I modelli empirici di riferimento
3.2 Struttura finanziaria e scelte strategiche di diversificazione nel contesto italiano
Un'altra tematica connessa a quelle già enunciate in precedenza è quella che indaga il legame esistente tra la struttura finanziaria di un’impresa e le scelte strategiche di diversificazione della stessa, in particolar modo per le implicazioni di business per il management e per gli stakeholders.
L’analisi che ne deriva si propone dunque di valutare la capacità dei titoli di debito e di equity di influenzare l’attività del management (Cariola, La Rocca, 2006).
Alcune formulazioni teoriche riconducibili al filone di studi relativo alle determinanti della struttura finanziaria spiegano l’influenza della diversificazione sulle scelte connesse alla struttura del capitale; altri lavori riconducibili agli studi sulle determinanti delle scelte di diversificazione, mostrano l’influenza delle politiche di finanziamento su quest’ultima. A prescindere dal particolare filone di ricerca prescelto appare evidente il legame esistente tra le suddette variabili, mentre risulta semmai meno chiara la direzione di causalità.
Date queste considerazioni, l’obiettivo è quello di indagare la relazione causa effetto esistente tra questi due costrutti, cercando di capire se la diversificazione sia la causa e la struttura finanziaria l’effetto, o viceversa.
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In particolare, un’impresa diversificata potrebbe ridurre l’indebitamento per sfruttare un mercato dei capitali interno, oppure potrebbe aumentare il debito per far leva su una maggiore stabilità dei flussi di cassa in ragione della riduzione del rischio di specificità del business, o ancora, un’impresa molto indebitata potrebbe intraprendere una strategia di diversificazione finalizzata a ridurre il rischio di dissesto, oppure potrebbe cercare di concentrarsi su un certo core business, specializzando le risorse. Ne deriva una relazione bidirezionale che porta ad analizzare quelle che sono le reciproche influenze.
Parlando di diversificazione è inoltre opportuno distinguere i concetti di diversificazione related e unrelated (Rumelt, 1974). Con la prima definizione si intende lo sviluppo di una nuova attività che presenta affinità dal punto di vista tecnologico-produttivo e/o di mercato con quelle preesistenti, alle quali si affianca, con la conseguente condivisione di risorse e competenze presenti nell’impresa e non saturate. Maggiore è il grado di correlazione tra i business, tanto più l’impresa ha l’opportunità di sfruttare sinergie e complementarietà che possono derivare dai collegamenti realizzabili in termini di risorse e processi.
La diversificazione unrelated invece fa riferimento all’entrata in nuovi settori le cui relazioni di natura tecnologico-produttiva e/o di mercato risultano minime, se non addirittura nulle, con le attività originariamente svolte. Attraverso tale strategia si cerca di stabilizzare i flussi di cassa dell’impresa e il rendimento aziendale, oppure ridurre il rischio di dissesto, senza alcuna attenzione alle sinergie di tipo industriale. I principali modelli teorici che indagano il ruolo della diversificazione quale fattore determinante le scelte della struttura finanziaria fanno riferimento al coinsurance
effect, alla teoria dei costi di transazione e alla teoria dell’agenzia (nello specifico la free cash flow theory di Jensen e Meckling).
L’effetto coinsurance interpreta la relazione fra diversificazione e leverage in base all’esistenza di sinergie finanziarie, guardando alla combinazione di flussi provenienti da business differenti e non perfettamente correlati ed al conseguente
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effetto di pooling che ne deriva, tale per cui il rischio congiunto è inferiore rispetto al rischio connesso alla somma dei flussi.
In accordo a tale visione le imprese, grazie ad un rischio di dissesto ridotto, dovrebbero essere in grado di aumentare la propensione dei finanziatori a concedere fondi, innescando un aumento del leverage. All’opposto imprese mono-business, o imprese con una diversificazione related, presentano secondo questa prospettiva un rischio specifico più elevato e dunque livelli di debito inferiori. In questo caso l’ipotesi di ricerca da verificare è che la diversificazione, in particolare modo quella
unrelated, eserciti un’influenza positiva sul leverage.
