I modelli empirici di riferimento
3.0 Lo studio del leverage delle imprese
Attraverso l’analisi dei dati storici, con riferimento alla struttura del capitale, è possibile osservare come l’investimento lordo negli Stati uniti nel corso della seconda metà del Novecento sia derivato dalla capacità di generare flussi di cassa interni, mediante le svalutazioni o la trattenuta di utili, con un impatto complessivo residuo del debito che in media si attesta intorno al 20%.
L’analisi dei tassi relativi al debito è inoltre differente in relazione alle caratteristiche del settore e alle dimensioni d’impresa. Per cui, le grandi compagnie petrolifere hanno largamente fatto ricorso al debito, così come quelle operanti nel settore chimico, dei trasporti o delle telecomunicazioni. Exxon, ad esempio, a partire dalla metà degli anni ’80, ha speso 29 miliardi per la riacquisizione delle sue azioni e fatto massiccio ricorso al debito per attivare il processo che ha portato alla fusione con Mobil nel 1999. Al contrario, le maggiori compagnie farmaceutiche hanno operato con debt ratios negativi, dunque da net lenders, così come avviene per aziende dall’elevato potenziale di crescita, quali Microsoft o -in passato- Ford, o aziende aventi prevalentemente asset intangibili, per esempio Procter & Gamble. Quello che sembra emergere è dunque una correlazione tra il livello di debito e la rischiosità del business/potenziale di crescita e tangibilità degli asset. Infatti, nel caso di aziende caratterizzate da elevata profittabilità, con associato un alto rischio d’impresa, o nel caso di aziende legate al marketing ed aventi prevalentemente asset intangibili, si evidenzia un tasso relativo al debito piuttosto basso, talvolta anche negativo.
In particolare l’analisi dei valori mediani relativi al debt to capital ratio (tabella 7), guardando ai dati contabili e a quelli di mercato per imprese provenienti da differenti paesi, sembra confermare le argomentazioni espresse, suggerendo una
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sorta di correlazione nei valori, che stride con l’irrilevanza della struttura finanziaria predetta da Modigliani-Miller, secondo la quale i dati relativi al rapporto debito/equity sarebbero dovuti essere piuttosto casuali.
Uno dei lavori più noti in letteratura, che analizza nel dettaglio tale questione, è quello di Rajan e Zingales (1995), basato sulla valutazione del leverage di imprese quotate non finanziarie su un campione di dati internazionali provenienti da sette differenti paesi raccolti nel database GlobalVantage, con riferimento al periodo 1982-1991.
Il campione di dati finale copre complessivamente una percentuale pari al 30-70% delle compagnie quotate in ciascun paese considerato e rappresenta più del 50% del valore della capitalizzazione del mercato di riferimento.
Tabella 7: valori mediani del debt to capital ratio
Fonte: Rajan, Zingales, What Do We Know about Capital Structure?
Some Evidence from International Data, 1995
Nell’analisi dei dati gli autori hanno deciso di concentrarsi sul campione d’imprese quotate, sebbene essi stessi ammettano questo aspetto come potenziale fonte di errore sistematico con riferimento al modello dichiarando che “it is hard to establish
beyond doubt wheter the tip of the iceberg is representative of the larger mass hidden below” - pp.1424.
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Ulteriore aspetto da prendere in considerazione con riferimento ai potenziali errori nella valutazione di un campione di dati è la dimensione d’impresa, che può essere differente in relazione al contesto economico di riferimento.
Per indagare il livello di omogeneità dei dati le imprese sono state ordinate in decili in base al valore di mercato degli asset alla fine del 1991.
Tabella 8: dimensione delle imprese oggetto d’analisi Fonte: Rajan, Zingales, What Do We Know about Capital Structure?
Some Evidence from International Data, 1995
Dalla tabella emerge come, eccezion fatta per il Giappone, il quale ha più del 97% delle imprese oltre la mediana, la distribuzione dei dati sia piuttosto omogenea, concentrata in maniera simile nei decili cinque e sei.
