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Una vocazione interminabile: lo scrittore davanti all'ultima opera. I casi di Svevo, Woolf, Saba e Camus.

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Academic year: 2021

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(1)

U

NIVERSITÀ DI

P

ISA

DIPARTIMENTO DI FILOLOGIA, LETTERATURA E LINGUISTICA

CORSO DI LAUREA MAGISTRALE IN ITALIANISTICA

TESI DI LAUREA

Una vocazione interminabile: lo scrittore davanti all’ultima opera.

I casi di Svevo, Woolf, Saba e Camus

CANDIDATA

RELATORE

Silvia Ciampi Prof. Arrigo Stara

(2)
(3)

I

NDICE

Introduzione………....………….4

1. Lo scrittore alle prese con l’ultimo romanzo………6

1.1 Il valore dell’opera estrema……….6

1.2Il concetto di romanzo-testamento all’interno dello studio di Matteo Rima………...7

1.3 L’artista alla fine della vita, Sullo stile tardo di Edward Said……....….…………..10

1.4 Una breve contestualizzazione culturale………...13

1.5 I romanzi-testamenti di un’epoca di grandi cambiamenti……….15

2. Il Vegliardo di Italo Svevo: il romanzo della vecchiaia scritto in previsione della vita………....………...22

2.1 Dopo La coscienza di Zeno………...22

2.2 Il progetto del quarto romanzo………..24

2.3 Caratteristiche del romanzo-testamento sveviano……….28

2.4 “Io voglio scrivere ancora”: l’ultimo elogio della letteratura………34

2.5 La destinazione della vecchiaia è la vita………...41

3. Tra un atto e l’altro di Virginia Woolf: il romanzo corale della fine di un’epoca………..51

3.1 Gli ultimi anni di Virginia……….51

3.2 Genesi di un romanzo scritto per divertimento……….53

3.3 Trama e personaggi………...………56

3.4 L’ultima prova artistica prima del suicidio………....………...……59

3.5 Un romanzo-testamenti scritto sotto la pressione della guerra………….…...…..65

3.6 Il ruolo dell’artista attraverso gli occhi di Miss La Trobe………...….71

4. Ernesto di Umberto Saba: il romanzo della vocazione giovanile……..…………81

4.1 L’ultimo periodo di Saba……….…...81

(4)

4.3 Le vicende di Ernesto………88

4.4 Il romanzo proibito………...……….92

4.5 Una tardiva riscrittura del primo capitolo del Canzoniere………..…100

5. Il primo uomo di Albert Camus: il romanzo del ritorno alle origini…..………107

5.1 Gli ultimi anni di Camus……….107

5.2 Un romanzo-testamento sui generis………110

5.3 Storia di un’infanzia in Algeria……….…..113

5.4 Un uomo senza radici e senza passato……….……119

5.5 Quando tutto ebbe inizio: gli anni della scuola di Jacques ………...……..126

Bibliografia………..……….132

Ringraziamenti……….139

(5)

I

NTRODUZIONE

Qual è il valore dell’opera scritta dal proprio autore poco prima della morte? Ha un senso analizzarla in quanto portavoce dell’ultimo messaggio dello scrittore, dell’estremo congedo dal mondo terreno? È possibile rintracciare alcuni elementi che accomunano la maggior parte delle produzioni artistiche composte in punto di morte? Queste sono alcune delle domande a cui cercherò di rispondere all’interno del mio elaborato. Il mio obiettivo sarà, innanzi tutto, quello di individuare le peculiarità dell’opera estrema e, una volta definite, procedere con un’analisi approfondita di alcuni romanzi che hanno chiuso le carriere letterarie di importanti intellettuali.

Il primo capitolo sarà interamente dedicato all’aspetto teorico. A una breve rassegna degli elementi che caratterizzano l’opera conclusiva di uno scrittore seguirà il confronto con gli studi di alcuni critici che hanno approfondito il tema che prenderò in esame. Le ricerche in questo campo non sono molte, non esiste un’ampia bibliografia, tuttavia ho avuto l’opportunità di confrontarmi con stimolanti studi in materia. Fondamentali per l’avvio della mia indagine sono stati soprattutto Il romanzo-testamento di Matteo Rima e Sullo stile tardo di Edward Said. Cercherò di porre le basi che daranno origine e sviluppo alla mia indagine. Ho scelto di analizzare quattro romanzi del Novecento, due appartenenti alla letteratura italiana, uno alla letteratura inglese e l’altro a quella francese.

Con il secondo capitolo inizierà il percorso all’interno dei testi. Il primo romanzo oggetto di analisi sarà Il vegliardo di Italo Svevo, o meglio, il progetto, mai portato a termine dall’autore a causa della morte improvvisa, di scrivere una prosecuzione della Coscienza di Zeno. Mi concentrerò soprattutto sul modo in cui l’intellettuale triestino affronta il tema della vecchiaia e dell’approssimarsi alla morte.

Successivamente l’attenzione si sposterà sull’ultimo lavoro di Virginia Woolf, Tra un atto e l’altro, romanzo scritto poco prima del suicidio della scrittrice, la quale riuscirà a osservare la realtà che la circonda con occhi del tutto nuovi rispetto alle sue opere passate. È un testo totalmente innovativo e sorprendente, composto quando la seconda guerra mondiale era ormai alle porte e le crisi nervose della Woolf diventavano sempre più frequenti.

(6)

Il quarto capitolo sarà dedicato interamente al difficile e travagliato rapporto di Umberto Saba con il suo ultimo romanzo, Ernesto. Questo testo, rimasto incompiuto, prese forma quando l’autore, anziano e malato, si era rassegnato all’idea di una morte imminente. Con il personaggio di Ernesto, ricco di riferimenti autobiografici, l’autore ha l’occasione di mettersi a confronto per l’ultima volta con la nascita della propria vocazione poetica, osservando, così, da una nuova prospettiva, il proprio percorso artistico.

Infine, nel capitolo conclusivo, l’analisi verterà intorno ad Albert Camus con Il primo uomo, opera rimasta senza un finale e mai pubblicata dall’autore stesso, dal momento che il manoscritto fu rinvenuto a bordo dell’auto sulla quale lo scrittore francese trovò la morte, in seguito a un grave incidente. Nonostante sia l’ultima opera di un autore ancora giovane, scomparso in modo inatteso, è possibile leggere le sue pagine estreme ritrovando tutte le caratteristiche tipiche di un romanzo scritto alla fine della vita.

(7)

CAPITOLO

I

L

O SCRITTORE ALLE PRESE CON L

ULTIMO ROMANZO

1.1Il valore dell’opera estrema

La questione dell’ultimo romanzo lasciato incompiuto o in forma embrionale dall’autore prima della propria morte è un problema che da sempre ha dato origine a grandi dibattiti filologici. Districarsi nel labirinto degli scartafacci, cercare di comprendere l’ultima volontà dell’autore, decifrare la sua grafia sono tutte operazioni intraprese dai filologi per restituire al pubblico una determinata opera. In ambito filologico è infatti frequente imbattersi in studi e discussioni che vertono intorno a questo problema di ricostruzione testuale. All’interno di un’ottica prettamente critico-letteraria, invece, che cosa rappresenta l’ultimo romanzo di uno scrittore? Esistono pochissimi studi rivolti in questa direzione, tuttavia ritengo molto interessante analizzare un romanzo appartenente a questa categoria assumendo come punto di partenza proprio la sua tardività e, di conseguenza, leggere le pagine con la consapevolezza che tra le righe sia cristallizzato l’estremo messaggio di chi le ha scritte. Il romanzo scritto prima della morte è la testimonianza del pensiero e della poetica dello scrittore, il suo estremo commiato, il coronamento di un’intera carriera letteraria e, in quanto tale, va senz’altro a occupare una posizione importantissima all’interno della produzione dell’autore stesso. La prova artistica conclusiva può avere la capacità di gettare nuova luce sull’intero percorso letterario di uno scrittore, fornendoci un’inedita chiave interpretativa dalla quale scaturiranno significati del tutto inaspettati.