Per la teoria dei costi di transazione, che vede l’impresa come strumento di governo delle transazioni economiche, la combinazione debito/equity varia in relazione al grado di specificità delle risorse disponibili nell’impresa. L’influenza della diversificazione viene considerata in basa alla natura delle risorse, specifiche o generiche, e al connesso valore in caso di dissesto. Infatti un asset specifico, idiosincratico per il business dell’impresa, comporta un legame che rende il valore massimo per l’impresa e minimo sul mercato. Tali risorse appaiono dunque come illiquide ed in particolare si osserva che quanto più le risorse sono specifiche, ovvero rare, imperfettamente imitabili e a bassa sostituibilità, tanto maggiore sarà la probabilità che l’impresa attui una diversificazione related. Tuttavia imprese con
asset di questo tipo avranno difficoltà a ricorrere al debito, dato che i creditori sanno
che in caso di liquidazione la capacità di restituzione del capitale attraverso la cessione degli asset sarà ridotta. Al contrario, imprese che propendono per una diversificazione unrelated dovrebbero avere ancora una volta l’opportunità di liquidare con maggiore facilità i propri asset.
L’ipotesi di ricerca che ne deriva è che la diversificazione related esercita un’influenza negativa sul leverage, mentre quella unrelated esercita un’influenza positiva. Questa teoria si presta tuttavia anche ad essere letta nel senso opposto, guardando alle determinanti della diversificazione, ossia all’influenza del leverage sulle scelte di diversificazione. In particolare, un’impresa high-levered, data la
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presenza di impegni e scadenze vincolanti, non sarà propensa ad attuare una diversificazione related con conseguente incremento di risorse specifiche ma preferirà piuttosto intraprendere una diversificazione unrelated, sfruttando i benefici derivanti da risorse generiche e aumentando la capacità della gestione operativa di generare flussi di cassa in grado di ripagare il debito.
Ne derivano ulteriori ipotesi di ricerca, ossia che il leverage sia legato negativamente alla diversificazione related e in particolare eserciti un’influenza positiva su quella unrelated.
Tali ipotesi indagando la relazione nel senso opposto risultano complementari alle due viste in precedenza, dato che pur invertendo il nesso causa effetto il segno del legame rimane invariato.
Infine, come già spiegato in precedenza, la teoria dei costi di agenzia di Jensen evidenzia il ruolo del debito come strumento di disciplina del management nelle politiche di investimento. L’indebitamento infatti viene visto come strumento per vincolare i manager, obbligandoli ad intraprendere progetti in grado di generare un ritorno sufficiente a far fronte al servizio del debito, riducendo le inefficienze. In particolare, dato che i manager sono interessati ad aspetti quali l’autostima, la remunerazione, i benefici privati, le scelte di diversificazione potrebbero essere legate a comportamenti opportunistici, atti ad accrescere il potere ed il prestigio o a salvaguardare il posto di lavoro.
Secondo questa visione strategie di diversificazione unrelated minimizzando la volatilità dei flussi tutelano la sicurezza del posto di lavoro. A partire da questi aspetti è allora possibile affermare che il leverage influenza negativamente la diversificazione e che, in particolare, il leverage esercita una significativa influenza negativa su quella di tipo unrelated.
La relazione può anche in questo caso essere letta nella direzione opposta con differenti prospettive. Assumendo che gli stakeholders aziendali abbiano la capacità di influenzare l’attività e le scelte dei manager, un aumento della diversificazione, soprattutto unrelated, nel timore di comportamenti opportunistici, potrebbe condurre
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ad un aumento del debito, per cui potrebbe emergere un legame positivo tra diversificazione e leverage.
Al contrario, assumendo che il management goda di piena discrezionalità ed abbia un ruolo attivo nelle scelte strategiche è lecito attendersi che non venga emesso debito, in modo da non limitare il potere decisionale. In tal caso ci si attende che la diversificazione influenzi negativamente il leverage.
Per la verifica di tutte le ipotesi considerate viene fatto ricorso (Cariola, La Rocca, 2006) a due differenti modelli, denominati A e B, realizzati attraverso la tecnica di regressione lineare OLS (Ordinary Least Square).
Il modello A analizza le determinanti della struttura finanziaria, ossia l’influenza della diversificazione sul leverage e presenta la seguente formulazione:
Leverage = f (diversificazione, redditività, size, tangibility, growth, rischio, conc.prop.)