Prima di dedicare la trattazione al concetto di leverage è opportuno notare un’ultima potenziale fonte di differenze nei valori, ossia quella derivante dalle pratiche contabili, per cui ad esempio nella valutazione degli asset in Germania si tende ad avere un principio ispiratore piuttosto conservativo, differente dal principio del fair
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value, ed analogamente nel bilancio negli Usa e nel Regno Unito si ha la
contabilizzazione dei leasing finanziari, diversamente da quanto avviene in Giappone.
In ogni caso queste differenze possono essere facilmente risolte ed assumono minore peso a seconda del tipo di rapporto che si vuole analizzare. Nel termine leverage, infatti, possono essere incluse diverse definizioni in base a quelli che sono gli obiettivi dell’analisi. Ad esempio nei modelli di agenzia associati al debito - come nei modelli di Myers (1984) o Jensen (1976) - la questione principale risiede nella quantità di debito accumulata nel passato, e pertanto una definizione di leverage opportuna potrebbe essere quella che considera il rapporto tra lo stock di debito e il valore dell’impresa. In altri modelli ancora - ad esempio Aghion e Bolton (1992) - l’enfasi è sul trasferimento del controllo quando l’impresa è in una situazione di crisi, dunque il debito in questo caso è espresso come un concetto di flusso e non di stock ed il problema rilevante è la capacità dell’azienda di far fronte alle obbligazioni prestabilite. In quest’ultima circostanza una misura di leverage opportuna potrebbe essere data ad esempio dall’interest coverage ratio.
In termini generali è dunque possibile fare riferimento al leverage come al rapporto tra asset e liabilities complessivamente intesi (nella circostanza specifica tale valore rappresenta una proxy di quanto rimane per gli azionisti in caso di liquidazione), o si può considerare sotto misure specifiche di queste due classi, che siano in grado di cogliere la specifica componente di rischio che si vuole trattare, come quelle precedentemente espresse.
Per completezza, si riporta di seguito la tabella relativa al concetto di leverage così come presentata dagli autori nel lavoro originale, con le possibili definizioni ed i valori assunti:
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Tabella 9: Misure di leverage
Fonte: Rajan, Zingales, What Do We Know about Capital Structure?
Some Evidence from International Data, 1995
Tabella 10: Misure di leverage
Fonte: Rajan, Zingales, What Do We Know about Capital Structure?
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Dai dati emerge come in base alla prima definizione di leverage, non equity
liabilities to total asset, le imprese anglo-americane abbiano valori mediani inferiori
(0,56) rispetto a quelli delle imprese dell’Europa continentale (0,70). Tale considerazione è corroborata anche dai valori riferiti alla media e dal dato a livello aggregato.
Inoltre è possibile osservare come, a seconda che si usino valori contabili o di mercato il valore relativo al Giappone cambia in misura considerevole, dato che risulta comparabile in un caso al modello americano e nell’altro a quello europeo. Tale differenza potrebbe derivare da una svalutazione degli asset a livello contabile che però non si riflette sui valori di mercato, così come potrebbe essere guidata anche dalla particolare dinamica del mercato finanziario giapponese nel periodo di riferimento, con un drawdown, la differenza tra un picco e il successivo minimo, di circa il 50%.
Se invece l’attenzione viene posta sulla seconda definizione di leverage, debt to
total asset, i risultati cambiano considerevolmente, dato che la Germania e il Regno
Unito appaiono adesso come i due stati aventi i valori più bassi, ed ancora, qualora si faccia riferimento al rapporto debt over capital, si hanno risultati simili per i paesi nordamericani e la Germania, con il Regno Unito che presenta, in questo caso, i valori minimi, mentre Francia, Italia e Giappone sono quelli con le percentuali più elevate.
Sebbene sia chiaro che l’ordine dei valori è guidato dal tipo di rapporto utilizzato, è possibile cogliere alcune tendenze:
• né la Germania né il Giappone risultano come high levered country in relazione agli Stati Uniti, anzi si presentano come i paesi dove il ricorso all’equity è superiore.
