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Struttura finanziaria delle imprese e politica dei dividendi in mercati dei capitali imperfetti: modelli teorici e riscontri empirici

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Academic year: 2021

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Università di Pisa

Dipartimento di Economia e Management

Corso di Laurea Magistrale in Strategia, Management e

Controllo

Struttura finanziaria delle imprese e politica dei dividendi in

mercati dei capitali imperfetti: modelli teorici e riscontri

empirici

Candidato: Simone Ferri

Relatore: Prof. Nicola Meccheri

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INDICE

Introduzione………...………3 Capitolo 1

La struttura finanziaria delle imprese: i modelli teorici di riferimento

1.0 La struttura finanziaria ed i teoremi di Modigliani-Miller……….5 1.1 Le teorie successive: trade-off, pecking order, free cash flow theory ed il modello del ciclo di vita dell’impresa………..…21 Capitolo 2

L’incompletezza contrattuale e l’assegnazione dei diritti residuali di controllo in differenti stati di natura

2.0 Il modello di Aghion e Bolton……….34 2.1 Il diversion model di Hart.………….………47 Capitolo 3

I modelli empirici di riferimento

3.0 Lo studio del leverage delle imprese………...……53 3.1 Il dividend puzzle………..………66 3.2 Struttura finanziaria e scelte strategiche di diversificazione nel contesto italiano………77 Conclusioni………...………91 Bibliografia………...………96

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INTRODUZIONE

Il seguente elaborato passa in rassegna i principali modelli teorici riguardanti la struttura finanziaria delle imprese, con l’obiettivo di individuare le variabili che impattano la relazione tra equity e debito, guardando successivamente ai riscontri empirici delle stesse.

La trattazione, in particolare, si sviluppa a partire dai teoremi di Modigliani Miller (1958) e dalle loro considerazioni relative all’irrilevanza della struttura finanziaria delle imprese, per poi procedere, attraverso la rimozione di alcune delle ipotesi originali, nell’enunciazione delle teorie successive. A riguardo, oggetto del primo capitolo sono la teoria del trade-off, che contrappone i costi e benefici relativi ad una certa scelta, la pecking order theory (Myers, 1984), incentrata sulle problematiche di asimmetria informativa, la free cash flow theory (Jensen e Meckling, 1976), legata ai problemi di agenzia e collegata alle operazioni di leverage buy-out degli anni ’80, e la teoria del ciclo di vita del prodotto, per cui le scelte finanziarie di un’impresa sono dipendenti dalla fase del ciclo di vita dell’impresa e dalle differenti possibilità di accesso al credito.

Nel secondo capitolo invece l’attenzione è sulle tematiche relative all’incompletezza contrattuale e la trattazione verte sull’assegnazione dei diritti residuali di controllo in base al verificarsi di segnali contingenti. In particolare il modello preso in considerazione è quello di Aghion e Bolton (1992), più generico e di conseguenza più ricco di spunti di osservazione, mentre al più tecnico modello di Hart e Moore (1995) relativo al ruolo del contratto di debito standard viene riservato un breve paragrafo conclusivo.

La separazione tra i modelli teorici nel primo e secondo capitolo esprime la volontà di distinguere in maniera netta le questioni attinenti all’incompletezza contrattuale e quelle riguardanti l’asimmetria informativa, evitando così di sovrapporre due concetti che talvolta vengono inopportunamente equiparati.

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Il terzo capitolo infine prende in esame tre differenti modelli empirici, con l’obiettivo di fornire riscontri pratici sulle tematiche oggetto di discussione. Richiamando lo studio di Rajan e Zingales (1995) viene analizzata nel primo paragrafo l’evoluzione del leverage delle imprese, vengono considerate le diverse definizioni dello stesso e sono individuati i fattori aventi un maggiore impatto. Nel secondo paragrafo viene invece richiamato il modello di Modigliani-Miller ed in particolare il teorema relativo alla politica dei dividendi. La trattazione in questo caso analizza le politiche dei dividendi delle imprese collegandole al differente livello di regolamentazione e di tutele fornite da uno stato (La Porta, Lopez De Silanes, Shleifer e Vishny, 2000).

Il terzo paragrafo, che conclude la trattazione, prende in esame uno studio effettuato su un campione di imprese nel contesto italiano (Cariola e La Rocca, 2006) e analizza la struttura finanziaria delle imprese, mettendola in relazione con la strategia di diversificazione, con l‘obiettivo di capire la direzionalità del legame causa-effetto che lega tali costrutti.

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CAPITOLO 1

LA STRUTTURA FINANZIARIA DELLE IMPRESE: I

MODELLI TEORICI DI RIFERIMENTO

1.0 La struttura finanziaria ed i teoremi di Modigliani-Miller

Le scelte finanziarie rivestono un ruolo centrale nel governo strategico dell’azienda. Esse, infatti, interagiscono con le altre funzioni aziendali e, compenetrandosi nei processi decisionali ed operativi, condizionano il sistema delle strategie.

La moderna teoria della finanza aziendale concentra le sue valutazioni in tre macro-aree e ha come obiettivo principe la massimizzazione del valore dell’impresa in un contesto dinamico e di lungo periodo.

Queste tre macro-aree definiscono tre tematiche principali che sono la politica degli investimenti, la politica dei finanziamenti e la politica dei dividendi.

La prima richiede di investire in progetti con un rendimento atteso superiore alla soglia minima di rendimento accettabile definito in base alla policy interna o in relazione ad un tasso risk-free, e si rivolge dunque al lato sinistro dello stato patrimoniale. La politica di finanziamento al contrario si concentra sulla parte destra del documento del bilancio ed è tesa alla definizione di una struttura finanziaria che massimizzi il valore dei progetti intrapresi e che sia in linea con il tipo di investimento da realizzare. Infine, la politica dei dividendi asserisce che qualora non esistano opportunità di investimento in grado di generare un rendimento superiore alla soglia minima è opportuno restituire il denaro ai proprietari.

Di particolare interesse in questo ambito sono le tematiche relative alla definizione di una struttura finanziaria ottimale, dunque all’esistenza di un rapporto di equilibrio tra equity, debito e altre forme di finanziamento di natura mista.

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In termini generali la struttura finanziaria di un’impresa indica il fabbisogno finanziario complessivo e dunque la natura e la provenienza del capitale investito nelle varie attività aziendali.

L’importanza di queste considerazioni è dovuta alle differenti caratteristiche attribuibili alle fonti di finanziamento ed ai differenti vincoli che esse comportano. L’equity è una fonte sia interna che esterna, di pieno rischio, di lungo periodo, a remunerazione incerta e variabile e di tipo residuale, mentre il debito è una fonte esterna, sia di breve che lungo periodo, a rischio limitato in linea teorica, a remunerazione certa e a rimborso diretto.

Nella valutazione della struttura finanziaria è opportuno effettuare sia un’analisi di tipo verticale che una di tipo orizzontale. Ciò significa valutare indici quali ROE

(Return on Equity) e ROI (Return on Investment), così come indici relativi al grado

di rigidità o elasticità della struttura, e verificare la correlazione fonti-impieghi (fonti temporanee per impieghi di breve periodo e fonti stabili per impieghi di lungo periodo).

Con riferimento al ROE tale indice è dato dal rapporto tra reddito netto e patrimonio netto e definisce in maniera piuttosto ampia il ritorno per l’azionista. Il valore di questo indice è un numero di sintesi che risulta influenzato da tutte le aree di gestione, non necessariamente quella operativa, e che pertanto può essere colpito da aspetti di carattere straordinario e risultare poco attendibile. Più preciso è invece il ROI, l’indicatore che pone al numeratore il reddito operativo, ossia il risultato derivante dalla gestione corrente dell’impresa, ed al denominatore il capitale investito.

La formula che consente di collegare il rendimento per gli azionisti con la struttura finanziaria di un’impresa è la seguente:

ROE = [ ROI + (D/E) (ROI – r) ]

Tale formula individua la cosiddetta leva finanziaria e mostra quindi la variazione del ROE al modificarsi del rapporto debito su equity.