Una delle caratteristiche principali dell’ultima opera è sicuramente l’elevato numero di richiami autobiografici da parte di un autore che, ormai in età avanzata, è spinto da una nuova maturità e, forse, da un forte senso di nostalgia a ripercorrere la vita passata con una maggiore consapevolezza. La vita intesa come successione di eventi cronologici si confonde quasi sempre con la vita artistica, quindi con il percorso

(8)

letterario che ogni scrittore si lascia alle spalle. Per questo motivo non manca quasi mai un confronto con le opere del proprio passato. Generalmente il romanzo finale di uno scrittore è ricco di riferimenti intertestuali, utili per tirare le fila e chiudere il cerchio di una carriera dedicata alla scrittura.

È necessario fare una precisazione: non tutti gli scrittori hanno la stessa consapevolezza del fatto che stanno scrivendo il loro ultimo capolavoro. Esistono casi in cui l’autore, ormai vecchio e malato, si rende perfettamente conto che la sua vita è quasi giunta al termine e quindi quella che si appresta a scrivere sarà l’opera conclusiva che probabilmente resterà incompiuta. A volte però la morte si presenta inaspettatamente, un incidente d’auto può spezzare improvvisamente una vita e far sì che il romanzo al quale uno scrittore stava lavorando diventi il suo ultimo romanzo, un involontario testamento della propria carriera letteraria. In questi casi è comunque interessante analizzare l’opera, in quanto rappresenta l’estrema prova artistica di uno scrittore.

1.2 Il concetto di romanzo-testamento all’interno dello studio di Matteo Rima

A questo punto mi sembra fondamentale categorizzare e attribuire una denominazione a questo tipo di romanzo che sarà l’oggetto del mio lavoro. Partendo da un’idea di Matteo Rima, che all’interno di un suo saggio1 compie uno studio dettagliato sulla questione dell’ultimo romanzo, accolgo l’appellativo da lui proposto per il tipo di opere che andrò ad analizzare: romanzo-testamento. Questa definizione mette perfettamente in evidenza il significato e il valore dell’ultimo romanzo, ponendo l’accento sulla sua funzione, ovvero quella di testimonianza riassuntiva del pensiero e della poetica di chi lo ha scritto. Allo stesso tempo, però, prenderò le distanze dalla sua analisi per indirizzarmi verso un’altra meta, attraverso un diverso criterio di selezione dei testi e attraverso una differente analisi testuale. Rima, partendo dal concetto di romanzo-testamento, sviluppa una ricerca che ha come base e come criterio di analisi l’elemento della morte fisica. A tal proposito scrive:

1

(9)

Lo scrittore è consapevole che il libro che sta realizzando gli potrà sopravvivere e potrà essere letto anche dopo la sua morte; in un certo senso e in diversa misura, quindi, ogni libro è un lascito (rimane ai posteri). Pertanto, fatta salva l’importanza dell’opera “testamentaria” all’interno della produzione dell’autore, ho introdotto un ulteriore elemento, ovvero quello della morte fisica.2

I romanzi selezionati da Rima hanno tutti una caratteristica in comune: la prossimità della morte come stimolo per la creatività dei loro autori. Le opere analizzate nel suo saggio sono state realizzate mentre gli autori erano ormai entrati nella prospettiva di una morte imminente, con l’inevitabile conseguenza che la morte diventa la protagonista di questi scritti. Il saggio è suddiviso in tre sezioni, in ognuna delle quali Rima analizza una selezione di romanzi scritti da autori in vista della propria morte. Per prima cosa lo studioso si concentra sui lavori di scrittori in età avanzata3, ponendo l’accento sul fatto che l’autore, ormai vecchio e consapevole di essere al termine della propria vita, sia indotto a ripensare un’ultima volta alla propria lunga esistenza. Dal momento che il futuro davanti sembra essere molto breve, sorge il desiderio di ripercorrere il passato con maggiore coscienza. La ricapitolazione della vita spesso è un ottimo modo per definire aspetti della propria carriera che erano rimasti incompresi o per chiudere questioni rimaste aperte:

Il vecchio scrittore è consapevole che il libro a cui sta lavorando concluderà la sua esistenza professionale; pertanto ne approfitta per completare ciò che è ancora incompiuto, ovvero per chiudere i conti con il passato.4

Nella maggior parte dei casi i romanzi appartenenti a questa categoria diventano delle vere e proprie confessioni, nate dall’esigenza che ha l’autore di stabilire un ordine e una trama all’interno della propria vita, senza lasciare discorsi in sospeso.

Segue poi un’analisi delle opere di autori che pur non essendo anziani sono affetti da gravi malattie5. Negli scritti appartenenti a questa categoria il tema della morte

2

Ivi, p. 27.

3

Le opere selezionate sono: Le due inglesi e il continente di Henri-Pierre Roché, Alla mercé di una

brutale corrente di Henry Roth, Il capitano è fuori a pranzo di Charles Bukowski e Revelstein di Saul

Bellow.

4

RIMA, Il romanzo-testamento, op. cit. p. 33.

5

I lavori analizzati all’interno di questa sezione del saggio sono: Il cavaliere e la morte e Una storia

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è certamente dominante. L’accettazione del male e del dolore creano una tensione interiore che viene riversata nella scrittura. Anche in questo caso c’è la quasi piena consapevolezza da parte di chi scrive che quella a cui sta lavorando è l’ultima opera prima della morte.

Infine il lavoro si conclude con la lettura di alcuni scritti di autori che in seguito si sono suicidati6. Sono romanzi che nascono da una situazione totalmente innaturale, cioè dal desiderio da parte di un individuo di mettere fine alla propria vita, da una crisi vissuta in prima persona da chi non riesce più a conformarsi a determinate leggi naturali o sociali. Rappresentano l’ultima sfida, l’ultimo atto di ribellione da parte di chi scrive. Come afferma Matteo Rima, “la combinazione di scrittura e suicidio può rendere indimenticabili le loro opere”7 e proprio per questo motivo l’autore si impegnerà moltissimo per realizzare la sua ultima opera, quella con cui in futuro verrà certamente identificato.

Rima, dunque, partendo dall’idea del romanzo-testamento, avvia un’analisi strettamente connessa con il tema della morte. L’ultimo romanzo di uno scrittore, all’interno della sua indagine, è un pretesto per rintracciare le varie modalità di espressione di Thanatos. Inoltre prende in esame anche un’opera che non è stata scritta per ultima dal suo autore, ovvero Fuoco fatuo di Pierre Drieu la Rochelle. Il critico giustifica questa scelta in funzione del tema del suicidio, che viene preannunciato tra le pagine di questo romanzo molti anni prima rispetto a quando l’autore si toglierà effettivamente la vita.

Il concetto di ultima opera che desidero presentare all’interno di questo studio esula dall’analisi appena riassunta. Il punto di partenza però è lo stesso e proprio per questo motivo, come già detto, ho deciso di adottare l’appellativo di romanzo-testamento. L’autore alle prese con l’ultimo romanzo è l’idea che ha messo in moto lo studio di Rima e che, allo stesso modo, metterà in moto anche il mio. Una volta poste le stesse premesse del saggio citato intraprenderò un percorso diverso rispetto a esso. La mia analisi ha lo scopo di capire quali sono le caratteristiche di un romanzo-testamento non solo in funzione del tema della morte, ma rivolgendo l’attenzione anche ad altri

6

Protagonisti di questa sezione sono le opere seguenti: Fuoco fatuo di Pierre Drieu la Rochelle,

Dissipatio H. G. di Guido Morselli, Caro vecchio neon di David Foster Wallace e Suicidio di Édouard

Levé.

7

(11)

aspetti fondamentali. L’obiettivo principale sarà rintracciare e isolare peculiarità diverse in ognuno dei romanzi che prenderò in esame, cercando di comprendere e di mettere a confronto i diversi modi e atteggiamenti attraverso i quali l’autore si confronta con l’opera finale, quella che potrebbe chiudere e coronare la sua lunga carriera letteraria.