Il modello B analizza le determinanti della diversificazione, ossia l’influenza del
leverage sulla diversificazione, secondo la seguente formulazione:
Diversificazione = f (leverage, redditività, size, growth, tangibility, rischio, conc.prop.)
L’analisi viene condotta guardando all’esperienza italiana nel periodo 1980-2000, e concentrando l’attenzione prima sul campione nel suo complesso, composto di 150 imprese e gruppi aziendali di grandi dimensioni, e successivamente sulle sole imprese quotate, 31.
Complessivamente si tratta di 1716 osservazioni, di cui 568 relative a quelle quotate. Nella definizione del campione sono state escluse imprese finanziarie e assicurative, oltre a quelle coinvolte in vicende straordinarie alla normale gestione, ad esempio Parmalat.
Dai dati emerge una stabilità nel campione nei vari anni, non si registrano infatti scostamenti rilevanti dalla media di 82 osservazioni l’anno, 27 per le quotate.
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Tabella 19: Il campione oggetto d’analisi
Fonte: Cariola, La Rocca, Struttura finanziaria e scelte strategiche di diversificazione, 2006
Nella definizione della variabile diversificazione si cerca tipicamente di riflettere il grado di diversità aziendale e la correlazione tra vari business aziendali, applicando due criteri differenti: il primo, soggettivo, considera le specificità strategico- manageriali, facendo riferimento ad affinità tecnologiche, produttive e distributive, e fa riferimento al concetto di settore di appartenenza; il secondo, oggettivo, fa riferimento a sistemi numerici utilizzati per il calcolo di indici quantitativi espressivi del grado di diversificazione e richiama i codici SIC (standard industrial codes) per la classificazione delle attività economiche.
In alcuni casi attività che in termini di classificazione oggettiva rientravano nella classificazione di diversificazione unrelated sono state invece incluse nella categoria
related; questo è avvenuto nel caso di interdipendenze in merito alle tecnologie dei
processi, ai materiali di approvvigionamento o al tipo di bisogno soddisfatto (ossia stessa funzione d’uso).
In ogni caso, sebbene tra i due approcci vi sia una significativa convergenza, è opportuno precisare che potrebbero esistere ugualmente problemi nella determinazione e misurazione di conoscenze tacite così come potrebbero esserci correlazioni strategiche tra business non chiaramente percepibili nel momento in cui si effettua un’analisi dall’esterno.
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Con la consapevolezza di queste limitazioni l’analisi svolta dagli autori viene condotta attraverso l’utilizzo di cinque indicatori, due di Rumelt e tre di entropia. In particolare lo specialization ratio di Rumelt indica il grado di focalizzazione, reciproco del livello di diversificazione, dato dalla quota di fatturato attribuibile al business di maggiori dimensioni. Il related ratio di Rumelt invece effettua la distinzione in base al tipo di diversificazione, considerando la quota di fatturato totale attribuibile al gruppo più grande di attività related.
Gli indici di entropia considerano il numero di segmenti in cui l’impresa opera, la distribuzione del fatturato e il livello di relatedness, determinando quanta parte della diversificazione totale di un’impresa è correlata e quanta no.
Per quanto riguarda la struttura finanziaria invece la variabile che concettualizza in termini formali questo costrutto è data dal grado d’indebitamento. Come osservato in precedenza è possibile considerare differenti definizioni di leverage, ognuna delle quali concentra l’attenzione su componenti parzialmente diverse tra loro. Nel lavoro di Cariola e La Rocca il leverage è definito come rapporto tra debiti finanziari e debiti finanziari più equity, formulazione che dovrebbe permettere di rilevare il peso dell’esposizione effettivamente onerosa verso terzi.
Per le restanti variabili di controllo si fa riferimento al ROA (espresso come Reddito Operativo / Tot. Attivo) per quanto riguarda la redditività, al logaritmo naturale del totale dell’attivo per quel che concerne la dimensione ed al rapporto tra attività materiali e totale dell’attivo come misura della tangibilità.
Per tener conto del peso degli asset proprietari viene inserita la variabile concentrazione proprietaria che definisce la percentuale di azioni in possesso del primo azionista.
