5. Il primo uomo di Albert Camus: il romanzo del ritorno alle origini
5.3 Storia di un’infanzia in Algeria
Ogni opera di Camus, ma in particolar modo Il primo uomo, non può essere letta e compresa a fondo senza tenere in considerazione la geografia fisica e umana dell’Algeria, la terra che dette i natali allo scrittore. In quella porzione d’Africa, precisamente a Belcourt, un quartiere popolare di Algeri, questi trascorse la sua infanzia e l’intera adolescenza. Il padre di Camus morì nella battaglia della Marna pochi mesi dopo la sua nascita, quindi il bambino crebbe in compagnia della madre e della severa e dispotica nonna materna. L’assolata terra algerina svolse un ruolo di fondamentale importanza nella formazione del ragazzo:
La luce, il sole, un cielo terso e profondo, il mare…Miti letterari, belle immagini da lontano. Da vicino, realtà amiche di cui non si può dubitare e che predispongono Camus, nonostante tutto, ad un realismo istintivo ed ottimistico. In questo consiste la sua vocazione “mediterranea”. La scoperta del mondo è contemporanea alla scoperta di queste ricchezze.251
Le vicende narrate nel romanzo-testamento che stiamo analizzando rispecchiano alla perfezione molti episodi della biografia di Camus. L’autore però si nasconde dietro a Jacques Cormery, personaggio che lo rispecchia in tutto ma che non porta il suo stesso nome. La narrazione, infatti, è in terza persona, fatto abbastanza strano per un’opera di stampo autobiografico. In questo modo Camus ha l’occasione per guardarsi dall’esterno, assistendo al trascorrere della propria fanciullezza in disparte, come se fosse una storia appartenente a qualcun altro. Come vedremo, infatti, l’autobiografia è soltanto un punto di partenza dal quale il romanzo si evolverà per diventare una storia universale. Il primo uomo, infatti, è molto di più di una semplice opera individuale. A tal proposito mi sembra necessario citare alcune frasi tratte dal discorso che Camus fece durante la cerimonia di assegnazione del premio Nobel:
L’arte non è ai miei occhi gioia solitaria: è invece un mezzo per commuovere il maggior numero di uomini offrendo loro un’immagine privilegiata delle sofferenze e delle gioie di tutti. L’arte obbliga dunque l’artista a non isolarsi e lo sottomette alla verità più umile e più universale. E spesso chi ha scelto il suo destino di artista
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perché si sentiva diverso degli altri si accorge ben presto che potrà alimentare la sua arte e questo suo essere diverso solo confessando la sua somiglianza con tutti: l’artista si forma in questo rapporto perpetuo fra lui e gli altri, a mezza strada fra la bellezza di cui non può fare a meno e la comunità dalla quale non si può staccare.
L’arte costringe chi la pratica a confrontarsi con “la verità più umile e universale”, sfruttando un punto di vista privilegiato che permette di osservare le sofferenze e le gioie di tutti. La letteratura ha come obiettivo non l’individualismo, ma il suo contrario. Il romanzo preso in analisi, dunque, non è semplicemente un’autobiografia, ma è qualcosa che va al di là dei confini dettati da questo genere narrativo.
Il primo uomo racconta la storia di Jacques Cormery, un quarantenne francese che nel 1953 decide di ripercorrere la propria infanzia da pied-noir trascorsa in Algeria. In Africa rincontrerà la madre, ancora giovane dietro le numerose rughe, e il signor Bernard, il vecchio maestro che fece appassionare il protagonista allo studio. Il punto di partenza è la ricerca di notizie di un padre morto troppo presto durante la guerra, del quale, purtroppo, non conserva neanche un ricordo. Questa indagine finirà per innescare nel protagonista una catena di ricordi legati alla fanciullezza nel povero quartiere di Belcourt, dove l’uomo farà ritorno per cercare informazioni sul padre defunto quarant’anni prima. È un ritorno alle origini che non lascia indifferente il protagonista:
Jacques sonnecchiava, col cuore stretto in una sorta di angoscia gioiosa al pensiero di rivedere Algeri e la povera casetta in periferia. Era così ogni volta che lasciava Parigi per l’Africa: una sorda esultanza, un allargarsi del cuore, la soddisfazione di chi è riuscito a evadere e ride ricordando le facce dei secondini. Così, ogni volta che vi tornava, in macchina o in treno, gli si stringeva il cuore alla vista delle prime case della periferia, raggiunte senza che si fosse visto come, senza frontiere di alberi o di acque, come un cancro maligno che stendesse i suoi gangli di miseria e di bruttezza e assimilasse a poco a poco il corpo estraneo per condurlo nel cuore della città, dove una splendida scenografia gli faceva a volte dimenticare la foresta di ferro e di cemento che lo imprigionava popolando persino le sue insonnie. Ma se era riuscito a evadere, e respirava, sul grande dorso del mare, respirava a ondate, sotto il grande dondolio del sole, e poteva finalmente dormire e tornare all’infanzia da cui non era mai guarito, a quel segreto di luce, di povertà calorosa che lo aveva aiutato a vivere e a vincere ogni cosa.252