1.3 L’artista alla fine della vita, Sullo stile tardo di Edward Said

Sul concetto di opera tarda si è soffermato il critico Edward Said nel suo saggio, pubblicato postumo, dal titolo Sullo stile tardo8. In questo studio Said si concentra sull’ultimo o più tardo periodo della vita di un artista e in particolar modo sulle modalità in cui in questa parte finale dell’esistenza il pensiero e il linguaggio di un artista assumono caratteristiche del tutto nuove e inaspettate:

Arrivo finalmente all’ultima grande problematica, che per ovvie ragioni personali costituisce qui il mio argomento principale – l’ultimo o più tardo periodo della vita, il decadimento del corpo, il sopraggiungere della malattia o di altri fattori che determinano la possibilità di una fine intempestiva perfino per una persona giovane. Mi concentrerò su alcuni grandi artisti e sul modo in cui, alla fine della vita, la loro opera e il loro pensiero abbiano acquisito un nuovo linguaggio che vorrei definire stile tardo. Si diventa più saggi con l’età? Ed è vero che grazie all’età, nell’ultima fase della carriera, gli artisti acquisiscono qualità eccezionali di percezione e di forma?9

Quando qualcuno è consapevole che l’ora della propria morte è ormai all’orizzonte, si crea un’atmosfera di attesa all’interno della quale il tempo si modifica, il presente scompare per dare spazio a un passato rivissuto e a un futuro che va oltre la vita terrena. Sono queste circostanze che danno origine allo stile tardo, l’argomento su cui si basa il saggio in questione. In alcune annotazioni, come ci ricorda Michael Wood nell’introduzione a questa edizione dell’opera, Said parla di “conversione del tempo in spazio”10

e dell’ “aprirsi di una sequenza cronologica in un paesaggio per essere in

8

SAID Edward W., Sullo stile tardo, Milano, Il Saggiatore, 2009.

9

Ivi, pp. 21-22.

10

(12)

grado di vedere, sperimentare, afferrare e lavorare al meglio con il tempo”11. Sempre tra le pagine di queste annotazioni l’autore cita alcuni brani finali di Alla ricerca del tempo perduto, dove Proust è preso dal fascino della recuperabilità del passato, ma allo stesso tempo è angosciato per la brevità del futuro che ha davanti. La morte imminente, anche se sotto varie forme, in qualche modo riesce comunque a entrare fra le pagine dell’opera. Spesso, come afferma Said, il sentimento di chi è vicino alla fine della vita si tramuta, a livello di scrittura, in anacronismi o anomalie. A questa categoria appartengono opere di artisti come Adorno, Thomas Mann, Richard Strauss, Jean Genet, Giuseppe Tomasi di Lampedusa e Konstantinos Kavafis. Non sempre, dunque, la vecchiaia o la malattia conducono l’individuo verso uno stato di serenità. Un caso eclatante è quello dello scrittore norvegese Henrik Ibsen, le cui ultime opere, in particolar modo Quando noi morti ci destiamo, rappresentano un punto di estrema rottura rispetto alla sua carriera precedente e alla sua tecnica consueta. I suoi ultimi drammi esprimono rabbia e tormento, non raggiungono mai una condizione di compiutezza, anzi, lasciano il pubblico in uno stato di totale perplessità e turbamento. Al contrario, casi molto diversi sono quelli che riguardano, ad esempio, gli ultimi testi di Sofocle e Shakespeare, opere in cui il conflitto con il tempo è risolto e si respira un’atmosfera di totale serenità. Attraverso La tempesta e Racconto d’inverno Shakespeare recupera le forme del romance e della parabola. Allo stesso modo Sofocle con l’Edipo a Colono dipinge l’immagine di un eroe invecchiato che ha finalmente raggiunto una situazione di compiutezza e pace interiore. Anche Euripide con Le baccanti e Ifigenia in Aulide torna volontariamente agli esordi, a un inizio che sembrava essere dimenticato, ma, in questo caso, il senso di riconciliazione e compimento delle tragedie precedenti sembra essere perduto, probabilmente proprio a causa della dimensione tardiva.

Said utilizza come modello per il suo saggio alcune teorie di Adorno, il quale si era espresso sulla questione della tardività all’interno degli studi dedicati al terzo periodo di Beethoven, periodo in cui “l’artista, pienamente padrone dei suoi mezzi, smette di comunicare con l’ordine prestabilito di cui fa parte e stringe con esso una

11

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relazione contraddittoria e alienata”12

. Come viene riportato nel saggio, Adorno sottolinea che:

L’opera tarda è cacciata ai margini dell’arte e viene avvicinata al documento; effettivamente, anche nelle trattazioni sull’ultimo Beethoven raramente manca il riferimento alla biografia e al destino. È come se di fronte alla gravità della morte umana la teoria dell’arte volesse rinunciare ai suoi diritti e abdicare di fronte alla realtà.13

A causa della morte intesa come evento traumatico e sconvolgente, dunque, l’opera tarda troppo spesso, agli occhi dei critici, perde il proprio valore artistico, per essere invece analizzata nelle vesti di un semplice documento. Said afferma che “lo stile tardo è ciò che accade se l’arte non rinuncia ai suoi diritti in favore della realtà”14

. La morte imminente non può essere ignorata, ma non deve assolutamente oscurare la dimensione artistica di un’opera. L’opera tarda deve essere analizzata soprattutto da un punto di vista stilistico e puramente letterario, non soltanto per i suoi aspetti biografici e autobiografici legati alla scomparsa dell’autore. A questo proposito viene riportata un’altra riflessione di Adorno:

Toccata dalla morte, la mano del maestro libera le masse di materia cui prima dava forma; le fessure e crepe ivi presenti, testimonianza dell’impotenza finita dell’Io di fronte all’esistente, sono la sua ultima opera.15

Il concetto di tardività è l’inevitabile risultato dell’invecchiamento dell’artista, la coscienza di aver raggiunto la fase finale della vita, quindi la totale consapevolezza del presente, ma soprattutto del passato. Questa fase è un “esilio autoimposto”16, il momento della carriera in cui l’artista prende le distanze da se stesso per intraprendere strade diverse, per scoprire e riscoprire un nuovo linguaggio e un nuovo stile, spesso ispirati alle origini. Lo stile tardo occupa una dimensione propria:

12 Ivi, p. 23. 13 Ivi, p. 24. 14 Ibid. 15 Ibid. 16 Ivi, p. 29.

(14)

Lo stile tardo è dentro il presente, ma ne è stranamente separato. Solo certi artisti e pensatori sono abbastanza interessati al proprio mestiere da credere che anch’esso invecchi e debba affrontare la morte con i sensi e la memoria che vengono a mancare.17

Said afferma che, in questo senso, il modernismo può essere individuato come un fenomeno di stile tardo “dal momento che artisti come Joyce ed Eliot danno l’impressione di aver vissuto fuori dal loro tempo e avere fatto ricorso, per trovare ispirazione, ai miti del passato o a forme classiche come l’epica o il rituale religioso antico”18

. In quest’ottica il modernismo viene dipinto inaspettatamente come un movimento fatto di vecchiaia e non di modernità.

1.4 Una breve contestualizzazione culturale

Proprio il modernismo sarà il periodo che farà da sfondo alla mia ricerca. Ho scelto di analizzare quattro romanzi-testamento appartenenti agli ultimi anni di questa corrente letteraria, con lo scopo di rintracciare le varie modalità di espressione della tardività. Che caratteristiche assume un romanzo-testamento nell’Europa del Novecento, dopo i cambiamenti e gli sconvolgimenti portati dall’inaspettata ventata del modernismo? Le opere che andrò ad analizzare non possono assolutamente essere lette prescindendo dal periodo in cui sono state composte; dunque, prima di presentarle, mi sembra indispensabile inquadrare brevemente il contesto culturale e letterario. Questi romanzi sono il prodotto di autori vissuti durante la prima metà del Novecento, periodo in cui l’arte, la letteratura e ogni altra forma di espressione umana subiscono radicali cambiamenti, inaugurando un’epoca in cui niente sarà più come prima.

Fin dai primi anni del secolo si affacciano sulla scena artistica nuove sperimentazioni antiaccademiche, che prendono il nome di avanguardie. Lo scopo principale era il superamento dei vincoli imposti da una tradizione nella quale gli artisti non erano più in grado di identificarsi. Uno dei massimi esponenti di questa nuova cultura fu il poeta americano Ezra Pound (1885-1972), che con lo slogan “Make it

17

Ivi, p. 36.

