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Lo sviluppo produttivo dell'agricoltura italiana. A) La componente fisica

Il settore agricolo

2. Lo sviluppo produttivo dell'agricoltura italiana. A) La componente fisica

Poco più di 9/10 di tutto il territorio del nostro Paese, cioè 27,8 su 30 milioni di ettari, sono utilizzabili per produzioni agricole e forestali. Va tuttavia tenuto presente che questa superficie è occupata per 1/4 da boschi, 5,7 milioni di ha., e quindi solo 21 milioni di ha. sono da attri-buirsi a superficie agraria propriamente detta.

Di questi, 5 sono destinati a colture foraggere permanenti (prati e pascoli permanenti), 2,5 a colture legnose specializzate (oliveti, vigneti, frutteti, ecc.) e poco più di 13 milioni di ha, rappresentano i veri e propri terreni seminativi per piante erbacee (cereali, ortaggi, canapa, ecc.).

Sostanzialmente quindi solo il 59 % del suolo agrario forestale è desti- ' nato ai seminativi e alle colture legnose specializzate.

Esaminiamo ora più dettagliatamente il panorama della geografia agricola italiana sulla base delle classificazioni usate dall'INEA, l'Istituto Nazionale di Economia Agraria.

a) Abbiamo innanzitutto una zona che comprende il semicerchio delle Alpi e che viene classificata come « zona di montagna alpina ». La economia prevalente è tipicamente agro-silvo-pastorale, con diffusa la piccola proprietà contadina completata dallo sfruttamento dei boschi e dei pascoli di proprietà collettiva. Sono i demani comunali, le « vici-nie », ecc. La superficie lavorabile si stima attorno ai 725.000 ettari.

b) I territori e gli altopiani a sud della cerchia alpina, dalle col-line meridionali del Piemonte, della Lombardia, del Veneto e della Ligu-ria, rappresentano le zone « prealpine » con il prevalere della conduzione familiare di contadini proprietari, affittuari e anche coloni parziari. Le terre sono di frequente densamente alberate. La superfìcie lavorabile è stimata a circa 2 milioni 235 mila ettari.

c) Un vasto suolo irriguo della bassa piemontese e lombarda alla sinistra del Po costituisce una zona tipica ad agricoltura capitalistica intensiva. L'utilizzazione è quasi interamente zootecnico-cerealicola, vi si utilizzano largamente le macchine, i concimi. Buone le opere edilizie. Pre-vale il salariato. La superficie lavorabile, è stimata a 1 milione 287 mila ettari.

d) Nelle terre di recente bonifica della bassa padana, alla destra del Po, vi è larga diffusione di colture industriali, oltre alle cerealicole e alla frutticoltura.

Non tutte le zone sono appoderate e vi si registra l'evoluzione più notevole verso metodi moderni di conduzione. Larga è l'utilizzazione di un denso bracciantato. La superfìcie lavorabile della zona è calcolata a 695 mila ettari.

e) Un'altra zona comprende la Toscana, le Marche, l'Umbria, la zona litoranea degli Abruzzi, la montagna e la collina emiliana e le terre

di vecchia bonifica della pianura padana. Zona questa a prevalente appo-deramento con forme di colonia e mezzadria. Si stimano 3 milioni 776 mila ettari di superficie lavorabile.

/) Il litorale tosco-laziale, parte della Campania, Puglie e Basili-cata costituiscono una zona con agricoltura capitalistica estensiva, ad economia cerealicola-pastorale, con buona meccanizzazione e impiego di salariati. Copre una superficie lavorabile di 885 mila ettari.

g) Una « zona meridionale » ad agricoltura promiscua contadina, e con una superficie di 1 milione 508 mila ettari lavorabili, comprende la posizione centrale dell'Abruzzo, del Lazio, della Campania, della Basilicata e della Calabria. Si tratta della fascia collinare e appenninica, cui si deve aggiungere il territorio settentrionale della Sardegna.

h) Un'altra zona meridionale comprende i territori della dorsale appenninica della Campania, delle Puglie e della Calabria lungo il litorale jonico, buona parte dei territori interni della Sicilia e quelli centro-meri-dionali sardi.

