universale erede di Roma, v. Domenico Rossetti, Meditazione storico-analitica sulle franchigie

della città e porto-franco di Trieste dall'anno 949 fino all'anno 1814, Venezia, Picotti, 1815, pp. 103-104. Tale

linea di pensiero si rifaceva all’Historia antica, e moderna, sacra e profana, della città di Trieste, celebre colonia

de' cittadini romani del RPF. Ireneo della Croce carmelitano scalzo, di lei cittadino, Venezia, Girolamo Albrizzi,

1698. Le idee di Rossetti riguardo alla rimessa in vigore degli statuti patrizi pre-napoleonici trovarono anche una forte opposizione interna, incarnata soprattutto da Baraux, che espose il suo pensiero nelle inedite Alcune

rimarche sopra le meditazioni storico analitiche sulle franchigie della città e porto franco di Trieste del Dottore Domenico Rossetti nobile de Scander (BCTs RP Ms MISC 87/XVII), per cui v. TRAMPUS 20081, p. 88.

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Per il patrizio triestino l’Italia era «solo un’entità geografica e culturale alla quale manca del tutto l’elemento politico: è ancora, tutt’al più quella a cui Petrarca dedicava la sua “canzone”. La “patria” […] è invece Trieste, la sua città, cosmo morale e politico organicamente unitario»361. La passione per la produzione di Petrarca, in particolare per quella latina, va dunque letta, come ha notato Antonio Trampus, come «una volontà di inserirsi sì nella tradizione letteraria italiana, ma certo anche in quella umanistica che si espandeva all’Europa tutta»362

.

Pertanto anche l’azione culturale e l’opera letteraria di Rossetti sono state rilette alla luce di queste posizioni, in particolare da Fabio Cossutta, che ha indagato il petrarchismo rossettiano nei suoi molteplici aspetti. La ‘scoperta’ di Petrarca viene così significativamente fatta risalire agli anni della terza e mal sopportata occupazione francese. La raccolta dei testi petrarcheschi iniziò come biblioteca «civile», per divenire solo in un secondo momento «strumento di studio e ricerca»363. In generale, Cossutta ha rilevato come la raccolta dei codici non sia stata fatta «per mera passione e sfizio personale, ma per motivazioni superiori, che andavano in direzione di un utile comune, un interesse al progresso culturale e letterario di una cittadinanza – quella triestina – che fino ad allora poco o nulla aveva a disposizione di fonti e materiale bibliografico per fissare, e magari elevare, il proprio livello di cultura e di civiltà»364. Rossetti stesso nel 1834 aveva rimarcato l’utilità della sua bibliomania: «Ambedue queste mie collezioni non si fanno già per mera ed oziosa bibliofilia, che facilmente potrebbe da taluno bibliomania o peggio appellarsi: ma hanno entrambe una letteraria ed utile tendenza»365.

Petrarca era un modello di stile destinato a influenzare la produzione dello stesso Rossetti - come nel caso esplicito de La Veglia - ma anche e soprattutto «modello esemplare di virtù patrie e cittadine»366. Maestro dunque di amor patrio, a cui guardare per porre le basi di una

361

NEGRELLI 1978, p. 66.

362

TRAMPUS 1992, p. 39. Su questo punto v. anche DIONISOTTI 1987, pp. 1-2.

363

ZAMPONI 1984, p. 13.

364

COSSUTTA 1989, p. 5.

365

Domenico Rossetti, Catalogo della raccolta che per la bibliografia del Petrarca e di Pio II è già posseduta e si

va continuando dall’avvocato de’ Rossetti di Trieste, Trieste, Nella tipografia di Giovanni Marenigh, 1834, pp.

viii-ix. Sull’importanza del principio di ‘utilità’ nell’azione e nel pensiero di Rossetti, v. anche RUGLIANO 2001, p. 42: «Il pensiero di Rossetti, dunque, trova sempre sbocco in un’azione concreta: studia storia per rifare gli statuti, la letteratura per le occasioni ufficiali, l’economia per rafforzare le franchigie del porto, il giardinaggio per coltivare il suo giardino e metterlo a disposizione dei cittadini, la bibliologia per raccogliere e ordinare la sua biblioteca, Petrarca e Piccolomini per ancorare alla cultura umanistica la nuova cultura cittadina».