18

(15)

new!” (Rinnovalo!), lanciò un chiaro messaggio indirizzato verso il rinnovamento di ogni tipo di discorso letterario. Le tendenze moderniste si riscontrano in ogni campo artistico, non solo in letteratura. Un esempio è rappresentato dal dipinto Les demoiselles d’Avignon (1907), dove Pablo Picasso (1881-1973) stravolge completamente una delle tecniche tradizionali del disegno, la prospettiva. Il primo settore in cui avvennero cambiamenti importanti fu quello delle scienze esatte. Albert Einstein (1879-1955), con l’elaborazione della teoria della relatività e la definizione del concetto di cronotopo, mise in discussione le due istanze cardine della fisica teorica: lo spazio e il tempo. Anche il settore della linguistica compì un radicale cambiamento grazie alla personalità di Ferdinand de Saussure (1857-1913), che propose un diverso approccio allo studio del linguaggio. Esaminò le caratteristiche della lingua non solo a livello di evoluzione storica, ma anche da un punto di vista sincronico, considerando la lingua un sistema autonomo in un determinato tempo. La discussione sul linguaggio negli anni successivi diventerà fondamentale all’interno della cultura del Novecento. Tuttavia la teoria che ottenne maggiori riscontri positivi e conseguenze immediate nell’arte e nella letteratura fu senza dubbio la psicoanalisi di Sigmund Freud (1856-1939), i cui studi furono in grado di cambiare il modo di pensare di un’intera epoca. Le sue teorie sull’inconscio, sul ruolo dei sogni, sull’esistenza di un livello psichico che si sottrae alla consapevolezza dell’individuo portarono al centro della discussione il concetto di “io”, cioè la parte razionale e conscia della nostra personalità. Tutto ciò ebbe importanti ripercussioni in ambito letterario. La manifestazione dell’io in tutte le sue forme dette origine a riflessioni sul metodo autobiografico e sul discorso in prima persona. A questo periodo appartengono sperimentazioni come il monologo interiore e il flusso di coscienza, tecniche grazie alle quali i pensieri di un personaggio vengono messi nero su bianco nello stesso modo in cui si manifestano nella mente, quindi senza l’utilizzo di punteggiatura e senza la divisione in frasi. La mente dell’individuo appare nuda davanti al lettore, non ci sono barriere o maschere a limitarla. La linearità e la regolarità della letteratura ottocentesca sono ormai un lontano ricordo. I romanzi naturalisti lasciano il loro spazio a romanzi totalmente innovativi, a storie narrate in prima persona da un io sempre in conflitto con se stesso e con il mondo a lui circostante, a temporalità frammentate e interrotte da flashback improvvisi. I nuovi protagonisti non hanno più niente a che fare con i borghesi alle prese con l’ascesa della scalinata sociale, né con i

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superuomini che vantavano vite sublimi, ma sono inetti, individui totalmente incapaci di agire, di realizzare qualcosa di concreto nella vita quotidiana, di rivestire con dignità il ruolo assegnato da una società priva di valori. L’indagine psicologica, ovviamente, è esaltata al massimo.

1.5 I romanzi-testamento di un’epoca di grandi cambiamenti

Nel mio studio mi occuperò di quattro romanzi-testamento, tutti composti nel periodo più tardo del modernismo, quindi nel momento in cui tutte le innovazioni e le sperimentazioni, nate e sviluppatesi durante i primi anni del secolo, si erano ormai affermate saldamente nella cultura europea. Le opere selezionate sono il prodotto di questo nuovo modo di fare letteratura, il risultato finale di grandi sperimentatori che si fecero promotori di importanti innovazioni nella cultura a loro contemporanea. L’intervallo di tempo prescelto ha inizio alla fine degli anni ’20, precisamente nel 1928, anno in cui Italo Svevo (1861-1928), poco prima della morte, si dedica al progetto del suo quarto romanzo. Il punto di passaggio alla nuova epoca del Dopoguerra è stato rintracciato in Virginia Woolf (1882-1941), che nel 1941, prima di suicidarsi, lasciò sulla propria scrivania il manoscritto del suo ultimo romanzo, Tra un atto e l’altro. I due modelli degli anni ’50 saranno Umberto Saba (1883-1957) con Ernesto, scritto intorno al 1953 ma pubblicato postumo nel 1975, e Albert Camus (1913- 1960) con Il primo uomo, steso a partire dal 1959 e pubblicato postumo nel 1994. Svevo è l’unico a morire prima dell’avvento della seconda guerra mondiale, momento storico che invece sconvolgerà profondamente Virginia Woolf, che si tolse la vita proprio mentre il dominio nazista era al proprio culmine. Saba e Camus vissero in prima persona tutto il periodo più buio dell’Europa, ma i loro romanzi-testamento, oggetto della mia analisi, appartengono al periodo di rinascita del Dopoguerra.

Analizzerò quattro opere totalmente diverse fra loro, sia per l’atteggiamento e il modo in cui l’autore si appresta a scrivere l’ultimo lavoro, sia per lo stile e gli argomenti trattati. Ognuna di esse ha un carattere proprio, possiede peculiarità che la differenziano dalle altre rendendola ancora più interessante da analizzare. Esiste però un filo conduttore che le lega, la loro tardività, il loro carattere testamentario. Danno voce

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all’ultimo messaggio espresso dall’autore su questa terra e ci aiutano a comprendere meglio il vero significato di una carriera dedicata interamente alla letteratura.

Seguendo un ordine cronologico il primo romanzo oggetto della mia indagine sarà quello di Italo Svevo, concepito nel 1928, cinque anni dopo la pubblicazione della Coscienza di Zeno. Nell’anno in cui sarebbe improvvisamente morto in un incidente d’auto, l’autore triestino iniziò a progettare una continuazione della Coscienza, un nuovo romanzo con protagonista uno Zeno Cosini con qualche anno in più, diventato un vecchione o vegliardo, come forse avrebbe dovuto intitolarsi l’opera. Svevo ormai non è più giovane, ha 67 anni, e nelle lettere in cui parla del progetto del quarto romanzo mette in conto anche la possibilità di lasciare l’opera incompiuta, ma la voglia di scrivere ancora e di divertirsi con la letteratura sono veramente forti. È come se volesse tirare le fila della propria carriera letteraria, rielaborare tutti i materiali fino a quel punto utilizzati per generare un altro capolavoro. Il nuovo Zeno, così come Svevo stesso, deve fare i conti con la vecchiaia, con un passato troppo lungo alle spalle e un futuro troppo breve all’orizzonte, con i fastidi e gli acciacchi della sua età, ma, nonostante ciò, si presenta come un personaggio tutto teso in direzione della vita e non ancora rassegnato alla morte. È un romanzo sulla vecchiaia concepito in previsione della vita. Svevo, nonostante l’età, non scrive indossando i panni di un individuo consapevole di essere giunto al capolinea della propria vita; la morte è soltanto un fantasma all’orizzonte, un evento inevitabile che può ancora attendere un po’ di tempo. Questo quarto romanzo sveviano ha tutte le carte in regola per essere definito un romanzo-testamento, soprattutto per il fatto che, attraverso le sue pagine, l’autore ha la possibilità di chiudere il cerchio della propria arte, riuscendo a mettere in scena ancora una volta il suo personaggio più famoso, osservato, però, sotto una nuova luce. Tuttavia è senz’altro necessario tenere presente il fatto che Svevo non fosse totalmente consapevole che quello che stava scrivendo sarebbe diventato il suo ultimo lavoro. La morte lo colse improvvisamente nel settembre del 1928, quando rimase vittima di un incidente stradale. Il progetto del Vegliardo restò così incompiuto, i capitoli non furono mai messi in ordine dall’autore e molte parti non raggiunsero mai la loro forma definitiva. Nonostante la loro frammentarietà, credo che le pagine del quarto romanzo sveviano rappresentino bene una delle tante modalità di espressione del romanzo-testamento; in

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questo caso, come cercherò di dimostrare, ci troviamo di fronte a un romanzo della vecchiaia che non è stato scritto in previsione della morte, ma della vita.

