Christa Wolf rilegge dunque il mito alla luce della propria condizione di straniera, esiliata volontaria, per discolpare non solo se stessa dalle ingiurie subite, ma soprattutto per dar voce a chi, come lei e come Medea, ha dovuto innocentemente sopportare il giogo di colpe e di crimini inesistenti. Troppo spesso, infatti, nella sua storia l‘uomo ha dovuto trovare un capro espiatorio, il più delle volte innocente, a cui attribuire la responsabilità di errori e fallimenti comunitari, per renderlo soggetto di tali accuse e dunque condannarlo all‘espiazione della colpa. In un‘intervista di Anna Chiarloni, datata 24 maggio 1997, Christa Wolf dichiara:
25―L‘‘ipseità del se stesso implica l‘alterità a un grado così intimo che l‘una non si lascia pensare senza
Marianna Pugliese
La ricerca di un capro espiatorio è un istinto incredibilmente forte e radicato dentro di noi. Durante la Wende26 si è visto che proprio la Ddr e
molti di quanti vi avevano vissuto sono stati demonizzati e poi trasformati in capro espiatorio, il che non è molto caritatevole. (in Schiavoni, cur., 1998: 39).
Gli spunti offerti dall‘esperienza personale dell‘autrice e dai conflitti culturali tra oriente e occidente, dunque, non furono i soli a motivare la stesura del romanzo: sicuramente furono tra i primi impulsi di scrittura, ai quali presto però se ne aggiunsero prepotentemente altri, più forti e profondi, come il dubbio e lo scetticismo che l‘autrice nutriva nei confronti di una intera civiltà votata all‘autodistruzione e alla violenza.
Per me la questione di fondo, tanto per Cassandra, quanto in sostanza per
Medea, era la seguente: quando e perché la civiltà nella quale viviamo è
diventata così autodistruttiva? (ibid.: 42).
All‘inizio degli anni Ottanta, infatti, quando per la prima volta Christa Wolf si avvicina al mito classico con Kassandra, l‘Europa viveva un periodo di grande angoscia, dettato dalla paura di una guerra atomica e dalla possibilità che l‘intera Germania potesse essere distrutta, visto che ad ovest erano stati montati missili americani, ad est quelli sovietici, e sul confine intertedesco missili a media gittata. Ed è proprio la veggente Cassandra ad indagare le dinamiche che conducono alla guerra, dimostrando come gli interessi economici e di potere siano determinati da valori e pensieri tipici delle società patriarcali.
L‘interrogativo sull‘origine della violenza e sulla tendenza al reciproco annientamento diventa così per Christa Wolf sempre più impellente, fino a quando, procedendo a ritroso nel tempo in un cammino che la condurrà fino ad Omero, si avvede che tutta la grande letteratura occidentale prende avvio dalla letteratura di guerra. Risalendo fino all‘Iliade, fino alla guerra di Troia, si imbatte appunto nella figura di Cassandra, che costituirà per lei solo lo spunto per una nuova, strenua ricerca: quella delle fonti, oltre i grandi classici.
Marianna Pugliese
Appena iniziai a confrontarmi con la letteratura, con il mito, dovetti risalire oltre i grandi classici greci. Quando ci si addentra nelle fonti, si viene catturati sempre più. Da tutto questo materiale scaturisce una grande quantità di dettagli, di cose belle, di elementi legati ai sensi: anche per Medea è stato di uovo così. Poi le vicende hanno assunto i loro aspetti specifici, quello sensoriale, quello quotidiano, e a quel punto la struttura che in origine avevo in mente è del tutto passata in seconda linea (Chiarloni, 1997b, in Schiavoni, cur., 1998: 72).
Questo cammino affascinante e impervio, che la guiderà fino alle origini più nascoste del mito, si intreccia con la riflessione sempre più serrata sul bisogno umano di trovare un capro espiatorio e sulla necessità della violenza come strumento di ordine sociale. ―La ricerca mitologica apre altri scenari, invita all‘esplorazione di altri mondi‖, annota Anna Chiarloni (2007a: 111), e così, partendo dalla ―sfiducia ontologica nei confronti del sociale‖ (ivi), Christa Wolf insegue nuovi orizzonti, ricerca nuove prospettive.