366

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rinnovata etica cittadina367. Nella passione per la lingua, la cultura e la tradizione italiane, incarnate nella sua forma più alta dal poeta del Canzoniere, risiede, perciò, l’unica vera italianità di Rossetti. Un’italianità culturale che per Rossetti era anche il carattere distintivo di Trieste. Egli, infatti, rispondendo nel 1818 a Giuseppe Kreil che aveva tacciato Trieste di essere un crogiuolo indistinguibile di popoli e quindi una città senza identità, affermò che «l’originario stipite principale de’ Triestini egualmente che quello dei forastieri che vi si domiciliarono, è l’italiano»368

. Da sottolineare, tuttavia, che nel medesimo testo Rossetti si lascia andare ad «un’appassionata esaltazione dell’imperatore Francesco I, con accese parole frementi di devozione»369: ennesima dimostrazione della particolare connotazione del patriottismo triestino in generale e rossettiano in particolare, che si tratta di una singolare commistione tra specificità cittadina e totale fedeltà all’Impero austriaco. La scelta di Petrarca s’inserisce in un clima culturale ancora fortemente segnato dall’esperienza arcadica, in cui la preminenza assoluta come poeta (anche civile) ancora non toccava a Dante, visto come un momento intermedio tra l’antica perfezione virgiliana e quella nuova petrarchesca. Tuttavia il Petrarca di Rossetti è qualcosa di nuovo, non è solo quello delle accademie e dei petrarchisti, come ha ben messo in luce Fabio Cossutta: «la novità di Rossetti sta nell’aver visto in Petrarca il poeta delle civiche virtù, mentre prima Petrarca era stato soprattutto maestro di cultura e di stile, di poesia e di letteratura»370.

Dell’ampia produzione rossettiana saranno considerati soprattutto i lavori composti sotto l’egida di Minerva, molti dei quali rimasero inediti in vita per volontà dell’autore stesso. La musa di Rossetti fu, peraltro, precoce, se si pensa che egli stesso in una lettera dell’11 maggio 1796 dichiarò di aver preso la «mania di verseggiare» da un anno e mezzo371. Già dai primi testi si intravedono la fede civile e il magistero petrarchesco. Significativo in questo senso è il sonetto All’Italia, risalente con tutta probabilità al 1796, nel quale il giovane poeta esprime tutta la sua disperazione per l’arrivo delle truppe francesi in Italia:

Italia, Italia, dunque eterno giro / di lutto e stragi in barbare vicende / un spietato destin sempre ti rende / vittima di furore, o di deliro? / Armato stuolo furibondo e diro / fino al molle tuo sen già brando stende, / ma, se Fortuna ai danni tuoi s’intende, / perché fin le difese poni in bando? / Forse fia ancor, che il tuo

367

CUSIN 1931, p. 30: «Il Rossetti non vive di astrazione, ma è uno spirito concreto che mantiene sempre vivo il senso della realtà. Nel Petrarca non cerca dunque il valorizzatore della vita comunale, ma soltanto dei valori etici da porre a base di tale vita».

368

Domenico Rossetti, Alla Mnemosime del Sig. Giuseppe Kreil, poscritta di un Triestino, recata dall’Originale

tedesco in lingua italiana da Girolamo conte Agapito, Trieste, G. Weis, 1818, p. 27. 369

COSSUTTA 1989, p. 26.

370

Ibidem, p. 182.

371

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splendor si veda / rinnovellarsi in fra gli antichi allori, / e ch’indi calma alfin teco si rieda! / Forse! – Ma, Italia mia, calma e splendori / lunge andranno, finché fiera ti sieda / quell’Idra in sen che tu nutri e adori!