Come indice delle opportunità di crescita viene presa in considerazione la variazione percentuale del fatturato per il campione di dati nel complesso, mentre si fa riferimento al rapporto tra valore di mercato dell’impresa e valore contabile (market
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Come indicatore della rischiosità aziendale si usa la leva operativa, quale rapporto tra la variazione percentuale del reddito operativo e la variazione percentuale del fatturato, per il campione totale, e la variazione tra il prezzo minimo e quello massimo normalizzato per il prezzo medio nell’anno per quelle quotate.
Infine viene introdotta una variabile dummy utile a tener conto di eventuali specificità riferite ad un certo anno.
Fatte queste considerazioni ed identificate le problematiche che possono sorgere nel dover individuare il tipo di differenziazione è possibile procedere nel calcolo degli indici nel periodo di riferimento (tabella 20 e 21).
Dai dati è possibile osservare come il leverage a valori contabili diminuisca negli anni Novanta rispetto all’inizio degli anni Ottanta, con una riduzione più marcata per le imprese quotate.
Il campione complessivo evidenzia poi un minore orientamento delle imprese verso le strategie di diversificazione, ed un aumento della deviazione standard riferita alla diversificazione related, sintomo dell’attuazione di comportamenti più variegati con il passaggio verso gli anni Novanta.
Questo perché negli anni Novanta si è assistito ad un mutamento nelle scelte strategiche delle imprese, che in termini generali hanno deciso di optare per strategie di rifocalizzazione, concentrandosi sul core business. Le imprese quotate nello specifico hanno invece mostrato interesse verso processi di diversificazione
unrelated, atti a sfruttare le sinergie finanziarie, i benefici fiscali e stabilizzare i
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Tabella 20: Indici di Rumelt e di Entropia
Fonte: Cariola, La Rocca, Struttura finanziaria e scelte strategiche di diversificazione, 2006
Tabella 21: Indicazioni complessive
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Distinguendo poi tra imprese high-levered e low-levered, secondo la soglia stabilita dal primo e terzo quartile, è possibile osservare come nelle imprese quotate i valori assunti dagli indici di diversificazione siano superiori rispetto ai valori degli stessi indici nel campione completo. Per cui le imprese quotate sembrano adottare in misura maggiore strategie di diversificazione, spostandosi da strategie related a strategie unrelated all’aumentare del livello di indebitamento.
Tabella 22: imprese high levered e low levered
Fonte: Cariola, La Rocca, Struttura finanziaria e scelte strategiche di diversificazione, 2006
Infine, guardando alla statistica descrittiva delle variabili del modello emerge per quanto riguarda il leverage una distribuzione simmetrica dei valori, sia a livello complessivo che in relazione alle imprese quotate, con i valori di media e mediana molto vicini tra loro, mentre una marcata asimmetria si registra con riferimento agli indici di diversificazione e di entropia nello specifico.
Fatte queste considerazioni è opportuno osservare la significatività della relazione guardando ai risultati del modello econometrico inerente l’analisi delle determinanti del leverage, espressi nelle tabelle seguenti.
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Tabella 23: Determinanti della struttura finanziaria
Fonte: Cariola, La Rocca, Struttura finanziaria e scelte strategiche di diversificazione, 2006
Tabella 24: Determinanti della scelte di diversificazione
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L’analisi della prima tabella, quella attinente le determinanti della struttura finanziaria, evidenzia una superiore bontà statistica, sia in termini di capacità di spiegare le variazioni del grado d’indebitamento (R2), sia riguardo a problemi di autocorrelazione dei residui (indice di Durbin-Watson).
Con riferimento ai risultati emerge una prevalente influenza negativa della diversificazione sul leverage, per cui le imprese che diversificano sembrano promuovere un minor uso di debito nella struttura finanziaria.
Solo considerando le imprese quotate appare un maggior ricorso al debito, necessario a finanziarie scelte di conglomerazione, ossia di diversificazione
unrelated.
Per quanto riguarda le determinanti delle scelte di diversificazione si nota un’influenza negativa del leverage sulla diversificazione produttiva, sia essa related o unrelated, sintomo che un aumento del debito nella struttura finanziaria diminuisce la disponibilità di risorse impiegabili in processi di sviluppo dimensionale.
Infine, si evidenzia un legame significativo della variabile dummy, per cui i processi di diversificazione sembrano seguire una certa ciclicità, mostrando una consistente riduzione nel passaggio dagli anni Ottanta ai Novanta.