E' la cosiddetta zona del latifondo contadino, di 2 milioni 764 mila ettari, con piccole imprese di contadini proprietari e compartecipanti, con prevalenti colture cerealicole, con aziende poco autonome per l'incapacità a fornire reddito e lavoro sufficienti.

i) Infine vi sono i territori litoranei della Puglia, Campania, Cala-bria (sul versante tirrenico) e parte della Sicilia. Qui si attua un'agricol-tura intensiva, quasi sempre con arboricolun'agricol-tura specializzata. Si stima a circa 2 milioni 200 mila ettari di superficie lavorabile.

S) Il reddito agricolo.

Il valore della produzione lorda vendibile dell'agricoltura si stimava, in lire odierne, intorno ai 2.500 miliardi di lire annue nell'anteguerra. Attualmente supera i 3,000 miliardi (3.143 nel 1956). Vi si devono poi aggiungere un centinaio di miliardi all'anno per la produzione forestale (110 nel 1956) e quasi una cinquantina di miliardi per i prodotti della pesca e della caccia (46 nel 1956).

Il « prodotto netto » è però complessivamente valutato intorno ai 2.500 miliardi di lire: vanno infatti dedotti dal prodotto lordo circa 600-700 miliardi di lire per sementi, concimi, antiparassitari, altre spese per il bestiame (mangimi, ecc.), per gli ammortamenti e le spese varie necessarie per l'impresa agraria.

Il « conto » per il 1956 era il seguente :

miliardi di lire Produzione lorda vendibile

, Spese :

Concimi e antiparassitari Sementi selezionate

Mangimi e spese varie per il bestiame Altre spese Ammortamenti e assicurazioni 3.143 138 26 175 137 228 ? spese 704 9 netto 2.439

Il settore agricolo partecipa per circa 1/4 (25,7% nel 1955; 23,9% nel 1956) alla formazione del prodotto netto complessivo-. Poco, se si pensa che si tratta dell'attività di oltre 4/10 di tutte le forze di lavoro. Tuttavia la produzione è alta rispetto a quella degli altri paesi del centro e del nord Europa. E' noto infatti che la struttura della nostra formazione del reddito globale assomiglia ancora oggi a quella dei paesi di più basso livello di sviluppo economico del meridione europeo.

Siamo superati infatti soltanto dal Portogallo e dalla Grecia, la cui partecipazione del reddito agricolo alla formazione del reddito globale raggiunge le quote del 30,2% e del 38,4%.

Nel Belgio invece il reddito agricolo è pari solo all'8,3% del reddito complessivo, in Svezia al 10,1%, in Olanda al 12,5'%, in Germania occi-dentale al 10,7%, in Francia al 15,7%.

Naturalmente anche le quote medie di produzione lorda e di prodotto netto per ogni addetto al settore agricolo sono esigue : 400 mila lire circa all'anno di prodotto lordo, che si riduce a poco più di 300 mila lire di reddito netto. Nel 1938 il valore netto della produzione agricola pro-capite degli addetti era calcolato pari a 128 dollari per l'Italia contro cifre triple o quadruple degli Stati Uniti (587 dollari), dell'Inghilterra (563 dol-lari), dell'Olanda (502 doldol-lari), della Svizzera (428 dollari) e del Belgio

(420 dollari).

Abbiamo con i sopracitati dati indicato dei valori sommari per l'intero Paese, ma queste cifre non consentono che un esame molto gene-rico e vago per un'aggene-ricoltura come la nostra che ha per caratteristica principale l'estrema varietà degli aspetti regionali e locali.

Se difformi sono nelle varie zone d'Italia il clima e la natura del terreno, difformi le colture, i modi di coltivazione e le strutture dell'im-presa agricola, del tutto differenti sono anche i valori medi del prodotto netto per unità di superficie.

Infatti il valore medio per ettaro di superficie produttiva, calco-lato nel 1954 sulla base della produzione agricola-zootecnica-forestale, a 109 mila lire, differisce in modo notevole da zone a zone. Lo superano, ad esempio, le Provincie di Napoli, Ferrara, Milano, Mantova, Imperia, Cremona, Pavia, Ravenna, Padova, Verona, Modena, Gorizia e Brindisi che riescono ad assicurarsi un reddito medio per ettaro superiore alle 200 mila lire (per la sola provincia di Napoli la cifra è superiore alle 400 mila), ma ben 34 Provincie italiane non arrivano alle 100 mila lire per ettaro, e, tra esse, 7 non arrivano nemmeno a 50 mila lire (Belluno, L'Aquila, Potenza, Cagliari, Sassari, Novara, Aosta).