Toni simili si possono trovare anche in un frammento in endecasillabi, risalente sempre al 1796, vero e proprio invito a scrivere versi civili sul modello petrarchesco:

Prendi la cetra, e va con essa altero, / non per le selve e pe’ romiti campi, / ove molle silenzioso al fianco posa / di tenera tristezza; ma nell’ampie / popolose città, nelle superbe / regge, o ne’ campi di Nettuno e Marte. / O l’alma infiamma degli eroi pugnaci / contro l’oste proterva, che gl’insulti / alle minacce e alle rapine aggiunge. / O là d’Arquato in sulla tomba, ardito / tenta piuttosto di far sì, che n’oda / l’alto fragor l’Italia tua, che geme / in reo letargo, a se medesma ignota, / immemore degli avi e dell’eccelse / virtù, per cui servil l’orbe già tenne. / Così mentre farai che’l santo alloro / per te in Pindo verdeggi, il molle mirto / sperperarsi vedrai della tua gloria.

Caratteri, questi, che ritornano anche in un’opera più matura e meditata come La Veglia. L’impegno politico sembra comunque essere un fil rouge che unisce tutta la produzione in versi rossettiana, comprendendo poesie antifrancesi come I Napoleonidi o Il Vaticinio, la tragedia Coriolano e l’azione drammatica Il sogno di Corvo, un’opera scritta durante la dominazione francese, nella quale si rievoca il momento in cui la Trieste medioevale decise di dedicarsi all’Impero austriaco, nella speranza che tale dedizione potesse presto rinnovarsi372

.

Nell’economia del presente lavoro pertanto la produzione di Rossetti poeta occupa certamente una posizione rilevante, tuttavia, sulla scorta degli studi di Elvio Guagnini, mi propongo, entrando nel vivo dei testi, di recuperare anche il contributo poetico e culturale di altri soci della prima Minerva quali Giuseppe de Lugnani, Joel Kohen, Girolamo Agapito, Lorenzo Miniussi e il controverso padre Giovanni Rado da Ascoli. Intendo, inoltre, mettere in luce il profondo legame esistente tra Società di Minerva e Arcadia Romano-Sonziaca per quanto riguarda la poesia, sia negli aspetti di continuità, sia in quelli di discontinuità.

Giuseppe de Lugnani, scienziato e letterato nativo di Capodistria, fu docente di matematica e poi direttore dell’Accademia di commercio e nautica di Trieste373

. A lui fu affidato il discorso di apertura del Liceo italiano inaugurato sotto l’egida degli occupanti

372

I Napoleonidi, Il Vaticinio e Il Coriolano rimasero inediti. Il sogno di Corvo fu invece dato alle stampe nel

1814 nell’ambito delle celebrazioni per il ritorno sotto il dominio asburgico: Domenico Rossetti, Il sogno di

Corvo. Azione drammatica per la festa teatrale destinata a celebrare il ritorno di Trieste al felice dominio di sua Maestà l'Augusto imperatore d'Austria Francesco I rappresentata nel teatro di Trieste nel dì 12 febbrajo del 1814, Trieste, Dalla Imp. Reg. privilegiata Tipografia governiale, 1814. Su quest’opera e la sua rappresentazione

v. COSSUTTA 1989, pp. 52-70; GENTILE 1942, pp. 124-144.

373

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francesi. In quest’occasione il giovanissimo professore esaltò la funzione sociale, civile e morale della matematica, vista come forza creatrice d’ordine e armonia, nonché strumento dell’Eterno Geometra della Natura. Non mancò inoltre di lodare Napoleone, elogiandolo, secondo un topos diffuso, per le sue poliedriche abilità di guerriero e governante: «l’Eroe che sa del pari fra le polveri marziali del campo ad ogni costo affermar la vittoria e fra i politici sistemi del gabinetto, scegliere ad avvalorare i migliori […] che rappresenta in queste provincie il benefico Genio dell’Europa». Le posizioni espresse da Lugnani richiamano la visione di un altro più celebre matematico, Lorenzo Mascheroni, che nei già citati versi apposti a proemio del suo trattato maggiore, La geometria del compasso, volle celebrare Bonaparte e la sua azione armonizzatrice. Lugnani, poi, proprio come il suo più noto modello, fu anche cultore delle Muse: ritenendo, sulla scorta di Antonio Canova, che l’arte rappresentasse il perfezionamento, l’ingentilimento, insomma il miglioramento della natura, fu «poligrafo infaticabile in prosa o in verso»374, tradusse i classici, compose tragedie e improvvisò poesie celebrative e non solo. D’idee politiche mutevoli, come tanti in quei tempi travagliati, viene ricordato ora come massone e filofrancese375, ora come «celebratore ingenuo di ogni fasto austriaco»376.