Virginia Woolf, a differenza di Svevo, assumerà un atteggiamento completamente diverso durante la stesura della sua ultima opera. Tra un atto e l’altro è un romanzo che nasce “per divertimento”, dopo che la Woolf dovette affrontare il difficile compito di scrivere la biografia dell’artista Roger Fry, sotto richiesta della famiglia del defunto. L’opera racconta la storia dell’allestimento di uno spettacolo in un piccolo villaggio della campagna inglese poco prima dello scoppio della guerra. Siamo nel giugno del 1939, data che ci immerge subito in uno dei periodo più bui della storia del Novecento. L’orrore della guerra, la pressione provocata dal terrore che dilagava in tutta Europa, la consapevolezza di vivere in un momento di grandi cambiamenti politici, sociali, economici e culturali portarono la Woolf ad avvertire un maggiore senso di appartenenza alla propria comunità. La prima importante conseguenza di questo nuovo modo di osservare le cose fu il passaggio dall’”io” al “noi”, quindi lo spostamento da un romanzo individuale a uno corale. Proprio sulla coralità e sulle mille voci dei personaggi si basa quest’ultima prova artistica di Virginia Woolf. La messa in scena del dramma teatrale al villaggio è un’occasione perfetta per far scendere in campo numerosi personaggi; alcuni sono gli attori della rappresentazione in costume, altri sono gli spettatori. Miss La Trobe, una signora del paese che si improvvisa regista, all’interno della sua commedia desidera mettere in scena le varie epoche della storia inglese; ogni atto, infatti, corrisponde a una di esse. L’ultimo atto, l’età contemporanea, non prevede un copione. I vari abitanti del villaggio si trasformano improvvisamente nei personaggi della commedia teatrale di cui fino a quel momento erano semplici spettatori. Qual è, dunque, la peculiarità di questo romanzo-testamento della Woolf? Innanzi tutto siamo di fronte a un’opera corale che ritrae un mondo che sta pian piano scomparendo. L’autrice, quasi sessantenne, sotto la schiacciante pressione della storia a lei contemporanea, sperimenta un nuovo tipo di narrazione, mai utilizzato fino a questo momento, dando voce a un gruppo di individui, gli ultimi rappresentanti di un’età che si sta concludendo. Allo stesso tempo, però, la Woolf affida ai personaggi caratteristiche che spesso rimandano ai protagonisti dei suoi precedenti capolavori letterari. Per questo motivo Tra un atto e l’altro è stato definito un romanzo di Woolf fatto di romanzi di Woolf. Oltre alla sperimentazione, dunque, l’autrice strizza un occhio anche al proprio passato

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artistico, offrendo nuove chiavi di lettura e nuove interpretazioni dei suoi personaggi più famosi. I protagonisti di quest’opera diventano dei veri e propri strumenti critici, in grado di far risplendere di nuova luce anche i personaggi degli altri romanzi woolfiani. Virginia Woolf ha lasciato ai posteri il suo ultimo romanzo come un vero e proprio testamento. Il 28 marzo 1941, prima di togliersi la vita, sulla scrivania della sua stanza, accanto alle lettere scritte per il marito e per la sorella, lasciò anche un estremo messaggio per i suoi lettori, un ultimo capolavoro a coronamento di una delle più sorprendenti carriere letterarie del Novecento: il manoscritto del suo ultimo romanzo. In questo caso la morte è un evento programmato, provocato dalla scrittrice stessa che, con il suicidio, ci lascia capire che la sua ultima opera è chiaramente un romanzo-testamento volontario. Quando la Woolf depose sulla scrivania le pagine della sua ultima storia era pienamente cosciente del valore che stava affidando al suo estremo romanzo.

Con un balzo temporale lungo più di dieci anni giungiamo all’Ernesto di Umberto Saba. Nel 1954 l’autore ormai settantenne, mentre era ricoverato in una clinica romana, iniziò a scrivere i primi capitoli dell’ultimo romanzo della sua carriera. I familiari e molti amici lessero queste pagine in cui veniva descritta l’iniziazione omosessuale del sedicenne Ernesto, il rito della prima rasatura e la prima esperienza eterosessuale ma, nonostante l’apprezzamento da parte di essi, Saba iniziò a costruirsi un alibi per evitare di dare alle stampe il libro, arrivando addirittura a pensare di bruciarlo. Dopo la composizione del quarto episodio il lavoro rimase incompiuto e fu pubblicato postumo nel 1975. Saba mette in atto un gioco a metà fra autobiografia e finzione, ripercorrendo le tappe dell’adolescenza di Ernesto, facilmente accostabile a quella vissuta dall’autore in prima persona. Il romanzo avrebbe dovuto seguire il protagonista fino allo scoppio della vocazione poetica, ma si interrompe prima. Non è certamente un caso il fatto che, durante la stesura di questo romanzo, lo scrittore triestino stesse rielaborando le sue Poesie dell’adolescenza. Se leggiamo Ernesto come una premessa al Canzoniere, o meglio, come un primo capitolo, scritto molti anni dopo, in cui l’autore racconta della scoperta della propria vocazione, è ovvio che le poesie che Saba stava rielaborando in quel periodo possano essere lette come se fossero versi scritti da Ernesto stesso. Purtroppo l’incompiutezza dell’opera non ha permesso di chiudere il cerchio. Con questo suo romanzo-testamento Saba mostra l’intento di ripercorrere la propria vita artistica a partire dagli esordi. L’età avanzata e la malattia rendono la morte

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sempre più vicina e aumentano la consapevolezza che l’opera in corso di scrittura sarà inevitabilmente l’ultima. Il giovane Ernesto rappresenta le fondamenta dell’intero immaginario dell’autore, dando voce a molti degli elementi portanti dell’universo sabiano. L’autore, ormai vecchio, confrontandosi con il proprio passato biografico e artistico, progetta le pagine dell’ultima opera. Saba scrive contro la morte, contro l’idea che presto tutto si annullerà, provando a lanciare un ultimo messaggio e a proporre un’ultima e inedita chiave di lettura del suo percorso artistico. Ernesto non è diventato un romanzo-testamento soltanto dopo la morte dello scrittore, ma la sua natura testamentaria era già chiara fin dalla stesura delle prime pagine.

Tra i quattro romanzi selezionati quello che esula maggiormente dalla definizione di romanzo-testamento è senza dubbio Il primo uomo di Albert Camus. L’autore infatti morì improvvisamente nel 1960, a soli quarantasette anni, dopo un brutto incidente stradale. A differenza degli altri casi analizzati, Camus non aveva assolutamente idea del fatto che questo romanzo sarebbe stata la sua ultima prova artistica. C’è da dire però che da molti anni era malato di tubercolosi, che al tempo era ancora considerata una malattia incurabile, quindi l’imminenza della morte non era una circostanza trascurabile, nonostante la giovane età. Sarà comunque interessante analizzare l’opera nella prospettiva in cui, anche se involontario, rappresenta il testamento di uno dei più grandi intellettuali del Novecento europeo. Con Il primo uomo Camus intendeva dare inizio alla terza fase della sua attività di intellettuale, dopo quelle dell’”assurdo” e della “rivolta”. Il nuovo ciclo doveva essere dedicato interamente all’amore ma, a causa della morte improvvisa, il progetto non fu portato a termine. L’opera, dunque, è una terza rinascita letteraria, un nuovo inizio che si è accidentalmente tramutato in fine troppo presto. Il romanzo, nonostante sia narrato in terza persona attraverso gli occhi di Jacques, è fortemente autobiografico. Il protagonista decide di tornare ad Algeri, suo luogo natale, per ritrovare il ricordo del padre, morto durante la prima guerra mondiale quando lui aveva soltanto un anno. Jacques allora è spinto a ripercorre la propria infanzia e adolescenza in terra africana, il passato torna di nuovo a vivere in maniera prorompente: la condizione di estrema povertà, l’assenza di un padre, la figura della mamma, la presenza della nonna, le amicizie, l’inizio della scuola fino alla passione per la letteratura. È il primo e unico testo di Camus che può essere ascritto esclusivamente alla categoria del romanzo e, non

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a caso, è anche la sua opera più personale e intima. È un romanzo-testamento del ritorno alle origini, del recupero di un passato che ha ancora molto da dire e tanti segreti da rivelare. L’autore francese saluta questo mondo lasciando nella sua borsa, ritrovata all’interno della macchina che lo consegnò alla morte, il manoscritto del Primo uomo, un’opera che per puro caso non è andata perduta e che, nonostante la sua incompiutezza, ci permette di comprendere meglio le origini e gli sviluppi del pensiero di uno dei più grandi intellettuali dell’età contemporanea.