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Così Jacques torna immediatamente con il pensiero a quell’infanzia “da cui non era mai guarito” e i ricordi iniziano a sopraffarlo. La maggior parte del romanzo racconta la fanciullezza del protagonista, la parte centrale è un lungo flash-back che ripercorre le tappe principali della crescita di Jacques. La povertà è la protagonista indiscussa di questo periodo, è la presenza costante che influenza tutta l’infanzia del protagonista, sia da un punto di vista esteriore (la casa dall’arredamento scarno, la paura di rovinare le suole delle scarpe giocando a calcio253, il duro lavoro della madre ecc...), che da un punto di vista interiore. La povertà lascia, infatti, un marchio indelebile in chi la vive sulla propria pelle. Così afferma la voce narrante:
La memoria dei poveri è sempre più denutrita di quella dei ricchi, hanno meno punti di riferimento sia nello spazio, poiché lasciano di rado il luogo in cui vivono, sia nel tempo di una vita grigia e uniforme. Certo c’è la memoria del cuore, e dicono che sia la più sicura, ma il cuore si logora con le sofferenze e il lavoro, e dimentica più in fretta sotto il peso delle fatiche. Il tempo perduto è recuperabile solo dai ricchi. Per i poveri restano soltanto le orme vaghe del cammino della morte.254
Tuttavia la condizione di povertà non ha impedito a Jacques di trascorrere un’infanzia spensierata, divertendosi con i giochi per le strade polverose di Algeri, le escursioni in spiaggia con gli amici, le calde mattinate fra i banchi di scuola, imparando ad apprezzare gli aspetti più semplici e genuini della vita di tutti i giorni.
La nonna del protagonista è la figura che ha più influenza sulla sua crescita, è lei che solitamente rimprovera il nipote al posto della madre, troppo stanca a causa del suo faticoso lavoro di domestica. All’interno del romanzo le descrizioni sono moltissime. Camus dimostra la sua abilità di scrittore presentandoci i vari personaggi nelle loro mille sfaccettature e ponendo davanti ai nostri occhi i meravigliosi paesaggi algerini. Questa la descrizione della nonna di Jacques/Albert:
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“Il calcio era il suo regno. Solo che quel regno gli era proibito. Il cortile, infatti, era cementato e le suole vi si consumavano talmente in fretta che la nonna gli aveva vietato di praticare questo sport durante la ricreazione. Comprava personalmente per i nipoti spesse e robuste scarpe accollate, con la speranza che fossero immortali. Per aumentarne comunque la longevità, faceva guarnire le suole di enormi chiodi conici che avevano due vantaggi: bisognava consumarli prima di consumare le suole e permettevano di verificare le infrazioni al divieto di giocare al calcio”. Ivi, pp. 90-91.
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Eretta, con la lunga veste nera da profetessa, ignorante e caparbia, non aveva mai saputo, se non altro, che cosa fosse la rassegnazione. E poi era stata lei a dominare, più di chiunque altro, l’infanzia di Jacques. Allevata da genitori emigrati da Mahon in una piccola fattoria del Sahel, aveva sposato giovanissima un altro mahoese, fragile e minuto, i cui fratelli si erano stabiliti in Algeria nel 1848 dopo la morte tragica del nonno paterno.255
La donna dovette assistere anche alla prematura scomparsa del marito, episodio che fece piombare su di lei tutte le responsabilità della famiglia. Decise, dunque, di trasferirsi ad Algeri con i figli per mandarli a lavorare. La nonna del protagonista viene presentata come una donna forte, per niente scalfita dalle sofferenze che la vita le ha da sempre riservato:
Quando Jacques, cresciuto, fu in grado di osservarla, non era stata intaccata né dalla miseria né dalle avversità. Erano rimasti con lei solo tre figli […]. Tutti e tre percepivano salari miserabili che, messi insieme, facevano vivere una famiglia di cinque persone. La nonna gestiva tutto il denaro, ed era per questo che la prima cosa che colpì Jacques fu la sua durezza, ma non era avara, o almeno lo era come si è avari dell’aria che respiriamo e che ci permette di vivere.256
La donna ha un ruolo predominante nella vita di Jacques, ha molta più influenza su di lui rispetto a Catherine, la madre del ragazzo che, a causa del faticoso lavoro di domestica, non riesce a dedicare molto tempo al figlio: “La madre di Jacques rientrava tardi la sera e s’accontentava di guardare e di ascoltare quel che si diceva, sopraffatta dalla vitalità della nonna alla quale rimetteva qualsiasi decisione”257. Il personaggio di Catherine resta sempre in disparte, oscurato dall’imponente presenza di sua madre, ed è caratterizzato da un perpetuo atteggiamento malinconico, dovuto in parte anche al suo analfabetismo:
Da quando lui era al mondo, sua madre aveva sempre avuto quell’aria sottomessa, e insieme lontana, e quello stesso sguardo con cui trent’anni prima vedeva, senza intromettersi, sua madre picchiare Jacques con la frusta, lei che non aveva mai toccato e neanche sgridato realmente i propri figli, lei che, non potendo intervenire