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La rilevanza di queste osservazioni è piuttosto sorprendente se si considera il fatto che precedenti autori avevano concluso per un livello di leverage più elevato per le imprese giapponesi ed europee, asserendo come spiegazione il ruolo dell’intermediazione bancaria e le caratteristiche del mercato.
In presenza di questi risultati è dunque opportuno chiedersi perché paesi aventi caratteristiche simili, quali USA e Regno Unito, abbiano valori così differenti, mentre stati diversi, quali USA e Giappone, appaiano così simili. Elementi rilevanti in questa direzione sono: il sistema di tassazione, la normativa in caso di bancarotta, lo sviluppo del mercato obbligazionario, le regole di corporate governance.
Con riferimento al primo aspetto è possibile richiamare una tabella che evidenzia la ripartizione di un dollaro nelle componenti di debito, dividendi e utili nel periodo 1989-1991 e 1982-1984. Tale schema dovrebbe prestarsi ad essere interpretato come
proxy del sentiero di riforma intrapreso da un certo stato, per cui in presenza di un cambiamento nella normativa fiscale è lecito attendersi uno shift del flusso relativo al dollaro verso la direzione più vantaggiosa. Nel caso degli Stati Uniti, ad esempio, in seguito alla riforma del 1986 si evidenzia un incremento della componente legata al debito (da 0.26 a 0.40) ed una diminuzione degli utili trattenuti (da 0.35 a 0.21).
Tabella 11: La variazione delle componenti di un dollaro nel tempo Fonte: Rajan, Zingales, What Do We Know about Capital Structure?
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Riguardo la normativa in caso di bancarotta è essenziale sottolineare il ruolo che questa svolge in termini di tutela degli interessi dei vari stakeholders dell’impresa. In particolare nel campione di riferimento le differenze tra gli stati in relazione a questa tematica riguardano il grado di protezione dei creditori e quindi i poteri contrattuali più o meno ampi attribuiti agli stessi. Come osservato da Frank e Torous (vedi Rajan e Zingales, 1995) “the U.S. code appears to have strong incentives to
keep the firm as an on going concern even when it is worth more in liquidation, while the U.K. code, by emphasizing the rights of creditors – and in some cases giving priority to one creditor – is likely to lead to too many premature liquidations”.
Inoltre, considerando la capacità di rafforzare il potere di contrattazione ex-ante e di penalizzare il management in caso di pressioni finanziarie, viene da chiedersi se sia un caso che quei paesi che presentano un livello di debito più basso, siano anche quelli in cui la normativa ex-ante si presenta come maggiormente rigida.
Piuttosto interessante in questo studio è poi la mancanza di una relazione sistematica per quel che concerne le caratteristiche del mercato. Sebbene non vi siano dubbi sul differente ruolo giocato dalle banche nei vari Stati, la distinzione tra sistemi bank-
oriented e market-oriented non sembra riflettersi in maniera chiara sulla decisione in
merito al livello di debito, ma sembra piuttosto delineare un orientamento nella scelta tra pubblico (azioni e obbligazioni) e privato (prestiti bancari).
In tabella 12 si riportano le informazioni relative alla dimensione del mercato nei vari contesti.
Infine, riguardo le problematiche di ownership dell’impresa risulta difficile stabilire un nesso di causalità chiaro, dato che la presenza di un grande numero di
shareholders potrebbe da un lato generare problemi legati alla scarsa rappresentanza
e al ruolo della delega, mentre dall’altro potrebbe portare ad una composizione diversificata e ridurre i costi d’intervento e dunque del controllo.
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Tabella 12: La variazione delle componenti di un dollaro nel tempo Fonte: Rajan, Zingales, What Do We Know about Capital Structure?
Some Evidence from International Data, 1995
Richiamando il seguente grafico è possibile evidenziare un legame tra le operazioni di takeover ostile1 e il grado di leverage.