A determinare il valore complessivo della produzione lorda vendibile partecipano inoltre in diversa misura i principali settori di attività.

Primeggia il settore dei prodotti zootecnici e degli allevamenti, che offre oltre 1/3 del valore lordo- (oltre 1.000 miliardi di lire), seguono i prodotti delle coltivazioni legnose, con oltre 800 miliardi di lire, mentre il rimanente è coperto dalle coltivazioni erbacee (oltre 1.100 miliardi di lire) e dalle foraggere con circa 25 miliardi di lire.

Tra le coltivazioni erbacee il primo posto spetta ai cereali con oltre 700 miliardi di lire.

Ecco i dati riferiti al 1956 :

miliardi di lire

Cereali

Legumi, patate, ortaggi Coltivazioni industriali e floreali

716 348 129

Totale coltivazioni erbacee 1.193 Vino Olio Frutta Altre 333 82 386 62 Totale legnose 863 Coltivazioni foraggere Prodotti diretti allevamenti Prodotti zootecnici e vari

26 508 553

Totale 3.143

Sembrano cifre notevoli, ma complessivamente raggiungono soltanto il valore della produzione di 2 o 3 settori industriali.

Il « valore aggiunto » delle sole industrie « meccaniche » ha raggiunto nello stesso 1956 la quota di 1.048 miliardi di lire.

D'altro canto però va anche tenuto presente che l'agricoltura, con i suoi prodotti naturali o di prima trasformazione, offre la possibilità di importanti quote di « lavoro aggiunto » a molte nostre industrie.

Nel complesso di queste non si possono inserire soltanto quelle ali-mentari in senso lato, ma anche le industrie tessili e alcune industrie chimiche. Anche l'attività forestale, del resto, prepara un largo campo di attività alle industrie del legno e dei combustibili.

C) Evoluzione e tendenze delle produzioni agricole italiane (1).

Nonostante l'evoluzione della tecnica, i cereali costituiscono ancora uno dei pilastri fondamentali su cui si basa l'economia delle aziende agrarie e rappresentano il termine di paragone per giudicare come posi-tivi o negaposi-tivi i risultati di un ciclo produttivo.

La superfìcie ad essi destinata in Italia è diminuita sensibilmente rispetto all'anteguerra (—6,3%) e costituisce attualmente il 53% circa dell'intera superficie seminativa del paese contro il 58-59% del periodo 1936-1939. La maggiore contrazione si è avuta per il grano (da 5 milioni 116 mila ettari a 4 milioni 738 mila ettari) e per il granoturco (da 1 mi-lione 458 mila ettari a 1 mimi-lione 27 mila ettari), mentre le superfici inve-stite a orzo, avena e riso sono aumentate rispettivamente, sempre in con-fronto al quadriennio 1936-39, del 30,7%, 6,5%, 14,8%.

(1) Queste note sono tratte da estratti di elaborazioni del prof. Giuseppe Orlando e del dott. Innocenzo Sandri.

I cereali

Tab. 2. - Superfici e produzioni dei cereali.

1936-39 1951-54

superficie produzione resa media superficie produzione resa media

(000 ha) (000 q.) (q/ha) (000 ha) (000 q.) (q/ha)

Frumento 5.116 75.508 14,8 4.738 77.864 16,4 Segale 102 1.385 13,5 92 1.234 13,4 Orzo 192 2.215 11,5 251 2.819 11,3 Avena 431 5.660 13,1 459 5.414 11,8 Riso 149 7.761 52,2 171 8.683 50,8 Granoturco 1.458 29.602 20,3 1.271 28.279 22,2

Il frumento. — Rappresenta da solo il 18-20% del valore della produ-zione lorda vendibile nazionale e il 75% di quella cerealicola. Alla ridu-zione dell'ettaraggio, nel quindicennio esaminato, ha corrisposto un sen-sibile aumento delle rese, passate da q. 14,8 a q. 16,4, in virtù soprattutto del maggiore impiego di concimi e della diffusione di nuove razze di sementi selezionate.