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Posto che il ritorno dell’impresa con le sue attività operative sia superiore al costo del debito, ossia ROI > r, si verifica un aumento del ROE, che genera il cosiddetto effetto leva. Tale considerazione appare evidente considerando la relazione lineare che lega le suddette variabili.

Al contrario nel caso in cui ROI < r, ad esempio per l’aumento del debito oltre una certa soglia, posta la percezione di una maggiore rischiosità da parte dei finanziatori con riferimento all’impresa, la relazione non regge più e si ha l’inversione dell’effetto leva, per cui si verifica una distruzione di valore.

L’analisi degli indici, sebbene si tratti di un’analisi di tipo statico, evidenzia il risultato finale, ossia la capacità di creare valore mediante un certo tipo di politica degli investimenti, ma poco o nulla spiega riguardo la definizione di una struttura finanziaria ottima, ossia di una composizione del passivo dello stato patrimoniale, che sia di per sé in grado di svolgere la funzione di strumento di creazione di valore. Tale ricerca infatti si sviluppa a partire dal lavoro di Modigliani-Miller(1958), che per primo introduce la rigorosità del metodo scientifico tipico delle scienze economiche nelle analisi di finanza aziendale e mostra le condizioni entro le quali la scelta della struttura finanziaria è irrilevante ai fini del valore dell’impresa.

Le teorie successive cercano poi di evidenziare gli elementi critici o mancanti del precedente modello e agiscono da teorie condizionate, che in quanto tali mettono in luce lo specifico ruolo di un certo fattore (imposte, aspetti comportamentali, incompletezza contrattuale, asimmetria informativa, ecc.).

E’ opportuno precisare in via preventiva che nessuna di queste teorie possiede uno scopo normativo, nel senso che non si pone come sostenitrice di una corrente di pensiero assoluta, ma piuttosto è volta ad indagare quali sono i comportamenti reali osservati dalle imprese, avendo dunque una valenza positiva.

Prima del lavoro di Modigliani-Miller il criterio generale nella scelta delle fonti di finanziamento era dato dalla minimizzazione del costo del capitale di un’impresa. Ne deriva una relazione inversa tra il valore di mercato dell’impresa e il costo medio ponderato del capitale (costo del debito più costo dell’equity).

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Si supponga a titolo di esempio un’azienda avente solo un tipo di equity (S) e un solo tipo di debito (B), per cui vale la seguente uguaglianza: V = S + B, dove V è il valore di mercato dell’impresa.

In questo caso partendo da una situazione di zero debito è possibile ridurre il costo medio ponderato del capitale attraverso l’emissione di debito. Queste considerazioni derivano dalla differente rischiosità delle due fonti (il debito dà diritto a pagamenti certi, mentre l’equity no) e dal fatto che posta l’assenza di obbligazioni preesistenti si rende trascurabile la possibilità che si verifichi la bancarotta dell’impresa.

La relazione che ne deriva può essere rappresentata graficamente nel seguente modo:

Tabella 1: Il costo medio ponderato come funzione del leverage Fonte: Bailey, Economics of Financial Markets, 2003, Capitolo 19

In accordo alla visione dei modelli economici di tipo classico, esempio Durand(1952), esiste dunque un rapporto ottimo, un leverage in grado di minimizzare il costo medio ponderato del capitale, rho, definito come segue:

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Per cui nel modello il costo dell’equity, i, è supposto costante ed entro un certo limite di debito ritenuto ragionevole non si genera una variazione del rischio d’azienda per effetto dell’indebitamento. Oltre il limite invece il costo dell’equity cresce in maniera più che proporzionale in ragione del maggior rischio associato all’azienda, con conseguente incremento del costo medio ponderato del capitale. E’ opportuno notare che, almeno in via teorica, in accordo a questo modello il costo del capitale diventa uno strumento importante per determinare il valore di mercato di un’impresa, dato che è possibile intervenire sul livello d’indebitamento per ottenere il risultato ottimo desiderato.

Con maggiore precisione è possibile osservare l’esistenza di ben tre teorie tradizionali relative alla struttura del capitale, sebbene solo l’ultima, di fatto espressa nei passaggi precedenti, abbia avuto un maggior eco e maggiori argomentazioni a sostegno:

a) la teoria del “reddito netto” (“Ni” o “Net Income”);

b) la teoria del “reddito operativo netto” (“Noi” o “Net Operating Income”); c) un approccio “intermedio” tra le due.

Occorre precisare che tutte queste teorie si basano su ipotesi relative all’atteggiamento degli investitori o al funzionamento del mercato, che sebbene poi si siano rivelate almeno in parte corrette o plausibili, non trovavano nessun fondamento scientifico sottostante al momento della loro esposizione.

Le teorie del Net Income e del Net Operating Income, in particolare, ipotizzano che gli investitori capitalizzino il reddito netto o il reddito operativo netto ad un tasso costante, superiore a quello del debito, e partendo da questa differenza concludono per un livello d’indebitamento ottimo vicino al 100%.

Il teorema di Modigliani-Miller invece fornisce una prospettiva diversa a queste considerazioni, osservando come in presenza di alcune ipotesi, la curva rappresentata in precedenza diventi una linea orizzontale. Tale teorema, o meglio tali teoremi, dato che gli autori hanno elaborato varie proposizione e variato, di volta

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in volta, le ipotesi alla base del quadro metodologico, rappresentano un punto di rottura con la tesi tradizionale.

Sebbene proprio le ipotesi rappresentino l’argomento maggiormente controverso dei teoremi di Modigliani-Miller è opportuno osservare che per quanto stringenti esse sono anche piuttosto generali. Infatti sono strettamente legate alle condizioni di non arbitraggio e fanno riferimento ad un mercato dei capitali perfetto, ma non impongono la definizione di una funzione di utilità relativa alle preferenze dei soggetti coinvolti, né inseriscono specificazioni relative alla durata o alle caratteristiche del debito.

Per dimostrare il primo teorema si considerino due imprese identiche tra loro in tutti gli aspetti, una finanziata interamente con capitale proprio (Unlevered), rappresentata in tabella 2 con il simbolo U, e l’altra parzialmente con debito (Levered50%), in tabella con il simbolo L, aventi un valore iniziale pari a 1000. Si supponga inoltre che un certo payoff pari a 600 sia garantito ai creditori, a prescindere dai potenziali stati di natura che possono realizzarsi successivamente con riferimento ai guadagni, definiti da X1 e X2, tali che X1=1500 e X2=700. Si considerino adesso due differenti portafogli d’investimento potenziali aventi un ritorno pari all’1% del valore di mercato, comprendenti le due imprese.

Nel caso dell’impresa unlevered ciò significa valutare il rendimento del solo equity, mentre per quella levered di entrambe le fonti di finanziamento.

Per cui nel caso dell’impresa unlevered il ritorno sarà calcolato come l’1% della sola fonte di finanziamento di tipo equity, mentre nel caso dell’impresa unlevered come somma dei ritorni derivanti da ciascun tipo di fonte di finanziamento.

Il risultato, espresso nella seguente tabella, mostra l’indifferenza nella composizione delle fonti di finanziamento, dato un valore di mercato e dunque un risultato finale, identico.

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Tabella 2: Un esempio del primo teorema di Modigliani-Miller Fonte: Bailey, Economics of Financial Markets, 2003, Capitolo 19

Posto un valore di mercato delle due imprese differente sarebbe stato infatti possibile costruire un portafoglio di arbitraggio, avente un payoff positivo e un costo pari a zero, realizzando conseguentemente profitti di arbitraggio.