Grafico 1: la distribuzione del debt to book capital ratio nel 1991 in differenti paesi Fonte: Rajan, Zingales, What Do We Know about Capital Structure?
Some Evidence from International Data, 1995
1 1 Con il termine “takeover ostile” si fa riferimento nel presente lavoro al procedimento non desiderato di
modifica della struttura proprietaria di un impresa. Il prezzo di acquisizione della transazione è generalmente ottenuto come valore intermedio tra quello attuale e quello che il raider, il soggetto che desidera portare a termine l’operazione, ritiene di poter generare.
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Dal grafico si nota infatti come paesi come Usa, Canada e UK, che hanno sperimentato in maniera più evidente operazioni di takeover, risultano avere una coda destra più abbondante rispetto a quei paesi rimasti estranei a questo genere di operazioni. In questo senso il debito sembra configurarsi come un meccanismo di protezione contro interventi di riorganizzazione non desiderati.
Fatte queste riflessioni è opportuno considerare un modello di regressione lineare che possa verificare le correlazioni e analizzare i fattori cross-country. In base a quanto sostenuto da Harris e Raviv (1991)“ leverage increases with fixed assets,
non debt tax shields, investment opportunities, and firm size and decreases with volatility, advertising expenditure, the profitability of bankrupcy, profitability and uniqueness of the product”.
Di questi fattori la tangibilità degli asset, il market-to-book ratio, la dimensione e la profittabilità sono quelli maggiormente citati nei precedenti studi, nei confronti dei quali risulta logico concentrarsi.
Relativamente alla tangibilità, essa viene generalmente calcolata dal rapporto tra
fixed asset e asset totali, che esprime la quantità di risorse tangibili confrontate con
quelle totali. E’ lecito attendersi che ad un maggior numero di asset tangibili sia associato un leverage più elevato, dato che la tangibilità esprime la possibilità di avere più collaterals, riducendo i costi di agenzia del debito attraverso questa garanzia in caso di liquidazione. Tale considerazione è particolarmente rilevante poiché ricollega il presente lavoro a quanto detto in precedenza con riferimento all’incompletezza contrattuale e alla contingent control allocation (Aghion e Bolton, 1992).
Riguardo il secondo aspetto è possibile argomentare che nel caso in cui un’impresa si aspetti opportunità di crescita future, essa dovrebbe essere finanziata in larga parte attraverso equity, per cui il market to book ratio, dato dal rapporto tra il valore di mercato e quello contabile degli asset può essere letto come una proxy delle opportunità di crescita dell’impresa.
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La dimensione d’impresa rappresenta invece un aspetto piuttosto ambiguo dato che, come osservato nei capitoli precedenti, può riferirsi ad una maggiore diversificazione e dunque essere inversamente correlata alla possibilità di default, o al contrario può essere associata a problematiche di asimmetria informativa, divenendo una misura del grado di disponibilità delle informazioni per investitori esterni. Nel primo caso ad un incremento della dimensione d’impresa dovrebbe fare riscontro un incremento nel livello di debito, viceversa nel secondo.
La profittabilità infine può essere associata ad interpretazioni differenti del grado di
leverage a seconda del modello teorico cui si fa riferimento. In particolare Myers e
Majluf (1984) considerano la relazione come negativa, per cui all’aumentare della redditività l’impresa dovrebbe spostarsi verso livelli di debito inferiori, mentre Jensen e Meckling (1976) al contrario delinea una relazione positiva, in virtù della funziona disciplinatoria del debito, tanto più rilevante quanto maggiori sono i profitti e il conseguente potenziale spreco di risorse.
Il modello di regressione considerato per l’analisi assume la seguente forma (Rajan e Zingales, 1995):
I risultati sono espressi dalla tabella 14 a pagina seguente.
Dai dati emerge che la tangibilità è sempre correlata positivamente con il leverage (calcolato sia a valori contabili che di mercato) .
