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nanziario, per spiegare che azioni hanno messo in campo nella loro attività, per tute- lare l’ambiente, per una corretta gestione del personale, per garantire il rispetto dei diritti umani e la lotta alla corruzione. Il docu- mento è redatto sotto la responsabilità del consiglio di amministrazione ed è soggetto a revisione come il bilancio di tipo finanziario. E’ una nuova strada interessante da percor- rere, anche perché gli investitori sono sempre più interessati alle aziende con un elevato tasso di sostenibilità. Si stima che il 30% degli asset totali gestiti oggi a livello mondiale sia rappresentato da investimenti “responsabili” e “sostenibili”, mentre la finanza a impatto sociale (Impact investing) ha un mercato sti- mato in 60 miliardi di dollari.

Molte grandi aziende in Italia hanno già esperienza di bilanci di sostenibilità e, a un livello ancora più evoluto, di bilancio inte- grato. Ma a che punto siamo rispetto al resto del mondo?

La parte dedicata ai bilanci rivela che le im- prese italiane hanno un po’ di ritardo da re- cuperare rispetto ai “primi della classe” a livello internazionale. Ci sono differenze per i singoli settori: mentre le aziende dell’indu- stria alimentare e dell’energia e dei trasporti adottano con più frequenza il bilancio di so- stenibilità e il bilancio integrato, quelle del “fashion” e del settore assicurativo diffon- dono meno informazioni (o nessuna) sulle strategie CSR adottate. Obiettivo della legge, dunque, non è solo indurre le aziende a co- municare in modo corretto e oggettivo gli impatti “non finanziari” della loro attività

(spesso indicati con l’acronimo ESG, ovvero Environmental, Social, Governance), ma far in modo che questi temi entrino a far parte dei target aziendali, favorendo un cambia- mento non solo organizzativo ma soprat- tutto culturale.

Se una azienda è costretta a comunicare che la propria attività determina conseguenze negative per una serie di stakeholder atipici (ambiente, dipendenti, società, ecc.), sarà stimolata con più probabilità a fare qualcosa per migliorarla, con possibili effetti positivi sull’immagine pubblica. Ma cosa comporta la norma nel dettaglio? La legge vincola esplicitamente la “disclosure” di temi come l’uso delle risorse naturali, le emissioni in- quinanti, la corruzione attiva e passiva, le pari opportunità di genere e i diritti umani. Le informazioni riportate dovranno essere misurate attraverso indicatori quantitativi. Chi non rientra nell’obbligo, può comun- que decidere di sottoporsi volontariamente al regime della legge, di cui regolamenti e circolari di chiarimento stanno man mano definendo i dettagli. A sovrintendere è chia- mata la Consob. La modalità comunicativa

è abbastanza libera: le informazioni non fi-

nanziarie possono costituire una parte au- tonoma e completa del documento di bilancio, essere sparse nelle varie sezioni o costituire, in tutto o in parte, documenti esterni (purché di pubblico dominio, ad esempio il sito aziendale, e richiamati all’in- terno del bilancio). La scelta deve essere fun- zionale alla chiarezza comunicativa: ad esempio dati relativi alle emissioni potreb- bero essere “delocalizzati” nella parte della

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relazione di gestione dedicata agli investi- menti, se questi ultimi ne spiegano la ridu- zione. Anche i principi contabili e di calcolo degli indicatori non sono rigidi: è infatti possibile utilizzare standard esistenti (ad esempio GRI), oppure inventarsene dei pro- pri (purché adeguatamente descritti). L’uso della comunicazione gioca qui il ruolo più rilevante: la comunicazione, infatti, è a tratti ancora molto critica soprattutto se as- sociata – esclusivamente – ai bilanci di so- stenibilità (la cui certificazione, spesso, è molto discutibile per la sola ragione che il certificatore non può essere pagato da colui che certifica) o a lettere di impegno verso gli stakeholder che sembrano essere sempre più un mero copia e incolla di altre lettere. Comunicare la CSR significa aver creato an- zitutto un flusso di comunicazione interna, e poi esterna, anche grazie alla digital com- munication.

Per questo motivo credo che la materia della CSR debba essere molto vicina agli organi di governo dell’azienda e creare un percorso e un dialogo costante dal basso verso l’alto, integrato con tutte le direzioni aziendali. Trovo molto interessanti quei pochissimi percorsi aziendali che lavorano in maniera realmente sostenibile con obiettivi di lungo periodo, senza avere la necessità di lanciare – tout court - comunicati stampa di natura

propagandistica o messaggi molto vicini alla comunicazione marketing come se la soste- nibilità fosse un prodotto da scaffale, da comprare in un supermercato.

Non abbiamo bisogno di bilanci certificati, ma di professionisti certificati da studi in materia CSR e da esperienze nazionali e in- ternazionali che nulla hanno a che fare col il semplice calcolo della C02 risparmiata in un anno.