Richiamando i concetti della Arbitrage Price Theory, è opportuno precisare come un portafoglio di arbitraggio, in quanto tale, deve verificare alcune condizioni:

• Non richiede l’utilizzo di fondi addizionali

• È privo di sensitività rispetto a qualsiasi fattore di rischio • Non include alcun tipo di rischio non sistematico

• Fornisce un rendimento atteso positivo

Nel caso in tabella, definito V come il valore di mercato dell’impresa, se fosse Vu>VL sarebbe possibile realizzare profitti di arbitraggio vendendo allo scoperto le

azioni dell’impresa U e usando questi fondi per acquisire partecipazioni nell’impresa L. Una parte di questi fondi risulterebbe in eccesso e potrebbe essere investita in titoli risk-free generando extra-profitti.

Data la discrepanza tra il valore di mercato delle due imprese il procedimento può inoltre ripetersi in maniera analoga anche nel caso in cui VL>Vu.

Da queste considerazioni è possibile ricavare la prima proposizione del teorema di Modigliani-Miller, per cui il valore di un’impresa è indipendente dalla sua struttura finanziaria (debt to equity ratio), ossia in un mercato perfetto le scelte di struttura

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finanziaria non hanno effetti sul valore dell’azienda, il quale è pari al valore di mercato dei flussi di cassa generati dalle attività:

“...the market value of the firm — debt plus equity — depends only on the income stream generated by its assets. It follows, in particular, that the value of a firm should not be affected by the share of debt in its financial structure or by what will be done with the returns — paid out as dividends or reinvested (profitably).” -

(Modigliani, 1980, pp 13).

In altri termini Modigliani e Miller, con un approccio d’analisi nuovo, affermano quanto già formulato da Williams (1938) anni prima con riferimento alla legge di conservazione del valore dell’investimento: “Se il valore dell’investimento di

un’impresa nel suo complesso è per definizione il valore attuale di tutti i flussi che andranno ai detentori dei suoi titoli, sia sotto forma di interessi che di dividendi, allora questo valore complessivo non dipende in alcun modo da come si compone il suo capitale”.

Con riferimento alla legge di conservazione del valore come fondamento del teorema è possibile citare Brealey, Myers e Sandri (1999), i quali osservano come il valore di un’attività rimane inalterato indipendentemente dalla natura dei diritti vantati nei suoi confronti, ossia “il valore dell’impresa è determinato nella parte

sinistra del bilancio dalle attività reali e non dalla combinazione delle fonti di finanziamento usate dall’impresa”.

Tali considerazioni relative alla prima proposizione possono essere derivate in maniera analoga facendo riferimento alla teoria delle opzioni, definendo il payoff relativo all’equity come max[0, Xk-Z], con Xk come strike price dell’opzione e Z

come prezzo di esercizio, a seconda che alla scadenza dell’opzione si abbia o meno la bancarotta e allo stesso modo il payoff del bond come min[Z, Xk]. Il primo

rappresenta il payoff di una european call option con prezzo di esercizio Z, il secondo il payoff di una european put option con prezzo di esercizio Z.

Scomponendo questa relazione è possibile leggere la proposizione del teorema di Modigliani-Miller nella put-call parity relationship. Secondo questa prospettiva il

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modello evidenzia come il valore dell’opzione non dipenda dal suo prezzo di esercizio, ma dagli elementi sottostanti (put e call premium). Per cui ancora una volta in accordo ai principi di arbitraggio, il valore di un’impresa è indipendente dalla sua struttura finanziaria.

La Proposizione I infine può anche essere dimostrata mediante ricorso alla formula del Capital Asset Pricing Model (CAPM) espressa come equivalente certo dato che man mano che l’impresa aumenta la sua leva finanziaria, il rendimento atteso delle sue azioni aumenta in proporzione al beta del capitale netto. Preliminarmente si rende necessario esprimere il CAPM in termini di equivalente certo, il quale viene rappresentato dalla seguente formula: VA = FC − λ cov(rm;FC) / (1+rj) , dove VA

definisce il valore attuale del flusso di cassa atteso (FC), ed r rappresenta, in questo caso, il rendimento atteso.

In particolare, dato VA = FC/(1+r) si ottiene r = FC/VA -1, che sostituito nella tradizionale formulazione del CAPM, 1+r = 1 + rf + ß * (rm-rf), comporta, FC/VA =1

+ rf + β * (rm −rf ) , con ß uguale al rapporto tra la covarianza, tra il rendimento di mercato e il tasso di attualizzazione r, e la varianza del rendimento di mercato nel suo complesso.

Ne deriva la seguente formulazione:

FC= 1 + rf + cov(rm;FC) / VA ⋅ var(rm ) * (rm −rf )

Dove il rapporto ( rm – rf) /var(rm) definisce il premio per il rischio di mercato atteso

per unità di varianza, meglio noto come prezzo di mercato per il rischio, indicato con il simbolo lambda.

Risolvendo per il valore attuale si ottiene la formulazione enunciata inizialmente del CAPM in termini di equivalente certo.

Poi, mediante un procedimento di sostituzione, è possibile osservare il valore dell’equity e quello del debito in accordo al modello, ottenendo ancora una volta l’enunciato della proposizione I.

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Infatti prendendo in considerazione una struttura finanziaria costituita esclusivamente da equity, il valore dell’azienda, definito da W, è pari al valore

unlevered, ossia al valore dell’equity, per cui

Wu = We = Wt − λ ⋅ cov (rm ;Wt ) / (1+rf)

dove Wt è il valore dell’azienda al tempo t.

Si assuma, invece, che l’azienda decida adesso di finanziarsi in parte con equity ed in parte con debito. Si assuma, inoltre, che l’azienda si indebiti ad un tasso free-risk per cui il debito (D) non presenta alcun profilo di rischio. Per ottenere il valore dell’equity al tempo t è necessario sottrarre al valore dell’azienda (Wt) il valore del

debito, D, da restituire e degli interessi maturati ovvero Wt −D⋅(1+rf ). Pertanto il valore dell’equity (We) è adesso pari a

We = Wt – D * (1+ rf ) − λ ⋅cov [rm ; Wt − D⋅(1+ rf )] / (1+rf)

Dato che il valore del debito non influisce sulla covarianza, essendo certo, ne deriva che We = We = Wt − λ ⋅ cov (rm ;Wt ) / (1+rf) – D.

Il valore complessivo dell’azienda in questo caso è dato dalla somma del valore dell’equity più il valore del debito, che però aggiunto all’espressione sopra viene eliso, per cui come enunciato più volte, il valore dell’azienda unlevered risulta uguale al valore dell’azienda indebitata.

Le argomentazioni di Modigliani-Miller sulla struttura del capitale non fanno altro che sostenere che il valore di una pizza è indipendente dal numero di spicchi in cui questa è tagliata. La realtà empirica porta tuttavia a discutere riguardo l’effettività dei modelli e il dibattito si sposta dunque sulle ipotesi sottostanti.

La teoria poggia infatti su diverse assunzioni, alcune particolarmente forti. Tra queste le principali fanno riferimento: al comportamento razionale di tutti gli investitori; all’esistenza di aspettative omogenee per tutti gli investitori circa le performance attese delle aziende e la loro rischiosità; alla collocazione in classi di rischio omogenee per le aziende che presentano pari rischio operativo; alla costanza nel tempo del reddito operativo atteso; alla completa trasparenza del mercato con

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informazioni accessibili a tutti e prive di costo (assenza di asimmetrie informative o costi di transazione); alla possibilità da parte delle aziende di raccogliere capitale, sia di debito che di rischio, senza costi di emissione; all’assenza di costi di intermediazione per l’acquisto/vendita dei titoli da parte delle aziende e degli investitori; alla possibilità per gli investitori e per le aziende di scambiarsi il medesimo insieme di titoli a prezzi di mercato pari al valore attuale dei flussi di cassa prospettici attesi; all’esistenza di tassi di interesse sul debito pari per le aziende e per gli investitori privati; alla possibilità per gli investitori di prendere e dare a prestito denaro alle medesime condizioni delle aziende con la conseguenza che la leva finanziaria personale (homemade leverage) risulta essere perfettamente sostituta della leva finanziaria aziendale (corporate leverage); all’assenza dei costi diretti ed indiretti connessi al dissesto ed al fallimento; all’assenza dei costi di agenzia; all’assenza di imposte sul reddito delle aziende e degli investitori (ossia neutralità, non discriminatorietà delle imposte).