Joel Kohen nacque a Trieste da una famiglia di commercianti ebrei, compì gli studi di medicina a Vienna e in seguito soggiornò per lunghi periodi a Venezia, Firenze e in Lombardia, dedicandosi allo studio dei classici latini e greci e in particolare a quello delle storie di Polibio, che tradusse e pubblicò negli anni Venti dell’Ottocento377. L’opera rimase incompleta, ma rappresentò tuttavia un momento importante degli studi filologici sullo storico greco, essendo una versione diretta del testo greco condotta senza l’ausilio di intermediari latini378. Nel primo volume, edito nel 1824, Kohen espresse i cardini del suo metodo, consistente in uno strenuo rispetto per il testo originale greco, e la novità del suo lavoro, che a differenza di molte opere precedenti nel commento non si concentra su questioni di arte militare:

374

ZILIOTTO 1924, p. 72.

375

TAMARO 1927, p. 104. L’appartenenza di Giuseppe de Lugnani alla massoneria è fatto certo, suffragato, tra l’altro, anche dalla stretta amicizia con Baraux, per cui v. TRAMPUS 1989, p. 201.

376

ZILIOTTO 1924, p. 73. Attilio Hortis lo ricordò, in modo poco lusinghiero, come «panegirista di monarchi: Napoleone e Francesco I, di governatori: del Marmont e del Principe di Porcia, antiliberalista e nemico dei tiranni».

377

Per un profilo di Joel Kohen, v. GUAGNINI 19904, pp. 300-302; GUAGNINI 2002, p. 977; ZILIOTTO 1924, p. 72.

378

Le Storie di Polibio da Megalopoli volgarizzate sul testo greco dello Schweighauser e corredate di note dal

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Non dissimulerò pertanto, che, quantunque io creda essenziale ad ogni buon volgarizzamento una ragionevole libertà nell’espressione e nella scelta delle frasi, non picciol vanto è tuttavia, sennonché io stimo, il conservar all’autore, che prendesi a recar in una lingua moderna, il natio suo colore, e i lineamenti suoi proprii. Il perché io ho seguito introducendo, il più che per me si è potuto, lo spirito del testo, e perfino la proprietà della dicitura greca, ove l’indole della favella italiana il concedette. […] Nell’ordine delle materie e nella correzione del testo attenuto mi sono allo Schweighauser, ultimo e più benemerito editore di Polibio, senza la fatica del quale il volgarizzamento mio non esisterebbe, siccome egli stesso non dubitò di confessare, che senza l’interpretazione del Casabuono il lavoro suo non sarebbe nato. Le annotazioni da me aggiunte sono: 1 Illustrative de’ luoghi meno chiari: 2 Storico-critiche e tendenti a vie più far spiccare i pregi dell’autore rispetto agli altri antichi che nella istessa messe posero le mani: 3 Grammaticali, ove l’intelligenza più precisa del testo mi è sembrato di renderle necessarie. Poco mi sono intrattenuto nelle imprese e negli artificii di guerra, come quelli che da’ miei studi alienissimi furono già da traduttori nella milizia dotti egregiamente discussi e rischiarati.

In maturità si convertì al cattolicesimo e assunse il nome di Giambattista, scelta che giustificò pubblicamente in un pamphlet dato alle stampe nel 1831379. Della sua attività minervale si ricorda soprattutto l’elegante panegirico latino dato alle stampe per la venuta in Trieste dell’imperatore Francesco I.