Il market-to-book entra con un coefficiente negativo in tutti gli Stati ed è sempre significativo.
La dimensione e la profittabilità sono correlate rispettivamente in maniera positiva e negativa in tutti gli Stati, eccezion fatta per la Germania, dove queste relazioni sono invertite.
In generale i fattori correlati con il leverage negli Stati Uniti sembrano comportarsi in maniera simile anche negli altri paesi.
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Critica a tali considerazioni riguarda il coefficiente R2, ossia il coefficiente econometrico che mostra la rappresentatività del campione. Tale misura osserva quanto la grandezza analizzata si discosta dalla retta di regressione del modello e può assumere valori compresi tra 0 ed 1, intorno a 0,2 nel caso oggetto d’analisi. Ciò significa che attraverso le osservazioni fatte finora è possibile spiegare il 20% del campione di riferimento. Dato il gran numero di variabili in considerazione e gli aggiustamenti effettuati dagli autori (correzioni contabili, rimozione delle imprese finanziarie e prive di bilancio consolidato, ecc.) era tuttavia lecito attendersi tale risultato.
Tabella 13: I risultati del modello di regressione
Fonte: Rajan, Zingales, What Do We Know about Capital Structure?
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Con riferimento ai fattori è possibile addurre ulteriori considerazioni:
• Relativamente alla tangibilità alcuni autori hanno sostenuto che una stretta relazione partecipativa con i creditori possa sostituire il collateral fisico. In questo caso sarebbe lecito attendersi un minor peso di questo fattore nei paesi
bank-oriented, che tuttavia non appare in maniera evidente nel lavoro.
• Riguardo il market to book ratio la relazione negativa deriva dagli alti costi in caso di crisi finanziaria. Potrebbero però esserci ulteriori ragioni, per cui ad esempio il rischio di default viene prezzato e rappresenta dunque un fattore di sconto. In tal caso la relazione risulterebbe guidata da quelle imprese aventi un market-to-book-value basso, mentre nel campione esaminato è esattamente all’opposto. Altra argomentazione potrebbe derivare dalla tendenza delle imprese di sottoscrivere azioni quando il loro valore di mercato è superiore a quello effettivo, con l’obiettivo di diluire la componente in eccesso sui nuovi azionisti o per ragioni non precisate, in accordo a quanto detto in precedenza in relazione al market timing e alla finanza comportamentale, ma in questo caso le ricerche empiriche sembrano comporre un puzzle.
• La dimensione può essere rappresentata come una proxy della probabilità di default o può essere vista come componente legata al ruolo giocato dalla asimmetrie informative, generalmente più evidenti nei casi di grandi aziende con strutture organizzative rigide. Nel primo caso non si dovrebbe osservare una forte correlazione positiva in quei paesi dove la probabilità di default è bassa, mentre nel secondo si dovrebbero osservare grandi compagnie maggiormente finanziate con equity. Tuttavia i risultati sono ancora una volta discordi sull’effettivo significato della correlazione in rapporto al leverage. • Con riferimento alla profittabilità non è ancora chiaro perché le imprese di
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la mancata considerazione di qualche elemento e la possibilità che un certo fattore possa avere congiuntamente effetto su più variabili, per cui la profittabilità delle piccole imprese può essere proxy sia della possibilità di finanziamento interno sia della qualità delle opportunità di investimento, con effetti diversi sulla domanda complessiva di fonti di finanziamento esterne. Da una prima analisi dei dati emerge dunque un’omogeneità dei risultati inattesa, in particolar modo in relazione alle differenti caratteristiche dei vari sistemi-paese, che però richiama la necessità di tenere in considerazione un numero elevato di determinanti relative alla struttura del capitale, ognuna delle quali fa riferimento a uno specifico modello teorico sottostante, spesso in contraddizione con gli altri. Le conclusioni che ne derivano, per quanto ricche di intuizioni, non sono univoche e necessiterebbero dunque di ulteriori approfondimenti.