Ognuna di queste ipotesi ha un peso specifico proprio e conseguenze differenti sulla validità del modello. L’esistenza di classi di rischio e la possibilità per gli investitori di indebitarsi allo stesso tasso delle imprese sono ipotesi strettamente connesse alla definizione del principio di arbitraggio. Nella definizione dei costi di transazione, così come nelle problematiche connesse all’asimmetria informativa può invece venire in considerazione il ruolo dell’intermediazione bancaria e la sua funzione di monitoraggio. Il ruolo delle tasse è poi rilevante in relazione al differente trattamento riservato ai guadagni in conto capitale ed alla deducibilità degli oneri finanziari, così come importante è l’ipotesi di mercati di capitali perfettamente concorrenziali. A riguardo Solomon (vedi Myers, 2001 pp.84) specifica che “ A

perfect capital market should be defined as one in which the MM theory holds”, che,

come riassunto da Fama nella seguente proposizione, significa “Strictly speaking,

the capital market must be not only competitive and frictionless, but also "complete," so that the risk characteristics of every security issued by the firm can

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be matched by purchase of another existing security or portfolio, or by a dynamic trading strategy”.

Tornando al teorema è possibile evidenziare un’altra conclusione relativa al costo del capitale proprio. Le formule del costo del capitale sono espresse attraverso la seguente notazione:

Avendo a che fare con valori attesi si pone il problema di definire le probabilità da assegnare ai differenti stati di natura che possono verificarsi ed in tal senso l’utilizzo di probabilità martingala potrebbe essere una soluzione idonea ai principi di arbitraggio, che tuttavia, essendo costruita artificialmente, potrebbe non corrispondere al belief degli investitori. Un’ulteriore soluzione potrebbe essere quella di applicare modelli di asset pricing quali CAPM o APT, ma in tal caso questa assunzione va ad aggiungersi alle già numerose presenti.

In termini tecnici, una martingala con riferimento ad un processo stocastico, si ha quando l’informazione al tempo t rappresenta il miglior predittore dell’informazione al tempo t+1. Ossia un processo stocastico è una martingala per ogni t ≥ 0 quando: Xt = Et[Xt+1 | Ft] con Ft = {X0, X1, ..., Xt} come information criteria.

Sviluppando le formule la seconda proposizione del teorema di Modigliani-Miller asserisce la validità delle seguente relazione:

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Tale equazione evidenzia come il costo del capitale di rischio di un’impresa indebitata sia una funzione lineare del leverage, rappresentato da una retta avente come intercetta il costo medio ponderato del capitale e come pendenza la differenza tra il WACC e il costo del debito.

Denominando Ke il costo dell’equity in presenza di indebitamento, Ka il costo

dell’equity unlevered e Kd il costo del debito si ottiene: K e = K a + ( K a − K d ) x B/S

Se ne deduce in altri termini che il costo del capitale di rischio di un'impresa con debito è uguale a quello di un'impresa priva di debito, più un premio per il rischio finanziario proporzionale all’incremento di rischio dell’azienda per effetto del debito. Ossia aumentando la leva finanziaria si modifica la distribuzione del rischio finanziario tra le diverse classi di investitori (azionisti e creditori dell'impresa), lasciando però il rischio associato all'impresa nel complesso invariato, così che non si crea alcun valore aggiuntivo.

In altri termini con la proposizione II Modigliani-Miller affermano che la struttura finanziaria non incide sul costo del capitale d’azienda, poiché all’aumentare del livello di indebitamento si generano due effetti che si annullano per intensità e direzione. Da un lato infatti il costo del capitale tende a ridursi per effetto della sostituzione di quota parte dell’equity con debito, in ragione del minor costo del secondo rispetto al primo, ma allo stesso tempo il costo del capitale tende ad

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aumentare per effetto del maggior costo di quella parte di equity non sostituito dal debito per effetto dell’incremento di rischio dell’azienda.

Sinteticamente è possibile esprimere la proposizione II nel seguente modo: la struttura finanziaria non incide sul costo del capitale in quanto il rendimento richiesto sull’equity è funzione lineare del rapporto tra equity e debito.

La formula può essere inoltre espressa in maniera analoga in termini di rendimento o con riferimento al beta. Ciò che emerge è l’esistenza di un principio di proporzionalità diretta tra rischio, rendimento e costo del capitale, per cui l’aumento del rischio percepito dall’investitore è controbilanciato dall’incremento del rendimento da questi richiesto e di conseguenza dall’aumento del costo del capitale per l’azienda.

In un secondo momento gli autori hanno poi rimosso l’ipotesi relativa alla neutralità delle imposte, lasciando le altre assunzioni invariate. I risultati che ottengono sono i seguenti:

• il valore di un’azienda indebitata è superiore al valore di un’azienda non indebitata in ragione della deducibilità degli oneri finanziari sul debito: il valore dell’azienda levered è pari al valore dell’azienda unlevered a cui deve sommarsi il valore del beneficio fiscale. Dato che il vantaggio aumenta all’aumentare del livello di indebitamento, il valore dell’azienda è massimo in presenza di una struttura finanziaria costituita esclusivamente da debito. • il costo dell’equity aumenta al crescere dell’indebitamento ma in misura

inferiore rispetto all’ipotesi di assenza di imposte. In altre parole in presenza di indebitamento l’incremento del costo dell’equity, a seguito del maggior rischio associato all’azienda, non è sufficiente a controbilanciare l’effetto positivo del minor costo del capitale di debito in ragione dello scudo fiscale. Anche in questo caso il costo del capitale è minimo in presenza di una struttura finanziaria costituita esclusivamente da debito.

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Pertanto gli autori affermano che in presenza di imposte societarie il valore dell’azienda levered, definita in questo caso da WL, è pari alla somma del valore dell’impresa unlevered, WU e del beneficio fiscale connesso alla deducibilità degli oneri finanziari, WT.

WL =WU +WT

Relativamente alla proposizione I se ne deduce che ora il valore dell’impresa levered è superiore per effetto dello scudo fiscale.

Con riferimento al costo del capitale (proposizione II) il costo dell’equity rimane correlato positivamente con il grado di indebitamento.

Ricordando che il cash flow può essere espresso nella seguente maniera FC = WU x

Ka + Kd x D x tc, e supponendo che l’azienda distribuisca tutti i flussi di cassa

prodotti tra i finanziatori si ha l’uguaglianza con E x Ke + D x Kd, ossia con il costo del capitale dell’azienda Ka.

Dividendo primo e secondo membro per E, sottraendo D x Kd, si ottiene:

Ke = Vu/E x Ka – D/E x Kd x (1−tc)

Dato che il valore dell’impresa indebitata è pari a WL = Wu + tc x D, si ottiene

E * Ke + D * KD = WU * Ka + tc * Kd * D , da cui E+D=WU +tc ⋅D.

Sostituendo e semplificando ne deriva:

K e = K a + ( K a − K d ) x D/E * (1- tc)

In un momento successivo Miller (1980), riesaminando queste conclusioni, introduce le imposte sulla persona fisica accanto a quelle societarie e così facendo giunge alla conclusione che il livello di indebitamento è irrilevante ai fini del valore della singola azienda, nel caso in cui le imposte personali e quelle societarie si compensino tra loro.

E’ infine possibile sviluppare anche una terza proposizione del teorema di Modigliani-Miller, quella legata alla politica dei dividendi, per cui in un mondo ideale la politica dell’impresa di distribuzione dei dividendi ai propri azionisti non influisce sul suo valore di mercato. Questo perché gli elementi realmente

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significativi sono il flusso dei ricavi derivanti dagli investimenti, ovvero quelle componenti che hanno un impatto in termini reali. Per cui due imprese identiche tra loro eccetto che per la politica dei dividendi dovrebbero avere lo stesso valore di mercato, dal momento che la variazione dovuta ai dividendi viene compensata dai guadagni o le perdite in conto capitale. Infatti dividendi più elevati comportano guadagni in conto capitale più bassi e viceversa, mantenendo così inalterata la ricchezza complessiva.