Lorenzo Miniussi, sodale di Rossetti fin dagli anni universitari viennesi, si laureò in giurisprudenza nel 1802 e compì una soddisfacente carriera di funzionario pubblico, arrivando a ricoprire nel 1831 il prestigioso incarico di preside del Magistrato380. Di ampi interessi letterari, manifestò la volontà di stendere una storia letteraria di Trieste, in un discorso minervale del 1812, un testo da leggersi nel quadro del pensiero e dell’azione di Domenico Rossetti, ma anche, come ha giustamente notato Antonio Trampus, in relazione alla prolusione pavese di Ugo Foscolo del 1809381. Nel suo discorso Miniussi metteva in luce l’importanza che Trieste aveva ormai acquistato, a cui però corrispondeva una totale mancanza di degne descrizioni della città e della sua cultura, una lacuna che Miniussi stesso si proponeva appunto di colmare:

Trieste è ormai una città d’importanza, e se cent’anni sono ella era sconosciuta a gran parte dell’Europa, ormai è dessa nominata anche nell’America. Non è da

379

La conversione dall’ebraismo alla fede cattolica di Giambattista Kohen dottore in medicina, Venezia, Dal libraio al ponte di San Moisé, Tipografia di Alvisopoli, 1831.

380

Sulla figura di Miniussi vedi TRAMPUS 1992, p. 40, che ricorda come durante gli anni viennesi Rossetti, con Miniussi e altri compagni tedeschi, avesse costituito una Gessellschaft der Freunde di «larvata similitudine massonica», v. anche RUGLIANO 2001, p. 40, che precisa come il circolo fondato da Rossetti e Miniussi fosse rimasto in attività dal 1791 al 1796; PAGNINI 1944, pp. 40-42, che sottolinea come seppur nutrito in gioventù con la filosofia di Voltaire e Rousseau, «chiuse la vita da buon cattolico».

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meravigliarsi perciò, se lo straniero vi arriva con un’idea grande della medesima. Pur troppo però, non trovando egli come soddisfare la curiosità sua, ci conviene leggere tanto frequentemente delle descrizioni poco onorifiche della patria nostra nei viaggi, che di tratto in tratto sortono colle stampe alla luce. […] Queste signori miei ornatissimi, sono le opere principali che riguardano Trieste e che mi constano, ed esse ci lasciano certamente un vasto campo di materie patrie da trattarsi ancora. Una di queste materie sarebbe la storia letteraria di Trieste e qui mi sento già dir taluno: Che cosa produsse Trieste sinora nelle scienze o belle arti, che meriti d’essere annoverato nella storia letteraria? Mi sia permesso però con pace di quest’opponente, di osservare, che appunto il poco conto che facciamo di noi stessi ci fa scomparire di più di quello che lo merita la patria nostra382.

Miniussi fu inoltre prolifico poeta, componendo soprattutto testi di sapore comico in dialetto triestino383, molti dei quali furono scritti e recitati nell’ambito della Società di Minerva.

Girolamo Agapito nacque a Pinguente da famiglia nobile (la madre apparteneva alla illustre casa istriana dei Gravisi) e appena quindicenne fu aggregato all’Accademia dei Risorti di Capodistria, dove si segnalò ben presto tra i membri poeticamente più attivi384. Divenne poi anche membro dell’Arcadia Romano-Sonziaca. Tali precoci affiliazioni non devono stupire: appena tredicenne, infatti, aveva pubblicato il suo primo sonetto - di tema antifrancese - sulle colonne dell’«Osservatore triestino». Raggiunta la maturità, entrò nell’Amministrazione austriaca dell’Istria ex-veneta come segretario alle dipendenze del barone Francesco Maria Carnea Steffaneo385, che seguì anche quando quest’ultimo fu chiamato a Vienna, in qualità di aio del principe ereditario Ferdinando. Nella capitale imperiale il giovane Agapito si dedicò soprattutto alle lettere e perfezionò la sua conoscenza del tedesco, divenendo eccellente traduttore di poesie, poi raccolte insieme a composizioni originali nei due volumetti dei Fiori

anacreontici386. Nel 1808 rientrò a Trieste come segretario del governatore Pietro de Goëss. Nel 1809 fu lesto a passare dalla parte dei Francesi, componendo una cantata in occasione del genetliaco di Napoleone, prontamente pubblicata sul solito «Osservatore triestino». D’altra parte la sua fedeltà era già stata messa in discussione nel 1806, quando era stato indicato come

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