Il rapporto dell’artista con l’ultima opera può essere contrastante. A volte capita che l’autore, perso l’iniziale furore creativo, cambi idea sul proprio progetto e decida di non voler dare alle stampe il suo lavoro. Saba, come abbiamo visto, dichiarò Ernesto impubblicabile e, preso dai rimorsi, espresse il desiderio di bruciarlo. Anche Virginia Woolf, dopo la stesura di Tra un atto e l’altro, iniziò a temere che l’opera fosse troppo frivola per essere pubblicata; nonostante ciò, prima di suicidarsi, non la distrusse ma la consegnò consapevolmente ai posteri. Un caso interessante è quello di Vladimir Nabokov che, sentendo la fine ormai vicina, pregò la moglie di distruggere le pagine sulle quali aveva iniziato a scrivere L’originale di Laura, nell’eventualità in cui non fosse riuscito a terminare l’opera prima della morte. La donna non rispettò la sua volontà e grazie all’impegno del figlio il romanzo divenne pubblico. Si tratta, dunque, di un testamento involontario, divulgato contro la volontà dello scrittore che non voleva farlo circolare incompiuto. L’originale di Laura è un’opera in fieri, discontinua e frammentaria, di difficile comprensione.

Il rapporto dell’autore con il suo romanzo-testamento è ovviamente una conseguenza della consapevolezza che questi ha della propria morte. Fra i quattro casi selezionati, Virginia Woolf e Umberto Saba sono gli unici due totalmente coscienti dell’imminenza della loro morte. Entrambi sanno che quella che stanno scrivendo sarà l’opera di congedo, l’ultima della loro carriera, quindi sarà senz’altro presente un forte intento riassuntivo, un desiderio di affidare una degna conclusione a un lungo percorso letterario. Albert Camus, ancora giovane, e Italo Svevo, nonostante la consapevolezza della propria vecchiaia, non mettono ancora in conto l’idea di morire. Il primo compie un percorso a ritroso per riscoprire le proprie origini; il secondo affronta l’ultimo periodo della vita senza timori, senza aspettarsi una fine imminente.

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La mia analisi, dunque, si articolerà in quattro parti distinte: il romanzo della vecchiaia di Svevo scritto in previsione della vita, l’opera corale di un mondo che sta per finire di Virginia Woolf, il romanzo della vocazione a scrivere contro la morte di Saba e l’autobiografia che tratta il ritorno alle origini scritta da Albert Camus.

Sarà interessante analizzare ognuno dei romanzi selezionati mettendo in risalto i diversi modi in cui gli autori si confrontano con l’ultima prova artistica, cercando quindi di scavare in profondità per far emergere l’estremo messaggio che si nasconde dietro ogni singola pagina.

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IL ROMANZO DELLA

VECCHIAIA SCRITTO IN PREVISIONE DELLA VITA

2.1 Dopo La coscienza di Zeno

Con La Coscienza di Zeno, romanzo pubblicato nel 1923, Italo Svevo ottenne quel successo e quegli apprezzamenti che erano mancati per i due romanzi precedenti, Una vita e Seniltà, pubblicati rispettivamente nel 1893 e nel 1898. A partire dal 1925, dopo una pausa di un paio d’anni, fino alla morte, che avvenne nel 1928, Svevo si dedicò attivamente alla scrittura di novelle e racconti, sperimentando nuove forme di narrazione. I vari protagonisti di ognuna di queste storie hanno una caratteristica in comune: l’età. Sono tutti nel pieno della vecchiaia, periodo che Svevo definisce selvaggio e che ormai si trova costretto a vivere in prima persona. Questi ultimi anni della sua carriera rappresentano una vera e propria rinascita, una seconda giovinezza originata da un nuovo modo di confrontarsi con la letteratura e da un maggiore entusiasmo creativo. L’autore, nonostante i suoi sessantacinque anni, fra alti e bassi, continua a dedicarsi alla scrittura e a parlare dei propri progetti all’interno di numerose lettere. Il 3 novembre 1925 scrive a Larbaud: “Io sono ora molto curioso di me stesso e vorrei saperne qualcosa prima di morire”19

. Questo desiderio di conoscenza e di indagine interiore spinge Svevo a comporre molte novelle delle quali spesso fa menzione nelle sue corrispondenze. Così, ad esempio, continua la lettera sopra citata: “Guardi! Io le invio qui acclusa la mia novella ma non ho più la lontana idea se contenga di quelle cose che di me La possono interessare. Molte cose io scrissi che poi distrussi sentendovi il vuoto io stesso. Faccia della novella quello che crede. Altro di pronto io non ho. Passai questi tre anni dalla pubblicazione del romanzo senza far

19

SVEVO Italo, Opera omnia, vol. I: Epistolario, a cura di Bruno Maier, Milano, Dall’Oglio, 1966, cit. p. 766.

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nulla”20

. Tra il 1925 e il 1926 Svevo si dedica alla stesura di L’avvenire dei ricordi, La novella del buon vecchio e della bella fanciulla, Corto viaggio sentimentale e Una burla riuscita. Sempre nella lettera a Larbaud Svevo afferma: “Incuorato dopo la mia prima visita a Parigi, cominciai a Londra una lunghissima novella Corto viaggio sentimentale. Ci penso continuamente. Ma poi, ritornato qui, non ci pensai più; sempre esitante se dovessi di nuovo rassegnarmi all’aritmia del mio violino. Io son fatto così e forse a quest’ora sono in parte disfatto e perdo l’equilibrio”21

. La stesura di questa novella fu ostacolata da molti dubbi e incertezze; Svevo stesso, preso dall’ansia di arrivare alla fine, la definì “una serpe lunghissima”. L’esitazione fu la protagonista dell’ultimo periodo dello scrittore triestino, il quale alternava continuamente momenti di negatività a periodi caratterizzati da una forte spinta creativa. Il 10 marzo 1926 scriveva a Montale: “Io sono per il momento nell’impossibilità assoluta di fare qualche cosa di presentabile. Prima di tutto dopo una lunga assenza ho molto da fare. Eppoi, in confidenza, a tavolino, non mi ritrovo più. Ho già tentato. Io temo che le molte lodi m’abbiano guastato. Sto sempre raccomandandomi: Bada che devi far bene. E per far bene bisognerebbe rifare la mia educazione”22. A questa scoraggiante inerzia, pochi giorni dopo, Svevo contrappone un insistente bisogno di scrivere: “Ho invece dei fantasmi che mi seccano ogni giorno per indurmi a scrivere. Ho persino steso qualche pagina. Ma il difficile a 65 anni non è di cominciare ma di finire. […] Nel mondo moderno i vecchi possono scrivere ma devono tacere”23.

Nei racconti di questi anni l’utilizzo della prima persona, che aveva dato a Svevo non pochi problemi, viene messo da parte. In una lettera a Montale lo scrittore dichiara l’intento di voler evitare questa tecnica narrativa nei suoi scritti futuri: “È vero che La coscienza è tutt’altra cosa dei romanzi precedenti. Ma pensi ch’è un’autobiografia e non la mia. Ci misi tre anni a trascriverla nei miei ritagli di tempo […] Sapevo la difficoltà di fare parlare il mio eroe direttamente in prima persona ma non la credevo insormontabile. […] Certo se avessi la fortuna di vivere sì a lungo da poter scrivere qualcosa d’altro, io non m’imbarcherei più in una simile avventura”24

. Nonostante queste affermazioni Svevo ritorna alla tecnica dell’io narrante con la novella Vino 20 Ibid. 21 Ibid. 22 Ivi, p. 787. 23 Ivi, p. 790. 24 Ibid.

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generoso e sempre la narrazione in prima persona sarà la caratteristica principale del progetto del quarto romanzo.

Le novelle, però, non ottennero il successo sperato e Svevo se ne rese conto quando il 15 marzo 1927 scrisse a Benjamin Crémieux: “Evidentemente le novelle non vanno. Apprendo dalla sua lettera che anche Vino generoso non fa per Commerce. Io credo sia chiaro che il vecchio uomo dovrebbe ora mettersi a dormire sugli allori […]. [Una burla riuscita] è veramente l’ultima cosa che feci […]. La feci e la rifeci ed è quello che è, né potrebbe essere da me migliorata. Invece Vino generoso è una roba molto vecchia. Io credo persino che Joyce l’abbia letta nel 1914. Appresi che il Commerce non sapeva che farsene della Burla e rifeci Vino generoso. Ma con qualche fretta. Perciò non vorrei tradurlo ancora. Ci penserò tenendo conto delle sue due osservazioni. Se non saprò fare altrimenti starà lì”25

. Dunque, dopo il parziale successo ottenuto con La coscienza di Zeno, Svevo torna a fare i conti con una critica che non riesce ad accogliere con entusiasmo le sue novelle. Nonostante ciò, l’attività di letterato continua ed è proprio in questo periodo che nasce l’idea della stesura di un quarto romanzo.