A queste argomentazioni si lega anche il modello di Lintner (1963), secondo il quale le imprese hanno un obiettivo a lungo termine relativo al dividend pay out ratio, per cui i dirigenti si preoccupano più della variazione tra due esercizi piuttosto che del valore assoluto dei dividendi, dato che queste variazioni sottendono modifiche al livello di utili sostenibili nel lungo termine.

L’aspetto controverso di questa proposizione deriva dal fatto che spesso alla distribuzione dei dividendi fa seguito una qualche decisione reale da parte delle imprese e anche in questo caso l’attenzione degli analisti, economisti, giornalisti, ecc. alla politica dei dividendi e alle scelte di finanziamento delle imprese porta ad investigare riguardo le ipotesi del modello.

In questa circostanza gli elementi più significativi derivano dalla differente tassazione dei dividendi, dalle frizioni dei mercati e dal ruolo dei dividendi come segnale per il mercato.

Quello che sembra emergere è dunque un dividend puzzle in netta contraddizione con quanto predetto da Modigliani-Miller.

E’ opportuno considerare inoltre il modello di Modigliani-Miller per le sue implicazioni in termini di economia monetaria. Infatti talvolta al modello viene associata l’ipotesi di perfetta sostituibilità degli strumenti finanziari, che si realizza in presenza di certezza circa i rendimenti futuri degli investimenti. Occorre però ricordare che il mondo cui fanno riferimento Modigliani e Miller si caratterizza per l’incertezza dei rendimenti, ed infatti, come precisato dagli stessi autori, essi cercano di “...stabilire i principi che governano l'investimento razionale e la politica

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finanziaria in un mondo di incertezza..." secondo un approccio microeconomico di

equilibrio parziale centrato sulla singola industria.

A dispetto di un procedimento scientifico, rigoroso e lineare il modello di Modigliani-Miller conduce a soluzioni controverse, dibattute e in opposizione ai fatti osservati. Per queste ragioni sono nate a partire da questo cardine della finanza tutta una serie di teorie e argomentazioni atte a verificare quale ipotesi sia maggiormente critica e quale sia il reale comportamento delle imprese in relazione alla struttura finanziaria.

Infatti, come precisato da Miller (1989, pp.7) “...showing what doesn’t matter can

also show, by implication, what does.”.

1.1 Le teorie successive: trade-off, pecking order, free cash flow

theory ed il modello del ciclo di vita dell’impresa

Come detto, non esiste dunque una teoria universale relativa alla struttura del capitale, ma esistono numerose teorie condizionate alle quali è possibile fare riferimento, ognuna delle quali enfatizza fattori diversi, richiamando il modello di Modigliani-Miller e le sue ipotesi.

Come osservato da Comito (2006, pp.333) “si può partire dalla considerazione che

il mondo reale appare molto diverso da quello ipotizzato dai due autori. Nel mondo reale non si riscontra né una distribuzione “casuale” del livello di indebitamento tra le imprese, come si dovrebbe ricavare dalla prima teorizzazione dei due autori, né d’altro canto le imprese tendono a un livello d’indebitamento vicino al 100%, come implicherebbe la seconda ipotesi”. Ma tuttavia riprendendo il pensiero di

Damodaran (2015, pp.454) “Miller e Modigliani hanno avuto il merito di aver

fornito una visione organica dell’analisi della struttura finanziaria, basata sulla valutazione dei costi e benefici, in un periodo in cui la struttura finanziaria delle imprese sembrava dettata principalmente dal comportamento delle altre imprese e

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dalle preferenze individuali del management. Inoltre, la loro analisi ha evidenziato come alla base della creazione del valore vi sono buone decisioni di investimento: un’impresa che intraprende progetti scadenti non può sperare di recuperare il valore distrutto attraverso le politiche di finanziamento; invece, un’impresa che intraprende progetti validi riuscirà a creare valore, anche se la sua struttura ottimale non è quella ottimale.”.

A partire da un’analisi che contrappone i costi e i benefici della scelta relativa ad una certa struttura si sviluppano le cosiddette teorie del trade-off.

Secondo questa visione, le imprese cercano un livello del debito che sia tale da bilanciare i costi connessi alle potenziali difficoltà finanziarie e al rischio di dissesto (costi di bancarotta, riorganizzazione, dubbia creditworthness, ecc.) con i vantaggi fiscali derivanti dalla deducibilità degli oneri finanziari.

La non considerazione dei costi del dissesto in Modigliani-Miller rappresentava una scelta voluta, implicazione diretta della perfezione del mercato. Il modello della

trade-off theory rappresenta invece la logica conseguenza della rimozione di una

delle ipotesi.

Tale modello evidenzia la pressione esercitata dal debito sulla dinamica dell’impresa, evidenziando l’improrogabilità connessa agli oneri finanziari e alla restituzione della quota, con conseguente rischio di dissesto qualora vengano disattesi gli impegni.

Pertanto se da un lato il beneficio fiscale aumenta il valore dell’azienda, dall’altro il rischio di dissesto lo riduce in ragione dei costi connessi alla maggiore probabilità di

default.

Parlando di costi del dissesto è necessario distinguerne due tipologie: costi diretti, con riferimento ai costi relativi al processo di ristrutturazione aziendale ovvero di liquidazione in caso di fallimento, e costi indiretti, con riferimento ai problemi relazionali, organizzativi e gestionali derivanti dalla condizione di crisi dell’azienda (in generale di maggiore entità e di difficile quantificazione).

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In base a queste considerazioni, la teoria del trade-off postula pertanto la non insensibilità del valore dell’azienda alle scelte di indebitamento. In termini analitici ne deriva che il valore dell’impresa indebitata è pari a quello dell’impresa non indebitata cui deve sommarsi lo scudo fiscale e sottrarsi i costi del dissesto, espressi da VAD:

WL =WU +WT −VAD

Da questa relazione ne deriva che combinando benefici e costi marginali connessi all’indebitamento un’impresa dovrebbe essere in grado di giungere ad una struttura finanziaria ottimale.

Come sostenuto da Dallocchio, Tzivelis e Vinzia (2011, pp.5): “le aziende devono

aumentare l’indebitamento fin tanto che il beneficio dello scudo fiscale incrementale non è sopravanzato dalla crescita dei costi del dissesto finanziario.”.

In altre parole il valore dell’azienda non è insensibile alle scelte di struttura finanziaria dell’azienda, ossia le politiche del passivo creano valore, dato che esistono punti sub-ottimali in corrispondenza dei quali se si aumenta l’indebitamento si trae un beneficio (scudo fiscale) superiore agli oneri (costi del dissesto) e viceversa.

Graficamente:

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Fonte:Ross , Westerfield, Jaffe, Corporate Finance, 2005

Posto che il livello di equilibrio in questa teoria varia da azienda ad azienda nello spazio e nel tempo e che il concetto di livello di indebitamento è identificato solo in maniera generale e non analitica, il modello sembrerebbe suggerire ad un’impresa che cerca di massimizzare il proprio valore di fare ricorso al debito fintanto che la probabilità di difficoltà finanziarie è molto bassa.

Tuttavia nella realtà empirica esistono molte imprese che hanno alti giudizi di rating ed elevata credibilità(dunque elevate possibilità d’indebitamento), ma che operano con indici relativi al debito veramente bassi. Microsoft, ad esempio, ha per anni trattenuto i propri utili e fatto ricorso all’autofinanziamento in misura massiccia. Il mondo delle imprese sembra pertanto suggerire una relazione tra alti profitti e basso debito, in opposizione a quanto previsto dalla trade-off theory.