L'aumento delle rese unitarie non è generale per tutte le regioni del paese. A forti incrementi verificatisi nelle zone più evolute del Nord e del Centro ha fatto riscontro una quasi stazionarietà delle zone arretrate dove le razze elette hanno ancora una troppo modesta diffusione. La loca-lizzazione territoriale dei grani teneri e dei grani duri è rimasta quella tradizionale : al Nord i primi (Piemonte, Lombardia, Veneto ed Emilia producono da sole il 50-55% della totale quantità di grano tenero), al Sud i secondi, tipici da pastificazione

La produzione media dell'ultimo quadriennio è stata di 78 milioni circa di quintali, ma su di essa hanno influito almeno due annate sfavo-revoli (1951 e 1954).

Il riso. — La coltivazione del riso è localizzata nelle regioni del Piemonte, Lombardia, Veneto, Emilia. Modeste produzioni si ottengono anche nel Lazio (provincia di Roma), in Calabria (Catanzaro e Cosenza) e in Sardegna (Cagliari), dove la coltura si va diffondendo specialmente nelle zone di recente bonifica. Rispetto all'anteguerra la produzione ha subito un aumento medio del 27% dovuto però soprattutto ad un aumento della superficie investita, passata da 144 mila ettari nel 1936 a 179 mila ettari nel 1954.

L'avvenire della coltura non desta comunque soverchia preoccupa-zione perché, se anche è aumentata considerevolmente la produpreoccupa-zione di alcune nazioni come Egitto, Turchia, Nord Africa, Romania, il nostro prodotto, assai pregiato, potrà essere facilmente collocato specialmente sui mercati europei (l'Italia produce il 60% della totale produzione del continente), se si riuscirà ad abbassare i prezzi di vendita in virtù della introduzione su larga scala di macchine per l'esecuzione delle operazioni colturali più costose, come la mietitura.

In confronto al periodo prebellico sono diminuite le esportazioni di risone (—31,9%), mentre sono aumentate quelle di riso lavorato

(+400%). I nostri maggiori clienti sono attualmente la Germania, l'Au-stria, l'Inghilterra e il Giappone che assorbono rispettivamente il 70% delle nostre vendite all'estero di riso greggio e il 15% e 42% di quelle di riso semigreggio e lavorato.

Il granoturco. — Le zone maggiormente interessate a questa col-tura sono attualmente il Piemonte, la Lombardia, il Veneto, il Friuli, l'Emilia, le Marche, la Campania, per le varietà a semina primaverile; la Lombardia, il Veneto e la Campania per le varietà a semina estiva. L'impiego delle varietà ibride ha determinato, come si è detto, consi-derevolissimi aumenti nelle rese unitarie, ma la diffusione di tali varietà è purtroppo localizzata nell'Italia settentrionale, dove si raggiungono percentuali financo del 61,0% (Lombardia) dell'intera superfìcie

meri-dionale. ' Il granoturco fornisce inoltre all'industria la materia prima (germe

di granone) per l'estrazione di olio di seme alimentare. Nel 1954 su 3 mi-lioni e 600 mila q.li di semi oleosi e parti di semi oleosi lavorati dall'in-dustria ben 1 milione 100 mila quintali (31%) erano costituiti da germe di granoturco.

Segale, orzo, avena. — Modesta è l'importanza della segale, del-l'orzo e dell'avena sia per l'economia delle aziende agrarie che per il mercato. Buona parte di esse (il 40% per la segale, l'80% per l'avena e l'orzo) viene reimpiegata per l'alimentazione del bestiame e la restante parte forma oggetto di un'attività commerciale modesta, limitata alle regioni principali produttrici (Piemonte, Lombardia, Toscana, Lazio, Puglie, Lucania, Sicilia).

Legumi e ortaggi

Le legummose. — Rispetto al periodo prebellico si è avuta una sen-sibile contrazione della superfìcie investita in leguminose. Contro 1 mi-lione 370 mila ettari del quadriennio 1936-39 sono stati infatti coltivati

1 milione 202 mila ettari nel 1954. Poiché le rese unitarie sono rimaste quasi invariate, anche la produzione in genere si è considerevolmente con-tratta: del 26% per la fava, dell'8% per il fagiolo, del 18% per le legu-minose minori (lenticchie, cicerchia, lupino). La coltivazione del cece invece è rimasta immutata per quanto riguarda la superfìcie, ma lo aumento delle rese unitarie da 3,9 a 5,3 q.li per ha. ha determinato un incremento produttivo del 38% circa.