2.2 Il progetto del quarto romanzo

Dal momento che la composizione delle novelle lasciò Svevo insoddisfatto, ecco che, a distanza di pochi mesi, iniziò a dedicarsi a un nuovo progetto, quello del quarto romanzo. Il 16 maggio 1928 Svevo scrive a Cremieux: “Con improvvisa decisione, mi sono messo a fare un altro romanzo, Il vecchione, una continuazione di Zeno. Ne scrissi una ventina di pagine e mi diverto un mondo. Non ci sarà niente di male se non riuscirò a terminarlo. Intanto avrò riso di cuore una volta in più nella mia vita”26. L’autore

annuncia l’opera mettendo in conto anche la probabilità di non finirla, ma ciò che è importante è continuare a divertirsi con la letteratura. In questa prima fase di stesura Svevo non prende troppo sul serio il suo lavoro e riesce a sdrammatizzare il momento dell’ispirazione creativa. Riportare sulla scena il personaggio di Zeno è un atto coraggioso, un modo per rileggere sotto un diverso punto di vista questioni rimaste in

25

Ivi, p.839.

26

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sospeso nel romanzo precedente. Svevo non è totalmente consapevole che quello che si accinge a scrivere diventerà il suo romanzo-testamento, ma il carattere riassuntivo e l’intento di voler tirare le fila della propria carriera letteraria sembrano abbastanza evidenti, anche se inizialmente quest’ultimo confronto con la letteratura avviene “per divertimento”. Svevo propone l’immagine di uno Zeno invecchiato che si ritrova a vivere gli ultimi anni della sua vita con la consapevolezza di aver consegnato tutta l’irrequietezza del suo passato alla scrittura, fossilizzando così la propria immagine all’interno dell’autobiografia. Questi si rende conto di essere colui che ha scritto la propria vita e non colui che l’ha vissuta. Sempre in una lettera a Cremieux del maggio 1928 Svevo scrive: “Tempo fa in un momento di buon umore Zeno vegliardo stese una prefazione delle sue nuove memorie. Poi mi mancò la voglia di continuare”27

. Il 19 agosto dello stesso anno, rivolgendosi a Marie Anne Commène, moglie di Cremieux, afferma: “Lei mi domanda a che cosa io pensi. Vorrei fare un altro romanzo: Il Vegliardo, una continuazione di Zeno. Ne ho steso varii capitoli che però tutti devono essere rifatti. C’è un certo suono falso che vi si insinua. Che sia l’incapacità del vecchio? Se arrivassi a fare un capitolo che mi piaccia Glielo invierei”28. Il divertimento annunciato tre mesi prima è venuto a mancare per lasciare spazio a una crisi momentanea. L’opera sta assumendo dimensioni importanti e la preoccupazione su come procedere sembra essere il sentimento predominante. Per dare l’idea di un romanzo scritto di getto, come già aveva fatto credere per La coscienza di Zeno29, lo scrittore triestino non menziona mai i materiali preparatori che sono stati rinvenuti tra le sue carte; La rigenerazione, sicuro precedente del quarto romanzo, non viene mai nominata.

Purtroppo nel settembre del 1928 un brutto incidente stradale tolse la vita a Italo Svevo, che lasciò il quarto romanzo ancora in fase preparatoria e senza una conclusione definitiva. Ci sono giunte alcune pagine sparse e cinque testi compiuti: Un contratto, Le confessioni del vegliardo, Umbertino, Il mio ozio, Prefazione. Una lettura complessiva può darci soltanto una vaga idea di quale sarebbe potuto essere il risultato finale del progetto del Vegliardo se l’autore fosse riuscito a terminarlo. Montale fu il primo a 27 Ivi, p. 879. 28 Ivi, p. 888. 29

“Fu un attimo di forte, prepotente ispirazione. Non c’era possibilità di salvarsi. Bisognava fare quel romanzo”. Queste le parole di Svevo a proposito della Coscienza. Ma a Montale il 17 febbraio 1926 scrive: “Ci ho messo tre anni a scriverlo nei ritagli di tempo”.

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cogliere la loro unità, riconoscendo questi frammenti come parti nate per un tutto e non come novelle indipendenti. Gabriella Contini, all’interno del suo studio dedicato al quarto romanzo di Svevo sostiene che:

I “capitoli” del quarto romanzo costituiscono come per La coscienza i «blocchi» narrativi di base; ognuno è uno stadio della narrazione analizzabile e leggibile autonomamente, anche se stretto agli altri da evidenti rapporti, che sono da valutare di volta in volta; può esserci continuità, ripetizione, ma anche variazione, rettifica, competizione. Proprio l’apparente compiutezza di ciascun capitolo – un movimento si apre e si chiude, un equilibrio è messo in pericolo e ricostituito – ha generato l’illusione ottica del racconto.30

Se da una parte è indispensabile leggere i cinque frammenti come parti progettate per dare origine a un tutto, dall’altra è tuttavia impossibile cercare di ricostruire quel tutto che non è stato portato a compimento. Fabio Vittorini, curatore per l’edizione dei Meridiani Mondadori dell’apparato e del commento di queste ultime carte sveviane, afferma:

Nel sistema letterario di Svevo i cinque frammenti residui del suo ultimo progetto interrotto non possono dunque essere letti come tasselli di un mosaico ricostruibile, ma devono essere considerati come altrettanti esperimenti di scrittura, o meglio come tentativi di riprendere una scrittura già messa a punto in passato, di “continuarla” – ripetiamolo – assecondandone l’implicita infinibilità.31

Grazie alle lettere scritte da Svevo è possibile affermare con certezza che questi frammenti non sono novelle indipendenti, ma rappresentano la prima fase dello sviluppo di un unico progetto letterario, al quale però non è possibile risalire. Sarà dunque interessante analizzare queste pagine, anche se incompiute e provvisorie, per il fatto che cristallizzano l’ultimo messaggio di uno dei più grandi autori del Novecento italiano ed europeo.

30

CONTINI Gabriella, Il quarto romanzo di Svevo, Torino, Giulio Einaudi editore, 1980, cit. p. 16.

31

SVEVO Italo, Romanzi e “continuazioni”, edizione critica e commento di Nunzia Palmieri e Fabio Vittorini, a cura di Mario Lavagetto, collana “I Meridiani”, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 2004, cit. p. 1648.

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Il primo autografo che prese forma fu Un contratto, che probabilmente risale al maggio del 1928, quando Svevo per la prima volta iniziò a pensare a una possibile continuazione della Coscienza di Zeno, come scrisse nella lettera a Cremieux del 19 maggio di quell’anno. La voce narrante, in prima persona, è quella dell’ormai noto Zeno Cosini, nato nel 1857. Nella prima parte di questo capitolo il protagonista riassume gli avvenimenti delle ultime pagine della Coscienza per cercare di comprendere le ragioni della sua inerzia: i fortunati affari economici del periodo di guerra, gli enormi cambiamenti scaturiti dall’avvento della pace, il commercio del sapone, il rapporto con personaggi come Carlo, l’Olivi e Valentino, il marito della figlia Antonia. Tornato dal fronte, il figlio dell’Olivi riprende in mano le redini dell’azienda per cercare di rimetterla in piedi dopo i difficili anni della guerra. D’accordo con Valentino impone un contratto al vecchio Zeno e, una volta invertiti i ruoli di padrone e dipendente, quest’ultimo è costretto ad abbandonare la propria attività lavorativa. Zeno non perdonerà mai al genero Valentino l’intromissione nei propri affari. Questa esclusione dal lavoro sarà la causa principale dell’inerzia che affliggerà il protagonista. La faccenda del contratto si svolge nel 1920, quando Zeno ha 63 anni, quindi sette anni prima rispetto al 1927, il presente della scrittura. Le vicende di Un contratto furono però messe da parte dall’autore, che decise di intraprendere una strada diversa, più distante e meno dipendente rispetto al romanzo precedente.