255 Ivi, p. 88. 256 Ivi, p. 89. 257 Ivi, p. 90.
per la stanchezza, la difficoltà di esprimersi e il rispetto dovuto alla madre, lasciava fare, sopportava per giorni e per anni, sopportava le botte ai figli, come sopportava le dure giornate di lavoro al servizio degli altri, i pavimenti lavati in ginocchio, la vita senza un uomo e senza consolazioni fra gli avanzi bisunti e la biancheria sporca degli altri, i lunghi giorni di tribolazione che s’assommavano in una vita che, a forza di essere priva di speranza, era diventata anche una vita senza risentimenti, ignorante, ostinata, rassegnata insomma a tutte le sofferenze, le proprie come le altrui. Non l’aveva mai sentita lamentarsi, se non per dire che era stanca o aveva male alle reni dopo un grosso bucato. Non l’aveva mai sentita parlar male di qualcuno, se non per dire che una sorella o una zia non l’aveva trattata con gentilezza, che era stata “superba”. D’altro canto solo di rado l’aveva sentita ridere di cuore.258
Anche la nonna di Jacques era analfabeta tuttavia non rinunciava, per questo motivo, ad alcuni passatempi come ad esempio il cinema, dove poteva seguire la trama di un film grazie alla presenza del nipote che leggeva al suo posto le didascalie. La madre invece preferisce isolarsi:
Sua madre non veniva mai al cinema. Nemmeno lei sapeva leggere, e per di più era mezzo sorda. Il suo vocabolario, infine, era perfino più limitato di quello della nonna. Ancora oggi la sua vita era priva di divertimenti. In quarant’anni era andata al cinema due o tre volte, non aveva capito nulla e, per non contrariare le persone che l’avevano invitata, aveva detto soltanto che i vestiti erano belli o che quello con i baffi aveva un’aria cattiva. Non poteva neppure ascoltare la radio. In quanto ai giornali, sfogliava quelli illustrati, si faceva spiegare le illustrazioni dal figlio o dalle nipoti, decideva che la regina d’Inghilterra era triste e richiudeva la rivista per guardare di nuovo dalla stessa finestra il movimento di quella stessa strada che aveva contemplato per metà della vita.259
Nella vita di Camus la madre è una figura assolutamente centrale, i due sono legati da un rapporto di grande affetto. La donna, proprio come Catherine, era un’emigrata spagnola, incapace di leggere e scrivere, sorda, vittima di un destino feroce accettato con dignità e sopportazione. Proprio a lei lo scrittore dedica il suo romanzo più intimo con queste parole: “A te che non potrai mai leggere questo libro”. Quando la madre di
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Ivi, p. 65.
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Jacques prende tra le mani i libri di scuola del figlio, cercando inutilmente di attribuire un significato a quei simboli a lei sconosciuti, Camus pensa indubbiamente a colei alla quale ha dedicato la sua opera che non sarà mai in grado di leggere:
Guardava il doppio rettangolo sotto la luce, le file regolari delle righe; lei pure ne respirava l’odore, e a volte passava sulla pagina le dita intorpidite e raggrinzite dai bucati come se cercasse di capire meglio che cosa fosse un libro, di avvicinarsi un po’ di più a quei segni misteriosi, e per lei incomprensibili, nei quali suo figlio trovava così spesso e così a lungo una vita che le era ignota e da cui tornava guardandola come un’estranea.260
I ricordi evocati con nostalgia da Jacques non sono mai malinconici, anzi, permettono al protagonista di vivere una seconda volta un’infanzia spensierata, trascorsa con serenità sotto il sole algerino, nonostante la povertà e l’assenza di un padre.
La dedica alla madre analfabeta nasconde in qualche modo una certa consapevolezza da parte dell’autore di essere giunto alla fine; sembra quasi che egli abbia l’intenzione di farci intendere che dopo questo lavoro probabilmente non ne verranno altri e, se verranno, non avranno la stessa importanza di questo romanzo. Fra gli appunti sparsi, riportati accuratamente dalla figlia Catherine, leggiamo: “L’ideale sarebbe che il libro fosse scritto alla madre, da un capo all’altro – e si scoprisse solo alla fine che lei non sa leggere – sì, sarebbe questo”261. L’idea del libro che non può essere letto è centrale in questo ultimo lavoro di Camus. La madre non potrà mai confrontarsi con le pagine a lei dedicate: “E ciò che più desiderava al mondo, che sua madre leggesse tutto ciò che era la sua vita e la sua carne, era impossibile. Il suo amore, il suo unico amore, sarebbe stato per sempre muto”262
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Scrivendo Il primo uomo l’autore è riuscito ad andare oltre, a scavare a fondo fino a raggiungere l’essenza della sua vita, un punto fermo al di là del quale non è più possibile andare. Camus ha scritto l’ultima opera, ma questa non può essere letta dalla sua principale destinataria, per lei rimarrà sempre un mistero, un difficile enigma da decifrare, oltre il quale non ci sarà più niente.
260 Ivi, p. 254. 261 Ivi, p. 317. 262 Ibid.