Le zone di maggiore produzione sono attualmente il Piemonte, il Veneto la Campania, per il fagiolo ; la Sicilia, le Puglie, gli Abruzzi, per la fava, il cece, la lenticchia. La tecnica colturale è praticamente rima-sta la stessa di 10-15 anni or sono specialmente nelle regioni meridio-nali che costituiscono anche i principali mercati di rifornimento di questi prodotti, mercati praticamente dominati da pochi grandi commercianti grossisti e privi di una razionale organizzazione. Ciò dipende essenzial-mente dal modesto reddito che tali colture forniscono e dal fatto che il consumo di legumi secchi è andato in questi ultimi anni progressivamente diminuendo rimanendo elevato solo per le classi sociali meno abbienti e per le regioni più povere. La disponibilità media di kg. 11,3 nel 1936-39 si è abbassata a kg. 6,0 nel 1951 e a kg. 5,5 nel 1953 contro un aumento considerevole del consumo delle varietà fresche di natura orticola (kg. 5,0 nell'anteguerra e kg. 7,5 nel quadriennio 1951-54).

Gli ortaggi. — Sempre maggiore interesse riveste nel nostro paese la coltivazione degli ortaggi, sia per soddisfare le esigenze del mercato interno che le richieste dall'estero, ambedue, ma specialmente le prime, in netto incremento.

Il consumo di ortaggi infatti è passato da kg. 56 nel periodo 1936-39 a kg. 69,3 nel 1950 e kg. 72,5 nel 1953. La superficie investita è aumen-tata, per il periodo considerato e per i principali prodotti, del 14% circa, e la produzione del 9,1% per quanto riguarda le patate, del 37,8% per i pomodori, del 101,9% per i carciofi, del 42,6% e del 77,2% rispetti-vamente per i cavoli e i cavolfiori. Sempre più estesa la coltivazione delle sementi. Le regioni di maggiore produzione sono il Piemonte, il Trentino, il Veneto, l'Emilia, gli Abruzzi, la Campania.

La produzione di pomodori è localizzata prevalentemente nell'Emi-lia, nella Campania e in Sicilia per le varietà da conserva o da pelati e in Liguria, Marche, Lazio per le varietà da tavola.

Tab. 3. - Superfici e produzioni degli ortaggi.

1936-39 1951-54

superficie produzione resa media superficie produzione resa media

(000 ha) (000 q.) (q/ha) (000 ha) (000 q.) (q/ha)

Patata 402 27.165 67,6 392 29.651 75,6

Pomodoro 57 9.523 167,3 89 13.126 147,4

Carciofo 13 764 58,9 23 1.543 67,1

Cavolo 40 4.594 116,1 52 5.553 126,0

Cavolfiore 18 2.698 148,0 29 4.782 164,8

Al notevole aumento della produzione verificatosi nel dopoguerra non ha purtroppo corrisposto un incremento delle rese unitarie, nonostante la migliorata tecnica colturale, e ciò è da imputarsi in primo luogo allo scarso impiego di sementi elette. Un aumento delle rese unitarie potrebbe migliorare ancora sia il consumo interno (passato da kg. 16,5 pro-capite nel 1936-39 a kg. 19,3 nel 1954) che le nostre esportazioni, special-mente per quanto riguarda i prodotti dell'industria conserviera la quale è giunta ad assorbire, nel 1954, il 55% della totale disponibilità, contri-buendo ad attenuare lo squilibrio tra domanda ed offerta del prodotto naturale ed evitando un vero e proprio crollo dei prezzi.

L'esportazione si aggira intorno ai 500 mila q.li all'anno e risente notevolmente della concorrenza della produzione dell'Olanda e dei paesi balcanici, particolarmente quando si verifica, per effetto dell'andamento stagionale avverso, un certo ritardo nella maturazione del prodotto pre-coce. I principali paesi acquirenti sono la Germania (483 mila q.li nel

1954) e la Svizzera.