In relazione alle ipotesi di ricerca delle determinanti della struttura finanziaria si riscontra la validità dell’ipotesi secondo cui la diversificazione unrelated esercita un’influenza positiva sul leverage quando si fa riferimento ai valori di mercato, associata alla teoria dei costi di transazione, al coinsurance effect e alla teoria dell’agenzia, qualora si assuma che gli stakeholders abbiano influenza sul management.
Con riferimento al campione complessivo si evidenzia inoltre la validità dell’ipotesi secondo cui la diversificazione impatta in maniera negativa sul leverage, così come dell’ipotesi in accordo alla quale la diversificazione unrelated influenza negativamente il leverage, in caso di piena discrezionalità del management.
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Per quanto riguarda le ipotesi di ricerca attinenti alle determinanti della diversificazione è possibile osservare un riscontro empirico, piuttosto forte nel caso di imprese quotate, dell’ipotesi secondo cui il leverage influenza negativamente la diversificazione, soprattutto quella related, così come è possibile osservare un impatto positivo del leverage sulla diversificazione unrelated per il campione di imprese quotate.
In conclusione è dunque opportuno sottolineare come in relazione alle determinanti delle scelte di diversificazione, con riferimento al caso italiano analizzato nello studio di Cariola, La Rocca (2006), il debito sia visto in Italia come causa di problemi di asimmetria informativa e di un maggiore rischio di dissesto, che rendono più difficoltoso lo sviluppo dimensionale. In tale prospettiva, la struttura finanziaria diventa strumento di corporate governance, utile a selezionare le scelte di diversificazione più profittevoli, riducendo le opportunità di lancio di strategie non in grado di creare valore. Questo riscontro, emerso nei dati sia a livello complessivo che di sole imprese quotate, supporta quanto descritto dalla teoria dell’agenzia di Jensen e da quella dei costi di transazione.
Per quanto riguarda i risultati in termini di influenza delle scelte di diversificazione sul leverage non vi è invece una grande univocità. Infatti, nel caso in cui si faccia riferimento alle imprese non quotate, le scelte di diversificazione sembrano essere valutate negativamente da investitori e banche, che le considerano come value-
destroying strategy, aumentando il costo delle fonti di finanziamento, pronosticando
problemi di gestione e di governo aziendale, così come predetto dalla teoria dell’agenzia.
Alle sole società quotate si può invece attribuire la logica relativa al coinsurance, in quanto queste imprese sembrano utilizzare maggiormente il debito a seguito di scelte di diversificazione unrelated. In particolare in quest’ultimo caso la funzione di disciplina del debito andrebbe perdendosi, venendo rimpiazzata dal controllo effettuato sul management dai mercati finanziari.
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Infine l’influenza della diversificazione sul leverage sembra mutare in funzione del differente contesto istituzionale in cui si trovano a operare le imprese, evidenziando dunque l’importanza che il concetto di path dependance può assumere con riferimento alle questioni qui analizzate.
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CONCLUSIONI
Nel seguente elaborato, attraverso l’esposizione dei teoremi di Modigliani-Miller (1958), è stata osservata l’apparente irrilevanza nella scelta della struttura finanziaria da parte delle imprese ed è emersa l’importanza del lato sinistro del documento di bilancio, con riferimento alla capacità dell’azienda di generare adeguati flussi di cassa dai propri investimenti. In particolare, con questi teoremi, si è evidenziata da un lato una direzionalità del legame relativo al costo del capitale proprio e a quello del debito di segno opposto e di eguale intensità, che ha portato a concludere per la costanza del costo medio ponderato del capitale, e dall’altro la mancata importanza della politica dei dividendi con riferimento alla capacità di creazione di valore dell’impresa.
La discussione è poi proseguita in relazione alle ipotesi alla base del modello, tra le quali è possibile citare la prescrizione di un comportamento razionale da parte di tutti gli investitori, la completa trasparenza del mercato, l’assenza di costi di transazione e la neutralità delle imposte come esempi di quelle maggiormente restrittive. A riguardo è possibile osservare con riferimento alla prima di esse, come gli investitori, nelle loro decisioni, risultino affetti da bias (es. over-confidence o avversione alle perdite) e seguano principi non necessariamente razionali dando adito a quel filone della letteratura noto come “finanza comportamentale”, o ancora,