Per Medea la questione fondamentale era la seguente: per quale ragione abbiamo sempre bisogno di vittime umane? Perché in modo ricorrente si verifica il sacrificio di interi popoli, oppure di intere ―razze‖, o anche di singoli individui? Perché abbiamo bisogno di tutto ciò? Questi erano in realtà i problemi di fondo, che sempre più mi catturarono mentre lavoravo all‘argomento (Chiarloni, 1997a, in Schiavoni, cur., 1998: 42).
Ma perché identificare proprio in Medea il capro espiatorio perfetto? Perché proprio lei, la maga sapiente, la figlia di Eete, viene scelta come vittima sacrificale? E perché poi costringerla a testimoniare tanta violenza a Corinto così come era accaduto in Colchide? Per rispondere a queste domande occore brevemente esporre la teoria girardiana del sacrificio e, dunque, le acquisizioni concettuali riguardo il desiderio mimetico, il mito, il capro espiatorio, e la necessità del sacrificio ai fini della coesione sociale, proposte da Renè Girard ne La violenza e il sacro e da cui appunto Christa Wolf decide di trarre due epigrafi al suo romanzo.
Girard certamente mutua il concetto di capro espiatorio dall‘episodio biblico narrato nel Levitico (16, 5-10), dove si racconta come, durante il rito per il Giorno dell‘Espiazione, Aronne, fratello di Mosè e sacerdote prototipico, prese due capri e tirò a sorte per deciderne il destino: ne offrì uno al Signore, l‘altro invece lo inviò nel deserto come offerta ad Azazel, dopo
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aver imposto su di lui tutte le colpe del popolo d‘Israele. Girard dunque recupera l‘immagine del capro espiatorio, ma la rinfunzionalizza attribuendole un significato nuovo: per l‘antropologo francese, infatti, il capro espiatorio non è più inserito nel quadro di un rituale, ma si configura come vittima casuale di un linciaggio ripetibile, sulla quale si scarica la violenza collettiva accumulata in seno alla comunità. Girard sostiene che il capro espiatorio paghi delitti e colpe della comunità in maniera del tutto arbitraria, sulla base di spesso immotivate, ma insindacabili, ragioni di selezione vittimaria. La sua immolazione sembra essere l‘unica soluzione alla violenza che nasce dal cosiddetto ―desiderio mimetico‖, vale a dire da quel desiderio smodato di volere quello che gli altri vogliono e che, nelle società tradizionali così come in quelle moderne, genera una violenza diffusa, placabile solo mediante il sacrifico rituale. Il desiderio mimetico si spiega attraverso una dinamica per così triangolare: non procede direttamente dal soggetto all‘oggetto, ma molte volte è mediato dall‘altro, ovvero da un terzo elemento che ne provoca la reiterazione nel momento in cui egli stesso inizia a desiderare l‘oggetto del desiderio altrui. Questo istinto di imitazione provoca una vera e propria reazione a catena per cui il desiderio stesso, sia esso positivo o negativo, pacificatore o violento, si propaga e si diffonde in maniera smisurata e incontrollabile. La rivalità mimetica che si sviluppa a partire dai conflitti per l‘appropriazione degli oggetti è infatti contagiosa, e la minaccia più impellente è quella della violenza generalizzata, essendo essa stessa appunto imitativa. Ogni comunità, a questo punto, per proteggersi dalla sua stessa violenza, deve ricorrere al sacrificio di vittime a lei esterne, in modo da ―unire i cuori e stabilire l‘ordine‖(Girard, 1980: 23), restituendo così armonia e pace al gruppo sociale in crisi Quando la violenza non può scaricarsi sul nemico reale che l‘ha provocata, deve necessariamente riversarsi su un bersaglio sostitutivo, su una sola vittima arbitraria, che la folla unanimemente identifica ed elegge per la distruzione.
Marianna Pugliese