Nel complesso le prospettive della coltivazione degli ortaggi sono favorevoli sia per l'aumentato consumo interno che per le richieste

dal-l'estero, il cui valore ha raggiunto nel triennio 1952-54 circa 16 miliardi e 500 milioni di lire.

Colture legnose a frutto annuo

Tra queste colture il posto di gran lunga più importante è occupato dalla vite, il cui prodotto rappresenta il 13% in valore della totale pro-duzione vendibile agricola ed è pari all'incirca al valore del prodotto netto dell'industria tessile italiana.

La superficie coltivata a vigneto specializzato è salita nel 1954 a 1 milione e 57 mila ettari, con un aumento di 100 mila ettari circa rispetto al periodo prebellico ( + 11%). Si è invece contratta nello stesso periodo da 2 milioni 930 mila ettari a 2 milioni e 830 mila ettari la superficie investita a coltura promiscua (—3,2%).

La produzione ha raggiunto nell'ultimo quadriennio i 78 milioni di quintali contro 62 milioni di q.li del 1936-39, ma mentre l'incremento, pari al 26% circa, è stato ottenuto nelle zone del Nord attraverso l'aumento delle rese unitarie, nel Mezzogiorno si è realizzato mediante una cospicua estensione della coltura specializzata. Ciò pone il problema del miglioramento, in queste ultime regioni, della tecnica colturale e delle varietà impiegate nella creazione o ricostruzione dei vigneti.

Degna di rilievo è la diffusione, specialmente nelle zone di pianura del Lazio, della Puglia e della Sicilia, di vigneti di uva da tavola, la cui estensione è passata dai 17 mila ettari del 1938 agli attuali 35 mila ettari. Ciò potrà contribuire, purché nel contempo non si esageri nel-l'estendere anche la coltura di uve da vino, a equilibrare il mercato del-l'uva e del vino e a fornire ai consumatori varietà pregiate (come la Regina, l'Italia, il Moscato di Terraeina, la Baresana, ecc.) assai apprez-zate anche all'estero. La produzione di uva da tavola rappresenta attual-mente il 2,53% del totale quantitativo prodotto ed è concentrata, se si eccettua l'Emilia, in massima parte nell'Italia centro-meridionale ed insulare e particolarmente nelle Provincie di Latina, Roma, Chieti, Bari, Foggia, Ragusa, Trapani.

L'uva da vino in coltura specializzata è diffusa soprattutto in Pie-monte, Lazio, Puglia, Sicilia e rappresenta circa il 65-70% della totale produzione nazionale. La coltura promiscua è invece localizzata special-mente nel Veneto, nell'Emilia e nelle zone collinari dell'Italia centrale, tipiche per la conduzione dei fondi a mezzadria, come la Toscana e le Marche, dove il vigneto vanta tuttora — nonostante la scarsa meccaniz-zazione che ne ostacola il rinnovamento — una lunga e gloriosa tra-dizione.

Olivo. — La forte importazione di olii vegetali, pari circa a 1 mi-lione di q.li all'anno in media, cioè ad 1/3 del nostro fabbisogno di olii vegetali, rende di sempre maggiore interesse ed attualità la coltura

del-l'olivo. Non si esagera affermando che in questo settore il nostro Paese può compiere progressi veramente notevoli, considerato che l'ambiente mediterraneo e le regioni meridionali in particolare rappresentano

l'am-biente più idoneo per tale coltura.

La superficie attualmente coltivata è di 880 mila ettari circa in col-tura specializzata contro gli 815 mila ettari del 1936-39 ( + 6,8%) e di 1 milione 358 mila ettari in coltura promiscua ( + 1% rispetto all'an-teguerra).

Nell'Italia settentrionale l'olivo è presente quasi esclusivamente in

Liguria come coltura specializzata, spingendosi dalle rive del mare fino alle prime propaggini appenniniche. Modeste produzioni si hanno anche nelle Provincie di Brescia, Verona e Forlì. Nel resto del paese la coltura specializzata prevale nel Lazio, in Campania, Puglia, Calabria e Sicilia, mentre in Toscana, Umbria e Abruzzi predomina la coltura promiscua. Le regioni del Mezzogiorno forniscono il 50-55% della totale produzione nazionale e quasi tutta la produzione di olive da tavola, peraltro assai modesta essendo in media di 250-350 mila q.li all'anno.