Dopo poco tempo si dedicò alla stesura del “capitolo” intitolato Le confessioni del vegliardo, seguito da Umbertino e dalla prima parte del Mio ozio. All’interno delle Confessioni, anche se i fatti narrati sono più o meno gli stessi, viene meno quella linearità di narrazione che caratterizzava Un contratto per lasciare spazio a una maggiore frammentarietà e complicazione delle vicende. Con Le confessioni del vegliardo Zeno riprende la narrazione diaristica, come nell’ultimo capitolo della Coscienza. Inoltre rilegge la sua vecchia autobiografia, all’interno della quale fu fissata una parte della sua vita che ha acquistato importanza solo per il fatto che è stata letteraturizzata. In questo frammento il narratore annota alcuni episodi del suo presente, concentrandosi in particolare sul difficile rapporto con il figlio Alfio e su quello con la figlia Antonia, che deve affrontare il terribile lutto per la perdita del marito Valentino. Umbertino narra l’affetto che Zeno prova per il nipotino, grazie al quale riscopre il mondo e riesce a osservare la realtà con occhi nuovi. Leggendo le pagine del Mio ozio

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capiamo che Zeno non si è mai sottoposto all’operazione di ringiovanimento32

, come invece ci aveva fatto intendere in precedenza. L’inerzia dura ormai da otto anni e il protagonista cerca di combatterla in ogni modo. A questo proposito viene rievocato un episodio avvenuto tre anni prima rispetto al tempo della scrittura; Zeno, esclusa l’ipotesi dell’operazione, sostituisce questo tentativo di tornare nuovamente giovane con la frequentazione di un’amante, Felicita. Da questo momento in poi il vegliardo cercherà di ingannare Madre natura guardando ragazze nel pieno della giovinezza, ma il pensiero della morte non lo abbandonerà mai più.

Il quinto frammento, Prefazione, composto da Svevo poco prima di morire, è un nuovo inizio del romanzo. Per un momento l’inerzia del protagonista è interrotta dall’apparizione di una giovane ragazza, che Zeno scambierà per la figlia del vecchio Dondi, senza pensare però che anch’essa, sua coetanea, sarà diventata inevitabilmente vecchia. Il vegliardo vive all’interno di una dimensione temporale mista, intrappolato fra presente e passato, ma senza la prospettiva di un futuro; l’unico mezzo di fuga a lui concesso è la scrittura alla quale Zeno ricorre per cercare di comprendere meglio la propria età, dove non hanno più alcuna importanza gli eventi e a nessuno è più possibile essere il giovane che è stato. Ne consegue che l’unico rimedio che davvero può funzionare contro l’inerzia è l’esercizio continuo della scrittura.

2.3 Caratteristiche del romanzo-testamento sveviano

Dopo un inquadramento generale delle ultime pagine sveviane è il momento di passare all’argomento centrale del mio studio: in che misura si può parlare di romanzo-testamento per quanto riguarda il progetto del quarto romanzo? Quali sono le caratteristiche principali che lo accomunano ad altre opere scritte poco prima di morire da altri autori?

Come abbiamo visto nelle pagine introduttive di questo studio una caratteristica che ritroviamo in ogni romanzo-testamento è il richiamo autobiografico da parte dello

32

Svevo aveva trattato il tema dell’operazione Voronoff in una commedia del 1926, La rigenerazione. Giovanni Chierici, protagonista della storia, incapace di accettare i canoni imposti dalla società a un individuo che ha ormai raggiunto un’età avanzata e insofferente ai rigidi codici della vita domestica decide di sottoporsi a una rischiosa operazione di ringiovanimento, la stessa desiderata da Zeno vegliardo.

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scrittore che, giunto in età avanzata e raggiunta una maggiore consapevolezza di sé, riesce a osservare con più maturità la propria vita. In questi frammenti la componente autobiografica è di fondamentale importanza, dal momento che è proprio grazie a essa che Svevo riesce a costruire il personaggio di Zeno vegliardo. Al momento della scrittura Svevo ha sessantacinque anni, quindi sfrutta la sua età, come già aveva fatto per le novelle composte in questo periodo, per affidare credibilità e veridicità al nuovo Zeno. Lo scrittore attribuisce al proprio personaggio la propria età biografica in modo tale da semplificare e rendere più immediata la caratterizzazione del protagonista. La vecchiaia è un periodo molto particolare della vita, una fase di grandi cambiamenti che portano l’individuo a confrontarsi prima con se stesso e in seguito con il mondo circostante. Alcuni autori reagiscono alla consapevolezza di essere giunti al tempo ultimo della loro vita ripiegandosi con nostalgia verso il passato, verso il mondo della loro gioventù ormai morto per sempre. Altri, invece, come nel caso di Svevo, cercano di esaminare la loro condizione presente e provano a ritrovare l’ardore perduto non affidandosi ingenuamente a un ricordo nostalgico dei tempi andati, ma cercando un barlume di giovinezza e di vitalità in mezzo al torpore della vecchiaia. La senilità di Zeno è tutt’altro che tranquilla, non è il periodo della raggiunta serenità e del riposo, ma è una fase piena di contraddizioni, turbolenze e passioni. Mario Lavagetto afferma:

E la vecchiaia, per Svevo, è un’età “selvaggia”, intemperante, priva di riserve, “chiacchierona, melanconica e civettuola” come appariva a Proust, e tuttavia pronta a giocare l’ultima mano con intatti appetiti e con una sorta di impenetrabile, enigmatica crudeltà, diffusa e onnipresente negli “inferi domestici” di cui ha parlato Claudio Magris.33

Svevo è invecchiato insieme al proprio personaggio, che non rappresenta più l’inetto a vivere, ma diventa l’individuo per eccellenza, colui che, suo malgrado, viene escluso dalla vita in società e non è più adatto ad affrontare una normale quotidianità. Claudio Magris scrive:

La vecchiaia non è più il volto dell’inettitudine bensì della vita stessa, è il baluardo che origina l’inettitudine o almeno la guerriglia che la tiene in iscacco,

33

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dissimulandola e trasformandola in un’arma nella lotta per sopravvivere.”La vita del vecchio, – scrive Svevo, – è veramente selvaggia”. La vecchiaia è selvaggia perché è la pausa, è la vita – dice Svevo – privata soltanto di ciò che mai essa ebbe e cioè del futuro e quindi ridotta a puro presente, a intervallo lucido e disimpegnato, a ozio svuotato di doveri e significati. Non a caso il vecchio protagonista-narratore degli ultimi racconti ne dedica uno al “mio ozio”. […] Fra tutti gli uomini vinti ed esclusi dalla vita vera, solo il vecchio ha diritto di portare apertamente la propria sconfitta e di trincerarsi dietro l’emarginazione vitale.34

L’inerzia del vecchio è una condizione inevitabile; dunque l’individuo, raggiunta questa fase della vita, non osserva la propria situazione come se fosse un fallimento personale, ma come una necessità dovuta al tempo che passa, un’intrinseca parte dell’esistenza di ogni uomo. Come scrive Magris “il vecchio è un uomo vero perché sa di essere fuori posto: è dignitoso, lascivo, ridicolo, gretto, smarrito”35

. In un frammento scritto da Svevo, che Giancarlo Mazzaccurati ha collegato al progetto del quarto romanzo, leggiamo:

Se a questo mondo non ci fossero dei vegliardi sarebbe impossibile d’immaginare che dalla faccia rosea del bambino esprimente una vita ancora informe, possa evolversi quella cartapecora dura ch’è la pallida faccia del vegliardo, tutta linee tratte dalla vita nel lungo tempo una dopo l’altra, senza riguardo all’armonia, delle quali qualcuna può significare pensiero, magari doloroso pensiero, altre il dolore stesso della carne che si rattrappisce o si tende, perché denutrita o sovra nutrita, tante cicatrici che cancellano le linee originali a meno che per essere fatte dello stesso materiale, non ne producano la caricatura.

Accettare la condizione senile significa intraprendere la carriera del vegliardo, come si definisce Zeno stesso. Gabriella Contini insiste sul significato di questo vocabolo:

“Vegliardo” sottolinea una condizione umana che va oltre la vecchiaia, un territorio del tempo dove si procede a tentoni, perché regole e leggi che non esistono devono essere inventate a fatica dai pochi avventurati che vi giungono.36

34

MAGRIS Claudio, La scrittura e la vecchiaia selvaggia: Italo Svevo in “L’anello di Clarisse. Grande stile e nichilismo nella letteratura moderna”, Torino, Einaudi, 1984, cit. p. 198.

35

Ivi, p. 209.

36

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