Si potrebbe opporre a queste argomentazioni una scarsa attenzione da parte dei manager agli aspetti di natura fiscale, ma l’esistenza di strumenti quali le azioni privilegiate a tasso variabile piuttosto che i leasing finanziari, mostra come nelle tattiche di finanziamento un peso rilevante venga, di fatto, attribuito alle imposte. E’ invece piuttosto difficile verificare che ci sia una premeditazione di questi aspetti e dunque un pensiero strategico sottostante, ma nonostante ciò tale aspetto non può essere trascurato.

In generale la teoria del trade-off risulta in grado di spiegare moderati livelli di debito ed è coerente con alcuni fatti ovvi, quali ad esempio quello per cui imprese con beni sicuri e tangibili tendono a prendere a prestito in misura maggiore rispetto ad imprese con beni intangibili. Rimangono tuttavia delle componenti lacunose legate alle ragioni sopraesposte.

Inoltre è opportuno osservare che le teorie del trade-off sono strettamente connesse alla definizione dei costi attesi d’insolvenza, e che pertanto ai fini dell’analisi rileva ciò che viene incluso in questa categoria. A riguardo Myers evidenzia il problema del debt overhang, per cui in presenza di debito, un'impresa che agisce nell'interesse dei propri azionisti potrebbe non sfruttare delle opportunità di investimento aventi

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un valore attuale netto positivo, poiché parte dei benefici da esse derivanti andrebbero a vantaggio dei creditori dell'impresa, senza alcuna ricaduta positiva per gli azionisti. Ciò potrebbe infatti costituire un ulteriore costo del debito, che andrebbe ad aggiungersi a quelli già considerati.

Un successivo modello riguardante le decisioni in merito alla struttura del capitale è la cosiddetta pecking order theory di Myers e Majluf (1984), che è strettamente legata al ruolo giocato dall’informazione al momento di una scelta, la cui origine risiede proprio nell’osservazione che aziende finanziariamente solide presentano bassi livelli di indebitamento.

In particolare gli autori fanno riferimento a un’impresa con un’opportunità di crescita, che necessita di finanziamenti addizionali, in un contesto di mercati perfetti, tranne per il fatto che gli investitori non sono a conoscenza del valore delle nuove opportunità ed hanno dunque difficoltà a quantificare in maniera precisa il valore dei titoli emessi.

L’emissione di azioni può avere una duplice valenza, positiva se rivela nuove opportunità o negativa nel caso in cui gli asset siano sopravvalutati e si voglia diluirne il valore sui nuovi azionisti.

Posta l’assunzione per cui i manager agiscono per conto degli attuali azionisti, essi si rifiuteranno di emettere azioni sottovalutate se il trasferimento dai vecchi ai nuovi azionisti non è bilanciato dalle opportunità di crescita.

Queste considerazioni portano in conclusione a un equilibrio pooling nel quale le imprese emettono azioni a un prezzo svalutato, non perché la domanda da parte degli investitori è inelastica, ma per effetto dell’informazione che gli investitori deducono, dando un maggior peso a quella negativa piuttosto che a quella positiva. In altri termini, il mercato tende a considerare l’emissione di azioni come un segnale della sopravvalutazione del titolo, applicando un conseguente sconto sul prezzo di collocamento, tanto maggiore quanto maggiore è la carenza di informazioni.

Tale previsione che l’annuncio di un’emissione di titoli farà immediatamente scendere il prezzo è confermata da molti studi. Asquith e Mullins (1986) ad esempio

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osservano che la perdita media del prezzo è circa il 3% della capitalizzazione di mercato dell’impresa precedente all’emissione, così come D’Mello e Ferris (2000), che notano come la caduta di prezzo risulti maggiore laddove l’asimmetria è maggiore, ad esempio per la presenza di pochi analisti.

Pertanto il debito diviene in questa circostanza una valida alternativa per finanziare la crescita, dato che i creditori essendo meno esposti ad errori di valutazione saranno in grado di stabilire un prezzo equo, considerando anche la mancanza di incentivi per i manager ad emettere debito nel caso in cui l’impresa sia invece sottovalutata. In conseguenza di ciò il capitale di rischio sarà utilizzato solo quando il debito è costoso, ossia quando il leverage ha già valori elevati, con il conseguente rischio di incorrere in difficoltà finanziarie.

Come riassunto da Dallocchio (2011, pp.9) “se per esempio il management di

un’azienda vuole emettere azioni e raccogliere così capitale di rischio, mediamente cercherà di farlo se ritiene che il prezzo corrente di mercato delle azioni è conveniente, ossia sopravvalutato. Se viceversa il prezzo corrente delle azioni fosse ritenuto dal management inferiore al valore reputato equo, allora l’azienda opterebbe per strumenti di debito. Tale ragionamento non sfugge certo al mercato che – in assenza di informazioni che possano indurre a pensare il contrario – considererà l’emissione azionaria come un’ammissione del fatto che il titolo è sopravvalutato e quindi chiederà uno sconto sul prezzo di collocamento”.

Quindi la teoria dell’ordine di scelta assume che il livello d’indebitamento non è funzione del rapporto equity-debito obiettivo, ma è risultante delle preferenze dell’azienda con riferimento alle differenti fonti e alle asimmetrie informative (ossia viene data priorità a quelle fonti che subiscono una minore penalizzazione).

In particolare la pecking order theory della struttura del capitale si articola nel seguente modo:

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• Le imprese preferiscono i finanziamenti interni agli esterni, ossia l’azienda preferisce l’autofinanziamento ed adatta la politica dei dividendi in ragione delle opportunità d’investimento.

• Se sono necessari fondi esterni per investimenti di capitale, le imprese emetteranno prima i titoli più sicuri, cioè obbligazioni (debito sicuro, rischioso, obbligazioni convertibili) e poi le azioni.

Date queste precisazioni è possibile affermare che secondo questa teoria ogni proporzione di debito delle imprese riflette il fabbisogno cumulativo di finanziamenti esterni.

Un aspetto da evidenziare è come, in accordo a questa teoria, l’attrattività dei benefici fiscali diventi un effetto di second’ordine, poiché in questo caso i rapporti d’indebitamento variano in relazione allo squilibrio tra il flusso di cassa interno e le opportunità di investimento.

La scelta di far ricorso a fonti interne può essere indotta anche dalle preferenze del management, che desidera da un lato tenere basso il rischio di default e dall’altro mantenere un ampio livello di flessibilità e autonomia strategica.

In altre parole, secondo la teoria dell’ordine di scelta, un'impresa finanzierà i propri investimenti ricorrendo alla forma di finanziamento il cui valore è meno sensibile rispetto alla particolare informazione oggetto dell'asimmetria informativa.

Pertanto la preferenza per il finanziamento interno non deriva da problemi legati alla separazione tra proprietà e controllo quanto piuttosto dalla necessità di massimizzare il valore di mercato in presenza di asimmetrie informative.

La pecking order theory spiega perché la maggior parte dei finanziamenti esterni proviene dal debito e spiega inoltre perché le imprese più redditizie prendono meno a prestito: non perché il loro target di proporzione relativo al debito è basso, ma perché hanno più disponibilità di finanziamenti interni.

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Con riferimento alle critiche mosse alla teoria è possibile considerare la mancanza di una struttura analitico-quantitativa di base, ed inoltre, non sembra in grado di spiegare quelle che sono le differenze settoriali nei rapporti d’indebitamento.

Infine i riscontri empirici sembrano produrre osservazioni coerenti sia per la trade-off che per la pecking order, ed inoltre non è raro il caso di aziende che si discostano da questo ordine di scelta, optando per l’emissione azionaria anche quando potrebbero finanziarsi col debito.

Un altro tipo di spiegazione che è possibile considerare è quella relativa alla teoria dei costi di agenzia (Jensen e Meckling,1976), dunque al problema della relazione principale-agente, che in ambito economico-aziendale fa generalmente riferimento alla separazione tra proprietà e controllo.

Gli attori aziendali si caratterizzano infatti per differenti funzioni di utilità e differenti informazioni, ed in ragione di queste specificità si generano potenziali conflitti d’interessi.