La mia è una semplice provocazione atta a stimolare il lettore, gli appassionati al tema della sostenibilità e, non ultimi, i tecnici della materia a incontrarsi in una sorta di stati generali al fine di porre una volta per sempre linee guida certe e riconosciute da tutti, almeno per quanto riguarda il nostro Paese, pensando altresì a una proposta di legge che possa essere risolutiva di tante di- storsioni che ancora leggo e osservo nei per- corsi o nella comunicazione di tante aziende nazionali.

Capisco che vada di moda parlare di soste- nibilità, ma la domanda mi sorge spontanea: sarà forse perchè di scelte e programmi so- stenibili concreti nel lungo termine ne vedo pochi?

Risale al 1970 l’articolo di Milton Friedman pubblicato sul “The New York Times Maga- zine”, intitolato “The Social Responsibility of Business is to Increase its Profits”, cioè tradotto letteralmente: “la responsabilità sociale di un’impresa è quella di aumentare i propri profitti”. L’esponente di spicco della scuola di Chicago, nonché premio Nobel per l’eco- nomia nel 1976, riconosceva nei profitti, o meglio nella massimizzazione del valore per gli shareholder, il fine ultimo dell’impresa. Questa visione economica, affermatasi come predominante, ha finito per creare distor- sioni sotto il punto di vista sociale1 e am-

bientale2, evidenziandone i relativi limiti.

In altre parole, la visione economica impe- rante negli anni passati era segnata dal per- seguimento del profitto come vincolo imprescindibile delle imprese dove, conni- vente con l’idea delle risorse illimitate, ve- niva trascurata l’azione impattante delle imprese sull’ambiente.

La responsabilità sociale d’impresa (Corpo- rate Social Responsibility, o brevemente “CSR”), fino a qualche anno fa, era “sfrut- tata” dalle aziende per giustificare il proprio impatto sulla collettività unicamente in ot- tica comunicazionale, mettendo molto spesso in atto comportamenti irresponsabili e opportunistici. Esemplare al riguardo è la pratica del “greenwashing”, ossia campagne di comunicazione che mirano a “ripulire” l’immagine delle imprese, raffigurandole come sostenibili, quando in realtà esse hanno un alto e significativo impatto sul- l’ambiente.

Quanto finora esposto pone non poche ri- flessioni sul complesso contesto socio-eco- nomico di cui siamo parte. In un mondo in rapido e costante cambiamento, tanto per i legislatori quanto per le imprese è di vitale

1Alla vigilia del World Economic Forum di Davos del

2019, è stato pubblicato da Oxfam, una confederazione di organizzazioni no profit con l’obiettivo di ridurre la

povertà nel mondo, un rapporto che evidenzia come l’1% più ricco del pianeta detiene quasi la metà della ricchezza aggregata netta totale (47,2%) mentre 3,8 miliardi di per- sone (rappresentanti le persone più povere del mondo), possono contare appena sullo 0,4% della ricchezza mon- diale. Questo processo di accentramento della ricchezza sembra essere inarrestabile e interessa anche il nostro Paese, considerando che il 20 % più ricco controlla il 72% della ricchezza nazionale totale, che sale all’87,6% della ricchezza posseduta/controllata se consideriamo un’ul- teriore 20% della popolazione, lasciando pertanto ap- pena il 12,4% dell’intera ricchezza nazionale al restante 60%. Questa disomogeneità è ancora più accentuata nei Paesi poveri e di recente sviluppo economico.

2La tutela ambientale rientra tra i grandi problemi che

tutti i Paesi del mondo devono affrontare, non essendo più rinviabile sine die questo aspetto. Ricercatori e stu-

diosi segnalano l’imminente avvicinamento del c.d. punto di non ritorno, inteso come il momento in cui il contenimento del riscaldamento globale sarà irreversibile con tutte le conseguenze che ne derivano: siccità, deser- tificazione, scioglimento dei ghiacciai, innalzamento del livello del mare, estinzione di ecosistemi e intensifica- zione di tempeste e uragani. Il futuro del nostro Pianeta, così come lo conosciamo, è in pericolo. Emblematica è la

scomparsa in Islanda nell’estate del 2019 del ghiacciaio Okjökull a causa dal riscaldamento globale. Dove giaceva il ghiacciaio è stata apposta una targa commemorativa rivolta ai posteri: “Ok è il primo ghiacciaio islandese a perdere il suo status di ghiacciaio. Nei prossimi 200 anni tutti i nostri ghiacciai potrebbero fare la stessa fine. Que- sto monumento serve a riconoscere che sappiamo cosa sta succedendo e sappiamo cosa deve essere fatto. Solo voi saprete se l’abbiamo fatto.”

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CSR e imprese sociali

di Riccardo Bertuccioli