Un problema di agenzia esistente è, ad esempio, quello tra manager e azionisti/creditori. Infatti i manager, gli agenti, agiranno nel proprio interesse, e cercheranno salari più elevati di quelli del mercato, prerogative (vantaggi occasionali), sicurezza lavorativa (i cosiddetti perks), mentre gli investitori proveranno a scoraggiare questi trasferimenti di valore con meccanismi di monitoraggio e controllo, come la supervisione di direttori indipendenti, che tuttavia sono costosi e soggetti a rendimenti decrescenti, rendendo dunque impossibile un controllo perfetto.

Inoltre nel caso in cui esista il rischio di fallimento sorge anche un problema di agenzia tra azionisti e obbligazionisti. Infatti gli azionisti potrebbero spingere il management verso investimenti ad alto rendimento ma più rischiosi, considerando che in caso di esito positivo revitalizzerebbero l’azienda aumentandone il valore, mentre in caso di esito negativo gran parte dello svantaggio verrebbe sopportato dai creditori, i quali non vedrebbero adempiuti gli obblighi nei loro confronti.

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Quest’ultima tematica è quella che fa riferimento al concetto del risk shifting o asset

substitution. Per cui, data la responsabilità limitata, in caso di fallimento, la

proprietà di un’impresa non sopporta costi superiori al proprio investimento iniziale, trasferendo dunque gran parte del rischio associato alla possibilità di esito negativo del progetto a carico dei creditori.

Ne deriva che creditori razionali incorporeranno queste argomentazioni nel processo di determinazione del costo del debito, scaricando sugli azionisti il pericolo relativo all’attuazione di queste potenziali politiche opportunistiche e pertanto l’impresa sostiene oltre un certo livello di rischiosità percepita un costo superiore dovuto al problema d’agenzia del risk shifting.

I costi d’agenzia in questo caso sono dunque quei costi che fanno seguito a comportamenti cautelativi da parte dei creditori, e che si riflettono per effetto del maggior costo del debito con effetto immediato in maniera negativa anche sul valore dell’equity.

Per evitare questo incremento del costo del debito ex-ante l’azienda può fare ricorso a clausole covenant a protezione dei creditori, che imponendo limiti alla gestione in particolari condizioni aziendali tutelano gli interessi dei creditori.

Infine altro tipo di conflitto è quello tra manager e azionisti, che conduce alla teoria del free cash flow, più strettamente attinente alla determinazione della struttura del capitale, espressa dalla seguente citazione: “The problem is how to motivate

managers to disgorge the cash rather than investing it below the cost of capital or wasting it on organizational inefficiencies.”- (Jensen, 1976, pp.323).

I manager sembrano infatti propensi a ricercare obiettivi diversi dai dividendi o dal capital gain; essi sono infatti interessati alla crescita dimensionale e all’acquisizione di un maggior prestigio. Ne deriva che i costi di agenzia sull’equity sono legati all’adozione di politiche volte a contenere i danni derivanti da questo conflitto d’interesse.

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Infatti in presenza di abbondanti free cash flow sorgono principalmente due problematiche: il management tende ad investire in progetti aventi un valore attuale netto negativo ed inoltre si ha una maggiore tolleranza verso gli errori decisionali. In questo senso il debito si configura come soluzione ai seguenti problemi d’agenzia, obbligando l’impresa a rimborsare il denaro alle scadenze e facendo desistere il management dall’intraprendere progetti improduttivi.

Al debito viene dunque riconosciuto un ruolo di disciplina, poiché l’aumento della probabilità di dissesto spinge i manager ad attuare una gestione più accorta e rigorosa con effetti positivi sull’equity.

In questo senso le scelte di struttura finanziaria, grazie alla funzione moralizzatrice del debito, permettono di ridurre gli agency cost, evitare la dispersione di risorse, generando indirettamente valore per gli azionisti.

In accordo a varie motivazioni storiche le operazioni di leverage buy-out degli anni ’80 sembrano confermare questa argomentazione dato che si manifestarono come tentativo di risolvere queste problematiche, mediante interventi shock volti a vendere beni sottoutilizzati, tagliare gli investimenti e rinforzare gli incentivi per il management.

Questa spiegazione relativa ai benefici d’agenzia connessi al debito risulta adatta per “ASA cash-cow”, ossia aree strategiche d’affari aventi dimensioni rilevanti in un mercato ormai maturo, che sono propense a sovrainvestire, ma difficilmente si presta a spiegare la composizione ed il ruolo della struttura finanziaria in termini più generali.

La teoria del free cash flow non si configura infatti come una teoria che indaga la fase di scelta e definizione della struttura del capitale, ma rappresenta piuttosto una teoria circa le conseguenze di alte proporzioni di debito.

In generale da questi modelli di agenzia sembra emergere non tanto l’esistenza di un livello ottimo relativo al debito, ma piuttosto di tanti livelli d’indebitamento ottimi a seconda di quanti e quali sono gli interessi che hanno i vari attori aziendali.

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Un altro possibile modello di riferimento è quello del ciclo di vita dell’azienda, che si struttura sull’esistenza di una relazione tra il livello di indebitamento e la dimensione dell’azienda.

Ciò che tuttavia non risulta chiaro è la direzione del legame. In accordo a una prima visione infatti il legame tra dimensione e leverage risulterebbe essere negativo, per cui la maggior dimensione comporta minori costi di emissione dell’equity, minore incidenza del controllo, più alto rischio di dissesto, mentre nella prospettiva opposta alla maggiore dimensione viene attribuita una maggiore diversificazione, minori costi di agenzia del debito, maggiore difficoltà ad incrementare l’equity, e la relazione sarebbe dunque positiva.

Come spiega Venanzi (2010, pp.40) “E’ certa l’influenza della variabile sul

rapporto di indebitamento. Sono meno certi, di contro, sia il segno del legame con il leverage che la spiegazione teorica sottostante [...] Anche la linearità della relazione non è certa [...]. In molti casi la dimensione non è considerata semplicemente una determinante del leverage, ma una caratteristica che discrimina a monte i fattori che intervengono nella scelta della struttura finanziaria e quindi influenza il “tipo” di legame determinanti-leverage osservabili”

A prescindere dal tipo di lettura soggettiva definita, il modello ipotizza che le scelte di finanziamento varino in relazione alla fase del ciclo di sviluppo in cui si trovi l’azienda, ossia ipotizza che vi sia uno stretto legame tra strategie finanziarie e sviluppo aziendale, considerando che la crescita dell’azienda e il suo sviluppo concorrono a determinare le scelte competitive relative ai mercati finanziari.

La determinazione del livello d’indebitamento è pertanto funzione di questi elementi.

In tal senso nella fase di introduzione l’azienda è impegnata a fare l’ingresso sul mercato, è elevato il fabbisogno di capitale, ma allo stesso tempo si richiede un’elevata flessibilità e pertanto il leverage è basso se non nullo, ed i costi di agenzia sono bassi non essendoci separazione tra proprietà e controllo.

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In fase di espansione l’azienda è impegnata a crescere, aumentano gli investimenti, il livello di indebitamento è crescente con conseguente maggior peso degli oneri finanziari, i costi di agenzia continuano ad esser bassi.

Nella fase di crescita l’azienda cerca di raggiungere il massimo sviluppo, le opportunità di investimento diventano numerose, aumenta il livello di indebitamento ma si riduce il peso degli oneri finanziari in ragione dell’esistenza di maggiori garanzie, e crescono i costi di agenzia per effetto della separazione tra proprietà e controllo imposta dallo sviluppo.

Nella fase di maturità l’azienda ha raggiunto il massimo delle potenzialità ed è impegnata nella stabilizzazione delle proprie performance; i valori connessi a investimento, indebitamento sono dunque stabili, mentre elevati sono i costi di agenzia, anche se si ha una riduzione dell’asimmetria informativa per effetto del ruolo giocato dai mercati finanziari.

Infine nella fase di declino l’azienda non è più capace di affrontare il mutato scenario competitivo e le variabili in questione assumono risvolti critici.

Graficamente il percorso può essere rappresentato nel modo seguente:

Tabella 4: la teoria del ciclo di vita dell’impresa

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E’ infine opportuno notare con riferimento a questo modello il ruolo importante giocato dalle dinamiche di settore, dato che la caratterizzazione settoriale sembra assumere un ruolo rilevante nella determinazione del leverage (ciò non è necessariamente vero qualora si tratti di un settore soggetto a discontinuità, per cui non stabile), considerando che “Le aziende all’interno dei vari settori condividono

infatti le principali caratteristiche economico-finanziarie e pertanto tendono ad adottare politiche finanziarie che riflettono in maniera similare i vantaggi e gli svantaggi del ricorso al debito [...] Ne consegue che la scelta del rapporto di indebitamento ottimale osservando il comportamento dei competitor può essere un comportamento razionale, soprattutto osservando le aziende all’interno del settore che si trovano ad attraversare la stessa fase del ciclo di vita” – (Dallocchio, 2011).

Altre argomentazioni si distanziano infine dalle ipotesi di mercati efficienti facendo riferimento ad aspetti di finanza comportamentale. Per cui secondo i principi del

market timing, le decisioni di un'impresa riguardo alla propria struttura del capitale

non sarebbero motivate da considerazioni di ottimalità, né da preoccupazioni circa l'informazione che una data scelta di finanziamento rivelerebbe al mercato, ma sarebbero semplicemente guidate da ciò che il mercato, in un dato istante di tempo, preferisce, per motivi non necessariamente "razionali".

In generale, tutti i modelli citati cercano di capire quale sia il reale obiettivo di massimizzazione dei manager in relazione alla scelta della struttura finanziaria e sono guidati da fattori diversi ( tasse, costi di agenzia, informazione, ciclo di vita, tendenze del mercato), ognuno dei quali ha indubbiamente un peso nelle strategie finanziarie delle imprese. Esistono esempi convincenti per ognuna di queste teorie, che mostrano come a livello econometrico, ognuna di esse abbia una propria significatività, che però può essere poco informativa per effetto di correlazioni spurie e in relazione all’eterogeneità del campione scelto. E’ pertanto opportuno analizzare successivamente quelle che sono le evidenze empiriche relative a questi modelli.

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Capitolo 2

L’incompletezza contrattuale e l’assegnazione dei diritti

residuali di controllo in differenti stati di natura

2.0 Il modello di Aghion e Bolton

Il ruolo giocato dai problemi di agenzia nelle tematiche di corporate governance è indubbiamente evidente, basti pensare ai problemi di separazione tra proprietà e controllo, alla nascita di differenti sistemi di amministrazione volti a ridurre il gap informativo e favorire la trasparenza, alla normativa relativa all’insider trading e all’abuso di informazioni privilegiate.

Questa potrebbe però non essere l’unica questione rilevante; in particolare, l’attenzione si concentra adesso su una tematica parzialmente differente, ossia quella relativa all’incompletezza contrattuale, la cui espressione è stata coniata per descrivere quelle circostanze in cui non è possibile prevedere tutte le eventuali fattispecie future che possono interessare un certo contratto.

Il filone di letteratura che ne deriva assume la relazione tra imprenditore o manager e investitori come dinamica. Pertanto con l’evolversi di questo rapporto nel tempo emergono fattispecie, eventualità, accadimenti che difficilmente potevano essere previsti e regolati dal contratto iniziale, rendendo quest’ultimo di fatto incompleto. In particolare, l’origine dell’incompletezza contrattuale è da ricercarsi nella razionalità limitata degli attori economici, nella distribuzione asimmetrica dell’informazione e nella presenza di costi di transazione sufficientemente elevati. Il legame esistente tra la razionalità degli attori economici e la capacità di definire un contratto ottimo è piuttosto intuitivo e porta a concludere che in presenza di razionalità limitata “tutti i contratti complessi sono necessariamente

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post, ricorrendo a meccanismi che permettano l’adattamento al verificarsi di eventi non considerati nel contratto originario.

Per quanto riguarda l’informazione asimmetrica è possibile osservare che questa da un lato limita la capacità dei contraenti di completare l’accordo e dall’altro fa aumentare la probabilità che si verifichino potenziali inefficienze.

Infine, pur ammettendo che gli agenti riescano a prevedere e descrivere ogni possibile contingenza futura e che tutte le variabili rilevanti siano osservabili dai contraenti e verificabili dai terzi chiamati a far rispettare il contratto (es. un tribunale), la definizione di un contratto così dettagliato potrebbe risultare eccessivamente onerosa ed i benefici derivanti dalla predisposizione di un accordo contingente potrebbero essere inferiori ai costi sostenuti per ottenerlo.

Uno dei primi modelli relativi a questa tematica è quello sviluppato da Aghion e Bolton(1992), con riferimento ai contratti di tipo finanziario, il quale analizza il contratto di lungo termine tra un imprenditore privo di ricchezza iniziale e un potenziale investitore.

Com’è facilmente pronosticabile esistono in questa circostanza numerosi potenziali conflitti d’interesse derivanti dalla natura dei benefici a cui le parti sono interessate. Nello specifico, si supponga che l’investitore sia interessato unicamente a benefici di carattere pecuniario, dunque a massimizzare il rendimento del suo investimento, mentre l’imprenditore sia interessato anche a benefici di carattere non monetario, elementi quali il successo, la gratificazione personale, il coinvolgimento, gli agi, ossia tutti quei benefici non quantificabili in maniera esatta noti in letteratura come

perks.

L’interrogativo alla base del modello è scoprire se, dati interessi diversi, sia possibile realizzare un contratto iniziale strutturato in modo da ottenere una perfetta coincidenza degli obiettivi delle parti e valutare come i diritti residuali di controllo connessi al contratto siano distribuiti per ottenere una soluzione efficiente.

L’ipotesi chiave alla base è che i contratti finanziari sono per loro natura intrinsecamente incompleti, data l’esistenza di tutta una serie di eventi difficilmente

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prevedibili o non descrivibili o valutabili nell’impatto al momento della stipula del contratto.

A titolo di esempio si consideri il caso di un family business. In caso di difficoltà in una circostanza simile potrebbe esistere un trade-off tra la volontà di mantenere l’assetto familiare concentrato e la necessità di preservare l’integrità del business, delineando così tutta una serie di possibilità intermedie relative alle condizioni di accesso al credito e all’assegnazione dei poteri di controllo.

In ragione di queste argomentazioni il modello si configura come una teoria della struttura del capitale basata sui diritti residuali di controllo che delinea le tematiche relative alla contingent control allocation. In particolare la ricerca di nuovi fondi potrebbe avvenire mediante l’emissione di equity, comportando dunque la cessione di quote di controllo, oppure mediante la sottoscrizione di debito, con conseguente aumento del rischio di default. Come già specificato nei modelli visti in precedenza, in accordo al principio di razionalità, la scelta verrà effettuata pesando i differenti costi marginali associati alla scelta di un certo tipo di fonte di finanziamento piuttosto che un’altra, dando anche rilievo al processo di decision-making e dunque all’ordine di scelta relativo alle decisioni, dato che adesso uno strumento finanziario non è descritto solo dai flussi di reddito che esso genera ma anche dai diritti di controllo che attribuisce al suo detentore.

Ne deriva che la scelta della struttura finanziaria è rilevante nel definire come i poteri di controllo debbano essere allocati tra le varie parti del contratto, ossia è rilevante nella definizione dell’assetto di governance dell’impresa. In altri termini viene introdotto uno stretto legame tra la natura del passivo di un’impresa e le decisioni relative alla sua gestione.

Come specificato da Williamson (1988, pp.180), tale questione non è poi così differente dalle decisioni di fare o meno ricorso all’integrazione verticale: “The

Corporate finance decision to use debt or equity to support individual investment projects is closely akin to the vertical integration decision to make or buy individual components or subassemblies".

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